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6.1) VARIE EVENTUALI - MOZIONE RELATIVA AL DISEGNO LEGGE SULLA RIFORMA UNIVERSITARIA

Il d.d.l. licenziato il 28 ottobre scorso (c.d. Bozza-Gelmini) prefigura una radicale riforma dell’Università. In considerazione della generalità del disegno e della sua portata innovativa, è auspicabile che, nel prosieguo del percorso legislativo, si realizzi quel coinvolgimento del mondo dell’Università che sino a questo momento è mancato, avviando un confronto corale proporzionato all’ambizione della proposta. Il rilievo della posta in gioco non consente, infatti, di rinunziare al patrimonio di esperienze e competenze che l’Università italiana è in grado di mettere a disposizione dei decisori politici.
In questa prospettiva, il Senato Accademico dell’Università di Roma “Tor Vergata” intende dare un primo contributo critico, rivolto ad evidenziare i maggiori limiti della bozza attuale ed alcuni rilevanti problemi da essa aperti.
Prima di scendere nel merito delle singole questioni, è il caso di sottolineare che – così com’è – la bozza dà luogo a delicati problemi di costituzionalità.
Per rendersene conto, è sufficiente ricordare che l’autonomia universitaria di cui all’art. 33 u.c. Cost. è finalizzata alla garanzia delle libertà d’insegnamento e di scienza, di cui all’art. 33, comma 1, Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 1017/1988). Di qui – tra l’altro – il corollario che l’autonomia debba essere espressione di autogoverno dei soggetti titolari di tali libertà e, più, in generale, delle componenti della comunità universitaria.
Su queste basi, sono, quindi, da considerare di dubbia legittimità le previsioni che spostano il governo della struttura a componenti esterne ad essa.
Il rilievo vale, in particolare per il CdA, il quale, per disposto legislativo, non solo deve essere composto, per almeno il 40%, da membri non appartenenti ai ruoli dell’Ateneo, ma non è presieduto di diritto dal Rettore dell’Università, bensì da un membro eletto dallo stesso CdA (art. 2, comma 2, lett. g).
I dubbi di legittimità crescono, se ci considera che questa struttura non è chiamata soltanto alle decisioni di ordine finanziario, ma a “funzioni di indirizzo strategico”, alla deliberazione dell’attivazione e soppressione di corsi e sedi (art. 2, comma 2, lett. g), all’approvazione, unitamente al Senato Accademico, dello Statuto (art. 2, comma 6), alla codeliberazione di tutti i regolamenti (sui quali l’art. 2, comma 2, lett. d, ne richiede il previo parere “favorevole”), alla nomina del Direttore generale (art. 2, comma 2, lett. i), alla chiamata dei docenti, su proposta del Dipartimento e su parere favorevole della struttura deputata a succedere alle Facoltà art. 9, comma 2, lett. f).
Sempre in termini di legittimità, appare censurabile il comma 1 dell’art. 1, il quale, indicando le funzioni fondamentali dell’Università, “dimentica” la ricerca scientifica. Preferibile è la formulazione dell’art. 6, comma 4, l. n. 168/1989, il quale, non solo chiarisce che “le università sono sedi primarie della ricerca scientifica”, ma trae il coerente corollario di questa connotazione, garantendo l’accesso dei singoli docenti e ricercatori e delle strutture ai fondi ad essa destinati.
Ma non sono solo questi i dubbi che il provvedimento pone, dal punto di vista della sua legittimità costituzionale.
Infatti, una volta prevista la soppressione delle Facoltà e il passaggio ai Dipartimenti delle competenze relative alla didattica (art. 2, comma 3, lett. a), il progetto, in considerazione del fatto che i singoli cicli formativi non si esauriscono all’interno di un singolo Dipartimento, ma richiedono il concorso di più Dipartimenti, facoltizza i Dipartimenti a ricostituire, oltre che le Scuole, le Facoltà (art. 2, comma 3, lett. c). Queste ultime tuttavia – secondo questo modello – non sarebbero più governate da collegi composti da tutti i titolari della libertà d’insegnamento e di scienza di una certa area, ma da collegi ristretti costituiti dai direttori dei Dipartimenti, da almeno un coordinatore di corso di studio, dal presidente della scuola di dottorato e da una rappresentanza degli studenti. In tal modo, i singoli docenti verrebbero tagliati fuori da una serie di decisioni riguardanti la didattica (e, quindi, sarebbero, in qualche modo, menomati nella loro libertà d’insegnamento).
Passando al merito del provvedimento, occorre considerare l’impatto che la scelta della precarizzazione del personale docente rende prevedibile.
Nulla, infatti, garantisce che, quand’anche meritevoli, i ricercatori a tempo determinato trovino spazio nei ruoli dei professori associati. Se si considera che l’accesso alla qualifica di ricercatore a tempo determinato può essere preceduta da alcuni anni di contratto, si constata agevolmente che questa forma di precariato senza garanzie di sbocco può protrarsi per un decennio (e più, se si considera il triennio di dottorato). Il che significa che studiosi formati, giunti alla maturità scientifica, rischiano di doversi congedare dall’Università, dovendosi accontentare della “valutabilità delle attività da loro svolte […], ai fini dell’ammissione ai concorsi pubblici” (art. 12, comma 11). Con prospettive del genere risulta difficile contrastare il doloroso fenomeno della fuga dei cervelli e risulta altrettanto difficile attirare nell’Università italiana giovani talenti stranieri.
Non può, inoltre, ignorarsi il quadro finanziario che fa da sfondo a queste previsioni. Non è, infatti, immaginabile che un’ambiziosa riforma dell’Università possa essere realizzata a costo zero (o, addirittura, a costi decrescenti), tanto più in una fase, come l’attuale, che richiederebbe un aumento dell’impegno finanziario per la ricerca e la formazione. È, poi da segnalare che le misure che escludono l’Università da un turn-over fisiologico finiscono per condannare il sistema universitario italiano ad una futuro di riduzione qualitativa e quantitativa del servizio scientifico e didattico che è chiamato ad assicurare. Il che, in prospettiva, presenta un costo sociale elevatissimo. È, infatti, agevole prevedere che, in un quadro d’impoverimento della ricerca e dell’università pubblica, soltanto i più abbienti saranno in condizione di formarsi all’estero od in strutture private, mentre gli altri – anche se capaci e meritevoli (per richiamare l’art. 34, comma 2, Cost.) – saranno condannati a fruire di un servizio declassato. Con il che, la tradizionale funzione di “ascensore sociale” del sistema universitario pubblico risulterebbe fatalmente vanificata.
In questa sede non è il caso di scendere ulteriormente nel dettaglio e di soffermarsi sulle altre parti del disegno di legge che giustificano riserve di legittimità e di merito (basti pensare all’ampiezza e alla non sufficiente determinatezza di deleghe legislative su punti cruciali, all’eccessiva compressione dell’autonomia universitaria od alla disciplina dei ricercatori a tempo indeterminato, soprattutto per quanto riguarda il trattamento in ordine alle chiamate dopo l’abilitazione alla seconda fascia) . Ai nostri fini è sufficiente segnalare che, se il provvedimento giungesse in porto nella sua versione attuale, non solo sarebbe esposto all’intervento repressivo della Corte costituzionale, ma non raggiungerebbe l’auspicato risultato del rilancio del nostro sistema formativo, né darebbe una prospettiva adeguata ai bisogni ed alle speranze delle giovani generazioni.
Il Senato accademico dell’Università di Roma “Tor Vergata”, confidando che possa avviarsi una costruttiva fase di consultazione delle Università da parte delle Istituzioni politiche, conferma la propria piena disponibilità a dare il suo contributo all’elaborazione della riforma.

DIRETTORE AMMINISTRATIVO

IL RETTORE

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