Editoriale
di Mario Perniola

 

Cultura moderata o moderazione della cultura?

Nell’uso della parola “radicale” la filosofia del Novecento si è divisa. Alcuni hanno dato a questa parola un significato positivo, come Husserl, per il quale il sapere filosofico, in quanto scienza rigorosa, deve essere radicale sotto ogni riguardo. Altri invece, come Popper, hanno espresso una profonda diffidenza nei con­fronti di tutto ciò che si presenta come “radicale”, considerandolo come l’espressione di una mentalità utopistico-totalitaria che pretende di cambiare il mondo alla radice senza alcun riguardo nei confronti dell’esistente.

Negli anni Novanta la parola è stata usata nel mondo culturale prevalentemente in senso positivo: gli straordinari successi della tecnologia, uniti a un clima socio-economico euforico e al tramonto dei totalitarismi politici, hanno favorito il diffondersi di una sensibilità orientata verso l’oltrepassamento dei limiti e caratterizzata da una certa bramosia dell’estremo in tutti gli ambiti dell’esperienza (dal postumano al sesso estremo). In seguito all’Undici settembre e alla guerra dell’Afghanistan sembra invece che la lancetta del barometro culturale si sia spostata in direzione opposta: prevale così l’idea che il radicalismo produca da un lato terrorismo e dall’altro bellicismo. Sono perciò in ascesa le quotazioni di una presunta “cultura moderata”. La parola “radicale” si accompagna all’immagine della cata­strofe e al rombo dei bombardieri americani. La parte monografica di questo numero di «Agalma», centrata sulla nozione di modus, che in latino vuol dire “misura”, e sulle parole derivate (modo, moda, comodo, rimedio) costituisce una buona occasione per mettere a fuoco queste oscillazioni del sentire attuale. Ma essa non esime da alcune considerazioni generali sulla radicalità e sulla moderazione.

La prima osservazione è che “moderato” ha una pregnanza semantica molto minore di “radicale”: nella sua accezione politica, suona come un eufemismo per “conservatore”, “tradizionalista”, se non “reazionario”; il moderatismo non è infatti una teoria politica precisa. Intorno al “radicalismo” si concentrò invece l’imbarazzo del comunismo reale degli anni Sessanta: era infatti diventato impossibile annullare l’impatto filosofico della famosa frase di Marx “essere radicale è afferrare la cosa alla radice”. Alla polemica di Lenin contro il linke Radikalismus (il radicalismo di sinistra, tradotto in italiano con “estremismo”), da lui condannato come la malattia infantile del comunismo, fu risposto che questo era piuttosto “il rimedio alla malattia senile del comunismo”.

In secondo luogo, questa enfasi filosofica posta sul termine “radicale” (che risale all’importanza assunta dal dubbio cartesiano nello svolgimento della filosofia moderna e ai suoi precedenti antichi), non trova corrispondenza negli studi culturali, i quali nutrono un certo sospetto nei confronti di quanto si presenta come “radicale”, “puro”, “originario” ecc., preferendo lo studio di ciò che è ibrido e mescolato. Si ha perciò l’impressione che negli studi culturali l’alternativo tenda a separarsi dal radicale, ma non dall’estremo: come ciò possa avvenire non è chiaro. Il rischio è che sotto l’etichetta di “alternativo” e di “comunicativo” passi un confusionismo conciliante cui è venuta meno la percezione degli opposti. I poteri con cui di volta in volta nella storia hanno dovuto scontrarsi gli intellettuali hanno sempre avuto interesse a imporre una visione armonica e priva di conflitti: invece “la vita intellettuale è innanzitutto conflitto e dissenso”, come scrive Bsndall Collins nella prima riga della sua monumentale The Sociology of Philosophies. A Global Theory of Intellectual Change (Harvard University Press, 2000). Se per “cultura moderata” si intende una specie di eclettismo che dà ragione a tutti e che mette perciò nell’impossibilità di perseguire coerentemente una qualsiasi strategia teorica, allora non è azzardato dire che tale bramosia consensuale non è cultura. E non è nemmeno democrazia. Una società in cui viene meno l’aspirazione all’arduum et difficile e la capacità di ammirare non potrà mai essere una società colta, né democratica.

È molto significativo che sia stato proprio Popper, il nemico del radicalismo, a mettere in guardia in uno dei suoi ultimissimi testi nei confronti di un potere che si è rivelato massimamente devastatore e distruttivo: quello della televisione (in Cattiva maestra televisione, Marsilio, 2002). Tuttavia a minacciare la cultura non è tanto la televisione in sé, quanto quel processo di livellamento della varietà delle esperienze su di un solo registro, quell’appiattimento delle molteplici dimensioni della realtà sull’attualità colta nella sua immediatezza, di cui la cronaca televisiva in ripresa diretta costituisce uno dei punti culminanti. E quando in ripresa diretta avviene una catastrofe di dimensioni immani, come gli attentati dell’Undici settembre, ci si rende conto che l’attualità massmediale non è affatto l’esperienza del presente, ma proprio al contrario la sua mancanza, la sua inconsistenza, il suo venir meno; infatti questa attualità è dominata da una febbre distruttiva, da una fame insaziabile che divora tutto ciò che tocca e che ci rende segretamente complici di ogni annientamento. Il processo di omolo­gazione e di livellamento ha origini remote, ma senza dubbio è nell’Ottocento che si è accelerato. I totalitarismi novecenteschi, contro cui Popper ha giustamente combattuto, ne sono la manifestazione rozza e brutale. Tuttavia l’idolatria della comunicazione massmediale ne rappresenta il punto di arrivo. Essa esercita su tutto ciò che tocca una estrema violenza, appiattendolo e banalizzandolo, privandolo di ogni luce e interesse. Appare allora chiaro quanto la parola “radicale” sia pericolosa quando è messa al servizio non della rigorosità ma dell’esagerazione, non della risolutezza ma dell’oltranza.

L’alternativa alla violenza appare dunque risiedere nella cultura, a cui appartiene da sempre una specie di essenziale moderazione, la quale non può essere scambiata per timidezza, per timore e tantomeno per debolezza o per cedimento. Questa moderazione deriva dalla consapevolezza che non esiste un solo piano, ma — secondo la felice espressione di Deleuze e Guattari —  mille piani differenti. Ciò non vuoi cadere in un disperante relativismo, perché all’interno di ogni piano esiste la possibilità di misurare e quindi di valutare: nonché last but not least di onorare la persona di cui non si condividono le idee.