Intervento n. 1
Etimologia del termine Komodía

L’ipotesi più probabile sull’etimologia del termine greco Komodía (da cui il latino comoedia) sarebbe quella che lo fa derivare da Kòmos (“corteo”, “processione”) e Odè (“canto”), cioè “canto del corteo dei devoti di Dioniso”; il coro infatti sarebbe stato il nucleo originario di questa, come dell’altra forma teatrale, la tragedia.
Stando a quanto dice Aristotele sappiamo infatti che la matrice delle due forme di teatro fu comune, entrambe ebbero origine da “Coloro che intonavano il ditirambo”.
Il ditirambo era infatti un canto, nella forma metrica del ditirambo per l’appunto, che veniva intonato durante il culto di Dioniso, in processioni religiose che, sia per il condizionamento del ritmo incalzante e ripetitivo, sia per l’uso di alcool e droghe, sconfinavano spesso in manifestazioni di esaltazione collettiva e di più o meno sfrenato erotismo.
Questo aspetto della tragedia, comune alla commedia, è ampiamente descritto da Nietzsche, nella Nascita della tragedia, in cui il filosofo tedesco mette bene in evidenza la contrapposizione tra il concetto di Apollineo e quello di Dionisiaco.
Apollineo è il lato razionale, equilibrato dell’uomo, è tutto ciò che rappresenta armonia, riflessione, senso della misura; quello che probabilmente Platone definirebbe, secondo una sua celebre metafora, il cavallo bianco della nostra anima.
Dionisiaco, al contrario, è il cavallo nero, quello di cui si fa un’enorme fatica a trattenere le redini. È la parte istintiva, in cui le pulsioni erotiche prendono il sopravvento, ma è anche l’estro, la creatività pura, la passione.
L’arte sarebbe il raggiungimento dell’equilibrio tra le due anime, quella apollinea e quella dionisiaca.

La Commedia in Grecia

Tre fasi: I filologi di età ellenistica (III sec. a.C.) distinsero tre fasi o momenti successivi nell’evoluzione della commedia in Grecia: la commedia “antica” (archàia), quella “di mezzo” (mése) e la commedia “nuova” (nèa).
Della vasta produzione che questi generi dovettero sfornare, ci restano pochi frammenti e alcune commedie intere soltanto di due autori, probabilmente i più importanti, rispettivamente Aristofane per l’ archàia e Menandro per la nèa.

Aristofane

Di Aristofane (445-380 circa a.C.) ci sono state tramandate undici commedie, i cui argomenti sono strettamente connessi con l’attualità politica Ateniese. Al centro degli interessi del poeta e del suo pubblico le vicende politiche: la guerra tra Sparta e Atene; gli scontri tra il partito della pace e quello della guerra; i mali e i pericoli della demagogia; la corruzione; i rischi di degenerazione morale (famoso l’attacco a Socrate nelle Nuvole). Tra l’altro bisogna ricordare che grande impulso al teatro viene dato, proprio in questa fase della vita politica ateniese, da Pericle, che istituisce quasi un teatro di Stato, al quale tutti i cittadini possono partecipare.
La potente carica fantastica ed espressiva di Aristofane si manifesta nella ridicolizzazione degli avversari (gruppi di potere, correnti d’opinione, singoli individui), attaccati con tutte le armi dell’aggressione comica: satira, caricatura, sarcasmo, beffa, doppio senso osceno, invettiva, dileggio e persino insulto. Il suo è un comico d’occasione, riferito a fatti dell’epoca, a persone presenti al momento; si tratta di spunti offerti, per una frecciatina caustica, per un insulto divertente, dalla cronaca politica, militare, economica, da tic, difetti, vizi di qualche particolare individuo.
Il riso, nelle commedie di Aristofane, si genera anche grazie al gioco linguistico, verbale, quello della confusione dei termini, del vocabolo che ne sostituisce di colpo un altro, delle storipiature, di falsi legamenti e separazioni di parole. Nella Pace, ad es., Aristofane gioca sull’ambiguità dell’espressione: Dios kataibatou (Zeus che discende dal cielo), che nella recitazione può suonare identico a Dios skataibatou, con un inedito riferimento tra Zeus e la cacca.
Vi è ancora in Aristofane una deformazione provocatoria del linguaggio aulico (della tragedia), sacrale, spentamene ufficiale e in voga tra gli intellettuali.
La comicità di Aristofane non è legata a un personaggio unico e ricorrente: le sue invenzioni non costituiscono un serial, ogni suo testo genera personaggi risibili o spiritosi sempre diversi.
Altra caratteristica della commedia di Aristofane è la presenza di elementi fantastici e surreali (ad es. il coro di alcune commedie è costituito da vespe, uccelli, rane, nuvole); nelle Vespe, ad es., inscena un processo di un cane intentato contro un altro cane e entrambi sono chiamati a deporre in tribunale mediante muti cenni e servendosi di oggetti, come un piatto, delle pentole,una grattugia.
Aristofane è acuto, beffardo, sorprendente e paradossale, specie quando trasforma oggetti in persone e viceversa.

Menandro

Diversissima dalla commedia antica, nei tempi e nello stile, è la nèa, che tocca il suo culmine con Menandro (342/341-293/292 circa a.C.), quasi un secolo dopo Aristofane.
Ci restano pochi frammenti, una sola commedia intera (Dўscolos, “Il misantropo”) e spezzoni abbastanza ampi di una decina di altre commedie.
La produzione menandrea rispecchia un contesto storico profondamente cambiato: in seguito al declino delle strutture della pόlis, dopo la conquista della Grecia da parte di Alessandro Magno, la politica non appassiona più il popolo ateniese. L’attenzione si sposta dall’uomo sociale, all’uomo nella sua intimità. Il dibattito verte su temi psicologici e morali, sui problemi della vita quotidiana, specialmente per ciò che concerne le relazioni degli individui con l’ambiente famigliare e sociale. Il motivo dominante della Commedia Nuova è l’amore. Vengono alla ribalta vicende di giovani innamorati ostacolati nei loro amori dalla severità dei padri autoritari ed avari; tensioni e turbamenti fra giovani coniugi causati dalla gelosia, da incomprensioni o da equivoci; storie complicate di fanciulle “esposte” (cioè abbandonate subito dopo la nascita) o rapite dai pirati e vendute a mercanti sfruttatori di fanciulle (prostitute) che, dopo una serie di vicissitudini, ritrovano i genitori e possono sposare i giovani che le amano (RICHIAMO ALLA FORMA “ROMANZO” – I cinque romanzi greci conservati per intero, nei codici medioevali, sono tutti di età ellenistica e romana, II – III – IV – sec. d.C., essi si presentano come letteratura d’intrattenimento, destinata ad un pubblico medio. Essi presentano quasi tutti uno schema fisso: due giovani s’incontrano e s’innamorano, ma la coppia viene separata ed è soggetta ad una serie di traversie, volute dagli dei o da una Fortuna quasi divina; alla fine i due giovani si ricongiungono felicemente).
Le trame sono molto complicate, ma anche ripetitive; su tutto domina la “Fortuna”, che porta allo scioglimento felice, trasmettendo un messaggio ottimistico e consolatorio. Il complicato ordito delle commedie esigeva una spiegazione preliminare per il pubblico: essa veniva affidata a un Prologo, di varia forma. Un dio, o un’astrazione personificata precisa gli antefatti della vicenda, parla di sé, del carattere dei personaggi, magari specifica anche gli esiti.
Vi è anche un messaggio morale: il lieto fine appare come la meritata ricompensa di comportamenti ispirati alla ragionevolezza, al senso della misura, ai buoni sentimenti; la vita può essere più piacevole e serena grazie alla “filantropia” (filόs e àntropos) all’amicizia, alla solidarietà e alla tolleranza reciproche.
Menandro fonde due poli che nella tradizione andavano separati: la più normale dimensione familiare e gli eventi più sorprendenti e vistosi si incontrano a metà strada, generando toni medi, in cui il domestico viene vivificato e il meraviglioso addomesticato.
La comicità menandrea è misurata e pacata; all’aggressività graffiante e corrosiva, alla violenza verbale della commedia antica, subentra un umorismo sorridente e mai volgare, l’arguzia bonaria, l’ironia sottile.
I personaggi sono il risultato di un processo di tipizzazione avviatosi con l’archàia e che porta al formarsi di caratteri convenzionali, dotati di tratti costanti: il vecchio padre severo e attaccato al denaro; il giovane perdutamente innamorato e sprovveduto, oppure scapestrato e senza mezzi, e dunque sempre bisognoso di aiuto di amici o servi astuti; la cortigiana avida e sfacciata, capace però anche di buoni sentimenti e di generosità; il soldato rozzo, prepotente e spaccone; lo schiavo pigro e pauroso, ma al tempo stesso intelligente e scaltro; il lenone empio e crudele; il cuoco spavaldo e grasso; il parassita adulatore e ingordo.
Anche nella nèa però rimangono alcune importanti convenzioni teatrali: i monologhi, le battute “a parte”, l’apostrofè rivolta direttamente al pubblico specialmente nei prologhi e negli epiloghi.
Importante è inoltre la drastica riduzione dell’elemento lirico-musicale, cioè il coro. I canti corali, che erano nella commedia antica le parti più impegnate ideologicamente, più esplicitamente politiche, si trasformano in semplici intermezzi fra un atto e l’altro, puri riempitivi senza rapporto con l’azione scenica.

Il Coro

Nella Commedia Antica, il coro, che era composto da dodici corifei disposti variamente in scena, di solito quattro file da tre, si riserva dei canti, ma esso dialoga di continuo con i personaggi, costituisce una presenza ficcanaso e battagliera. Ha poi un momento di gloria, la parabasi: una sfilata in passerella, senza le maschere, che permetteva al capocoro di presentarsi davanti al pubblico e di parlare, rompendo l’illusione scenica. In questa fase l’autore aveva anche la possibilità di esporre un proprio punto di vista su temi letterari o politici.
Il coro inoltre si esprimeva anche in coreografie, di cui si hanno anche indicazioni sommarie, quali “con le mani sopra la testa”, ma non si capisce se le mani sono congiunte, come in preghiera, oppure tendenti verso l’alto, o ancora appoggiate sulla testa. Insomma si sa che il coro danzava, si muoveva, faceva persino una sorta di controscena, ma non se ne conoscono i dettagli.
Con la Commedia Nuova si registra una progressiva riduzione delle parti corali, un calo d’importanza del ruolo che il coro ricopriva all’interno del testo, dell’azione scenica. In varie opere di Menandro a noi pervenute troviamo l’annotazione korou, là dove l’azione si interrompe, per indicare il passaggio da un’unità recitativa ad un’altra, attraverso un pezzo lirico autonomo rispetto alla vicenda.

La maschera

Nell’antica Grecia gli attori, sia per il genere comico che per quello tragico, indossavano una maschera. Molti significati profondi possono essere attribuiti all’uso della maschera nel teatro greco: la maschera come elemento immobile, l’oracolo, il destino contro la parola mobile e fluida; la maschera come massimo di vita e morte al tempo stesso, si apre al visibile e all’invisibile, all’apparente e all’assoluto; la maschera che crea la convenzione, che rende la finzione del teatro accettabile proprio perché convenzionale. Ma comunque resta il fatto, che la maschera aveva una funzione pratica: consentiva di moltiplicare i ruoli ricorrendo a pochissimi attori. Non solo, ricordiamo che nel teatro greco non esistevano attrici e che dunque la maschera permetteva ad attori di interpretare ruoli femminili.

Deus ex machina

Il deus ex machina, inventato dai greci, è entrato (oltreché nel linguaggio metaforico) nel bagaglio drammaturgico dei secoli successivi. Lo ritroviamo sia nei romanzeschi “miracoli” medioevali in cui, ad es., uno scellerato alla fine viene salvato per l’intervento della Vergine o da un angelo, sia nelle riprese italiane di temi classici. La soluzione che viene dall’alto quando la situazione è irrimediabilmente compromessa si trova anche nel grande teatro del ‘600 e del ‘700 (si pensi al Don Giovanni di Mozart/Da Ponte).



Dott.ssa Pamela Parenti