Care compagne, cari compagni, a nome di tutta la Cgil ringrazio
i nostri ospiti e tutti coloro che con la loro presenza qui oggi dimostrano
attenzione e rispetto all’ evento che celebriamo.
Per molti di loro - segretari di partito, come Piero Fassino e Franco
Giordano, uomini politici, amministratori - la Cgil, il sindacato, il mondo
del lavoro hanno costituito un punto di riferimento ideale, politico, morale.
Ne sono stati compagni di viaggio, ne hanno sostenuto le lotte, i successi ed
anche le sconfitte. Altri ne sono stati militanti, dirigenti per una parte
importante della loro vita. Hanno contribuito a fare la Cgil così come essa è
oggi, e come è stata in passato.
Saluto in modo particolare due compagni che sono stati importanti per me e
per la Cgil, Antonio Pizzinato e Sergio Cofferati, uomini che partendo
proprio qui, da Milano, hanno avuto la responsabilità di guidare la Cgil in
anni difficili ed ai quali rinnovo l’affetto e il ringraziamento di tutti. A
Bruno Trentin, vorrei dire che la forza e l’affetto che questa sala oggi ha
dentro di sé possa aiutarlo ad uscire dalla sua situazione e a farlo tornare
presto fra di noi.
Ringrazio tutti coloro che in ogni parte del nostro paese, e anche
all’estero, i lavoratori emigrati ed i figli, hanno fatto vivere il
centenario della Cgil; ai tanti uomini e donne di cultura, teatro, cinema,
letteratura, arti figurative e musica che hanno prestato la loro opera e la
loro passione civile per far tornare il lavoro al centro della ricerca e
della produzione culturale. Penso alle belle musiche del maestro Piovani e al
bel manifesto di Ennio Calabria che celebra i nostri cento anni.
Al Presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro rinnovo e confermo la nostra stima
e amicizia, anche nel nome della vittoriosa battaglia condotta insieme in
difesa della Costituzione.
Ringrazio Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente che ha seguito ed incoraggiato
il nostro lavoro di memoria, dando l’Alto Patronato del Presidente della
Repubblica alle nostre iniziative.
A Giorgio Napolitano - che aprì, con la tavola rotonda sui diritti del lavoro
e la Costituzione, le celebrazioni del centenario – la stima e l’affetto per
quello che ha fatto e fa per i lavoratori e per il riscatto del suo
Mezzogiorno.
E’ stato per tutti un grande onore essere ricevuti al Quirinale, la casa
degli italiani: lo abbiamo vissuto come il riconoscimento più alto che le
istituzioni della Repubblica potevano conferire alle lotte del lavoro ed al
contributo dato alla libertà e alla democrazia di tutti. Ed è stata una delle
esperienze più importanti anche per molti di noi.
Saluto il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, con il quale abbiamo
vissuto anni e anni di lavoro comune, e con il quale abbiamo per onestà
talvolta anche litigato, e sul quale sappiamo di poter contare anche
dall’alto seggio che oggi ricopre; saluto il vicepresidente del Senato,
Milziade Caprili per l’onore che ci fa, anche a nome di Franco Marini, e il
presidente del Cnel. E tutti gli esponenti del governo presenti, i ministri,
i sottosegretari – con un affetto particolare per quelli che vengono dalla
nostra storia e dalla nostra esperienza - ed in particolare il Presidente del
Consiglio Romano Prodi, che ci ha onorato della sua presenza in giorni di
evidente impegno e responsabilità.
Un ringraziamento sincero lo rivolgo a Raffaele Bonanni ed ai segretari degli
altri sindacati presenti, a Renata Polverini; voglio ribadire a Raffaele che
la forza del sindacalismo confederale sta oggi più che mai nella ricchezza
dei suoi pluralismi, e nella sua unità. Unità che resiste anche di fronte
alle divisioni più profonde, perché è proprio il valore comune della
confederalità, dello stare assieme, della solidarietà, che consente sempre di
ritrovarsi e sempre di ripartire insieme.
Saluto e ringrazio le associazioni imprenditoriali tutte, quelle presenti e
quelle che ci hanno inviato un messaggio di augurio.
E infine un grazie ai nostri graditissimi ospiti internazionali. Grazie a
John Monks e a Guy Ryder, per il lavoro che svolgono e per compiti che ci
aspettano al Congresso di Vienna di fine mese dove nascerà un nuovo sindacato
mondiale, ed al congresso di Siviglia della Ces della primavera prossima. E a
tutti i nostri ospiti e compagni dei sindacati stranieri presenti, con i
quali condividiamo problemi, domande e risposte, e un impegno comune e
solidale. Ed ai quali dico: non solo incontriamoci, ma diamo vita ad un vero
sindacato europeo, perché di questo c’è bisogno.
Care compagne e cari compagni, il 1 ottobre del 1906 nei locali della Camera
del Lavoro, al termine del Congresso delle organizzazioni di Resistenza, i
cinquecento delegati presenti in rappresentanza di oltre duecentomila
iscritti decidevano a maggioranza, con il voto contrario dei delegati
rivoluzionari – che avrebbero poi abbandonato il congresso – di “costituire
in Italia la Confederazione Generale del Lavoro”, affidandole la “direzione
generale assoluta del movimento proletario, industriale e contadino al di
sopra di qualsiasi distinzione politica”.
Certo oggi, rileggendo lo statuto del 1906 appare chiaro come molte cose
appartengano al linguaggio sindacale di quel tempo e quella direzione
“assoluta” del movimento suscita qualche dubbio, solo che si pensi al vario,
spesso caotico stato delle vertenze, lotte di resistenza e di conquista che
accompagnarono il lungo e spesso difficile processo di coscienza di sé e di
emancipazione del lavoro, nelle forme delle trasformazioni produttive tra
l’800 ed il ’900. Nondimeno quel termine esprimeva un bisogno di
coordinamento, di direzione, di unità, capace di tenere assieme i mille
rivoli nei quali il nascente movimento operaio e la condizione bracciantile
nelle campagne si andava configurando. Quella direzione che in fondo si era espressa
nello sciopero generale di Genova del 1900 e nello sciopero generale del
1904, il primo nella storia d’Italia.
Qui sta la forza e la fragilità della Cgdl delle origini; stretta tra le
federazioni di categoria già organizzate e le Camere del Lavoro di diverso
orientamento politico e sindacale. Un connotato che ne segnerà la storia fino
alla prima guerra mondiale, con un dibattito permanente proprio di tutta
l’esperienza europea dei primi del 900 attorno al rapporto fra azione
sindacale e azione politica, fra sindacati e partiti.
Il 1906 non è solo la data in cui nasce la Cgdl. In Inghilterra è l’anno in
cui il partito laburista, fondato dalle Trade Unions, partecipa alle sue
prime elezioni; in Germania è l’anno in cui si raggiunge l’accordo fra il partito
socialdemocratico ed i sindacati tedeschi.
Da noi, la scelta di quel giorno costituisce il punto di avvio di una storia
nuova, quella che attraverserà tutto il novecento italiano ed europeo fra due
conflitti mondiali, le guerre coloniali, la dittatura fascista, la lotta di
liberazione, la rinascita con il patto di Roma del sindacato, la divisione
del 1948, la configurazione definitiva che ci porta fino ai giorni nostri.
Quel soggetto confederale, che nasce quel giorno, è altro e più delle
rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo
delle origini. Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato.
Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca
permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e
un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno
segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati.
Solo un sindacato confederale – quello di ieri e quello di oggi - può tenere
unite, dentro di sé, le ragioni dei lavoratori della terra a quelli
dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del sud e quelli del
nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati,
gli anziani ed i pensionati.
Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui,
in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea – come ci
ricorda Vittorio Foa – per la quale battendosi per i propri diritti si pensa
insieme sempre ai diritti degli altri.
Nel corso delle manifestazioni del centenario abbiamo ritrovato nomi e volti
in parte dimenticati: uomini e donne che sono stati i veri protagonisti di
questa storia, e organizzatori sindacali di grande valore. Argentina
Altobelli, la donna che guidò prima del fascismo quella che era la categoria
più grande, quella dei lavoratori della terra. Rinaldo Rigola, l’uomo
cresciuto a Biella dalla grande barba e dagli occhiali scuri a proteggere una
cecità che lo accompagnò per quasi tutta la vita. E che fu di quella Cgdl il
primo segretario generale. Ernesto Verzi, il capo della Fiom, Angiolo
Cabrini, Felice Quaglino, Ettore Reina. Poi la figura forte e popolare del
capo dei sindacalisti rivoluzionari, Alceste De Ambris. Poi ancora Bruno
Buozzi, a cui toccò il compito di guidare la Fiom fra il 1910 e il biennio
rosso, e che con il giovane Giuseppe Di Vittorio avrebbe rappresentato
l’anello fra il prima ed il dopo della notte democratica, quella che calò
sull’Italia e colpì in modo drammatico gli uomini, le sedi, i quadri della Cgdl
e i diritti dei lavoratori.
Il 1 maggio del 1921 fu anche l’ultimo prima di quello del 1945, quando a
Roma parlarono Giulio Pastore e Giuseppe Di Vittorio, e qui, a Milano, Sandro
Pertini, Leo Valiani, Luigi Longo. “Basterà un attimo di libertà – aveva scritto
Bruno Buozzi nel 1924 dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti – e le nostre
istituzioni fioriranno meglio di una volta”. E così fu.
Siamo andati alla ricerca di luoghi e condizioni di lavoro che dettero
un’impronta decisiva al senso di solidarietà, di uguaglianza, di fraternità.
Il lavoro nelle miniere, ad esempio, la condizione dei minatori: a Buggerru
dove l’esercito sparò su persone che chiedevano un’ora di risposo in piena
estate per continuare a sopportare fatica e assenza di libertà. A Marcinelle
dove si consumò la più grande tragedia mineraria europea giusto cinquanta
anni fa e dove abbiamo trovato con i luoghi di una memoria per noi sacra, le
bandiere dei tanti figli di italiani in festa per la vittoria dei campionati
mondiali di calcio. A Cabernardi, nelle Marche, dove i minatori per salvare
il lavoro si calarono nella miniera, uscendo stremati, due mesi dopo. Quello
che colpisce in questi luoghi è che chiuse le miniere, quel senso della
fatica che ti rende uguale e fratello all’altro continua a vivere, permea di
sé anche i segni della modernità, vivendo tra le generazioni che si
rinnovano.
Ci siamo insieme interrogati su quanto lega la storia del sindacato del
prefascismo al sindacalismo moderno, quello che nasce con la libertà
riconquistata e la liberazione del paese. I nomi delle organizzazioni – basta
pensare alla Fiom che conta i suoi congressi a partire dal primo, quello del
1901 – gli stessi, i problemi simili e uguali, i valori uguali.
Ma anche le differenze nel dopoguerra hanno il loro peso. Il mondo del lavoro
si fa insieme più organizzato, soprattutto nelle grandi fabbriche, e
attraversato dalle appartenenze politiche e ideologiche del dopoguerra. Il
sindacalismo di ispirazione cristiana, che ha radici antiche – nel 1918 nasce
la Cil - nell’Italia repubblicana esprime una compiuta, autonoma e forte
presenza organizzata.
Ma è soprattutto l’Italia ad essere diversa.
Nel 1906 quando nasce la Cgdl avevano diritto al voto meno di tre milioni di
cittadini; non esisteva legislazione sul lavoro, tutele per il i bambini, per
la maternità, per le donne, si potevano chiudere d’autorità le leghe
sindacali e le Camere del Lavoro, proibire gli scioperi.
La Costituzione, quella nata dalla Resistenza e dalla vittoria del referendum
del 1946, fa del lavoro il fondamento costitutivo della Repubblica.
Abbiamo giustamente collegato i contenuti della Carta del 1948 al movimento
di lotta, agli scioperi – gli unici in Europa - che accompagnarono la
Resistenza e la liberazione dell’Italia fra il 1943 ed il 1945. Ai tanti che
per questo furono deportati e non tornarono, a quelli che nelle grandi
fabbriche ancora rimaste oggi e nelle tante città del paese ogni anno vengono
ricordati, abbiamo portato tutta la riconoscenza che si deve a chi si è
sacrificato per la libertà di tutti e ha dato una impronta morale indelebile
ai valori del nostro paese.
Una parte delle conquiste sociali e del lavoro erano state raggiunte, anche
prima, nei primi due decenni del secolo: la conquista delle otto ore, grazie
alla lotta delle mondine, delle lavoratrici tessili e dei lavoratori
meccanici. La stipula dei primi accordi collettivi; le leggi in materia di
infortuni e rischi sul lavoro; la spinta data all’emancipazione delle donne,
che conteneva in sé una esplicita domanda di libertà, fino alla mobilitazione
per la richiesta del suffragio universale, quello che le donne ebbero il
diritto di esercitare, per la prima volta, solo nel 1946.
Il Patto di Roma – firmato fra il 3 ed il 4 giugno del 1944 - sanciva la
rinascita della Cgil unitaria. Il nuovo inizio di un sindacato confederale
più rappresentativo, più grande e unito in un’Italia restituita alla
democrazia ed alla libertà. A differenza del 1906, c’è tutto da ricostruire.
Le forze politiche e le diverse anime sindacali raggiungono una unità che
sarà preziosa nel definire identità, compiti, regole del sindacato italiano.
Normalmente si coglie in questo un limite. Un peccato di origine, a cui si
contrappone il sindacato che rinasce dal basso nelle fabbriche del nord. E
questo in parte è storicamente vero. Ma è altrettanto vero che non c’erano
alternative, e che in questo modo le stesse grandi forze politiche del tempo
finivano per alimentarsi e contaminarsi con i temi del lavoro e della
rappresentanza sindacale, mai in chiave tattica ma sempre con una ricerca
rivolta ai profili del rapporto tra ruolo delle istituzioni, responsabilità
di carattere pubblico, e funzione autonoma delle rappresentanze sociali.
La forza di questo dibattito sopravvive alla fine della Cgil unitaria, alla divisione
del 1948, e pone ad ogni organizzazione il dovere di ripensarsi e
ricostruirsi a partire dai contenuti di quel patto.
Bruno Buozzi muore fucilato dai tedeschi all’alba della Liberazione di Roma.
Aveva portato le ragioni del riformismo sindacale del periodo prefascista
nella fase di costruzione del Patto di Roma. Una coerenza che lo portò a
combattere la dittatura, il fascismo, ad andare in esilio, a non piegare la
testa, a polemizzare con quanti – per quieto vivere – dei vecchi
organizzatori sindacali mostrarono meno intransigenza e meno coraggio.
Di lì a poco, due anni dopo, muore anche Achille Grandi - lo abbiamo
ricordato ieri insieme con Raffaele a Como – una grande figura di
sindacalista, che aveva firmato il Patto di Roma per la corrente dei
lavoratori cristiani, lasciando a Giulio Pastore il compito e la guida di
quella che sarebbe diventata la Cisl.
Fu Giuseppe Di Vittorio – il sindacalista di Cerignola che aveva lottato e
vissuto con i suoi braccianti ed era stato a lungo in esilio – il dirigente a
cui spettò, finita l’esperienza della Cgil unitaria, il compito e la
responsabilità di ricostruire la Cgil.
Se la Cgil di oggi è la forza sindacale che conosciamo, seria, autorevole,
popolare, radicata nel mondo del lavoro e fra gli anziani, lo si deve in
grande misura alla sua capacità, al suo lavoro, e a quello dei dirigenti di
allora: fra tutti Fernando Santi, Vittorio Foa, i giovani Lama, Trentin,
Romagnoli.
Nel 1949, al Congresso di Genova, Di Vittorio formulò la proposta del Piano
del lavoro, un quadro organico di interventi tesi a ricostruire il paese,
partendo proprio dalle esigenze del lavoro. Una proposta autonoma di
cambiamento della politica economica e sociale, e insieme un atto di
responsabilità nazionale.
Dopo la sconfitta del 1955 alla Fiat toccò a Di Vittorio segnare la svolta,
fare i conti con i cambiamenti che avanzavano, non chiudere gli occhi. E fu
sempre lui, che aveva detto dopo la scissione “da domani cominciamo a
lavorare per l’unità”, ad assumere, di fronte alla tragedia di Ungheria,
dell’ottobre di cinquanta anni fa, una posizione forte e coraggiosa. Quella
che sceglieva la democrazia contro la forza. Gli operai ungheresi contro
l’esercito sovietico. “La segreteria della Cgil – diceva il comunicato del 29
ottobre - di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria,
ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di
metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il
distacco tra dirigenti e masse popolari”.
Dedicheremo ai fatti di Ungheria ed alla posizione della Cgil un convegno di
ricostruzione storica. Bruno Trentin, prima dell’incidente di questa estate,
testimone di quelle giornate, aveva preparato un intervento scritto che
leggeremo e sarà anche questo un modo di averlo presto fra di noi.
In tutti questi quattro passaggi storici, si può riassumere il profilo
costituente della identità e dei valori della Cgil del dopoguerra: il valore
dell’autonomia, la difesa del proprio punto di vista, anche quando non è facile
farlo e si sceglie comunque da che parte stare; la ricerca costante
dell’unità del mondo del lavoro, come attitudine a trovare quello che unisce,
senza mai smarrire la propria coerenza; la capacità ed il coraggio di
proporre, il lavorare per disegni alti di cambiamento e di riforma; il vivere
sempre in mezzo ai lavoratori, rappresentandone i bisogni ed i sentimenti,
contrattando processi di unificazione normativa e intervenendo nelle
condizioni concrete del lavoro.
E’ una Cgil – quella di Giuseppe Di Vittorio - che nasce dall’incontro
dell’antica cultura dei lavoratori delle campagne e dell’edilizia con quella
delle fabbriche industriali e della classe operaia. Una Cgil che rappresenta
sempre più i lavoratori dei settori pubblici, della scuola, dei trasporti,
dei servizi; ed i tanti anziani e pensionati raccolti in una delle più
originali forme organizzative del sindacalismo moderno.
La lotta per lo sviluppo del Mezzogiorno, per la trasformazione dei rapporti
di lavoro in agricoltura e la lotta per la legalità, attraversa tutta la
storia della Cgil.
Non siamo più al 1906 quando al Congresso partecipano poche e sparse realtà
sindacali del Mezzogiorno. Dalle lotte bracciantili, dagli edili, dai
minatori si forma una coscienza sociale e civile che spesso è l’unica risorsa
in spazi e luoghi dominati dal latifondo e dalla mafia. Portella della
Ginestra è l’episodio più noto, più drammatico di una scia continua di lutti
e di delitti con i quali si vollero colpire le lotte dei braccianti, la loro
ansia di riscatto e la Cgil. Salvatore Carnevale, Placido Rizzotto, Epifanio
Li Puma sono i nomi più noti tra i tanti che caddero in quella stagione e che
nel tempo sono diventati il riferimento morale della grande determinazione
con cui la Cgil di ieri e di oggi è impegnata in prima linea a combattere la
mafia ed a battersi per la legalità.
La storia del lavoro in questi cento anni non è stata una storia lineare,
semplice, retta. Ogni conquista è costata, ogni diritto pagato a caro prezzo.
E spesso siamo stretti a riconquistare quello che era stato poi perso.
Anche le grandi trasformazioni degli anni cinquanta e sessanta, quelle che
cambiarono il volto del paese, hanno significato per milioni di persone un
distacco, un viaggio, una rottura. Quella che ha accompagnato milioni di
immigrati attraverso il porto di Genova prima, poi attraverso quello di
Napoli in tutto il mondo a cercare lavoro e dignità.
Con la grande fabbrica fordista, a partire dagli anni sessanta, la condizione
operaia assume coscienza, forza. E diventa il motore di una trasformazione
che cambia in profondità il paese, i suoi riferimenti sociali e culturali, e
anche il sindacato.
I delegati, la contrattazione ne rafforzano la democrazia e le forme
rivendicative. Il valore dell’uguaglianza esce dalle fabbriche, vive nella
cultura, nei modelli sociali presi a riferimento, segna tutta una nuova
generazione di operai e di studenti. Milano, quella Milano, diventa
l’epicentro di una grande rivoluzione sociale, economica, civile, culturale.
Si apre quella stagione riformatrice che farà delle pensioni, della casa,
della salute, della sicurezza e dei diritti del lavoro i suoi temi di impegno
e di cambiamento. Quelli che portarono alla conquista dello Statuto dei
Lavoratori. Rinasce dal basso quella spinta unitaria che soprattutto nei
metalmeccanici segnerà l’autunno caldo e gli anni settanta.
Non possiamo, qui, oggi, ripercorrere il quarto di secolo che abbiamo alle
spalle: le ulteriori trasformazioni produttive e lo sviluppo dei servizi,
sempre più immateriali, le rigidità di un sistema politico e istituzionale
che si apre a fatica al rinnovamento; le debolezze del nostro apparato
produttivo e dei nostri imprenditori; le tante occasioni che furono perse.
Oppure i cambiamenti nel mercato e nel commercio internazionale, che arrivano
alla rivoluzione di oggi. La nuova dimensione dell’Unione Europea, la fine
delle partecipazioni statali e dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno,
la nascita dell’euro e la fine della sovranità nazionale della moneta.
Dobbiamo però ricordare almeno qualcosa e penso sia giusto innanzitutto
partire dal ruolo fondamentale che ha avuto in tutto questo quarto di secolo
il sindacato unitario e la Cgil nel difendere le istituzioni democratiche
contro ogni minaccia: le stragi, la strategia della tensione, il terrorismo;
gli inquinamenti della vita democratica, le mafie.
Con Piazza Fontana comincia una stagione ininterrotta di stragi a cui
rispondono mobilitazioni, proteste, scioperi, indignazione.
A Piazza della Loggia cadono lavoratori e lavoratrici della scuola, tanti
nostri compagni, durante una manifestazione antifascista. E’ un uomo tenace,
solitario e coraggioso, Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider, negli anni di
piombo, con la sua denuncia ed il suo sacrificio a segnare la sconfitta del
tentativo terroristico di infiltrarsi nelle fabbriche. E anche più
recentemente è l’iniziativa dei sindacati che reagisce, isolandolo, al
tentativo di fare ritornare quegli anni di piombo, quando vengo uccisi Ezio
Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi.
Sono sempre Cgil, Cisl e Uil a Palermo in una giornata di fine giugno del
1992 a tenere la più grande manifestazione nazionale mai vista in Sicilia,
dopo la morte di Falcone ed a qualche giorno dalla morte di Borsellino, in
quelle le stragi in cui caddero tanti servitori dello Stato.
E siamo sempre noi a esporci, a batterci, giorno dopo giorno, lontano dai
riflettori, per denunciare illegalità, prevaricazioni, intimidazioni. Sia
quando lottiamo contro l’usura, contro il pizzo, contro gli appalti truccati,
contro le aziende della mafia; sia quando - spesso da soli – denunciamo
caporalato e lavoro nero, la presenza di immigrati trattati come schiavi
moderni, senza volto, senza identità, senza alcun rispetto della condizione
di esseri umani.
Quando – come spesso capita - una Camera del Lavoro che viene incendiata o
oltraggiata, il nostro pensiero va e deve andare al coraggio di quanti, lì,
in prima linea, non hanno paura e non si piegano. E ci viene per questo una
domanda: cosa sarebbe l’Italia senza di noi, senza il sindacato, senza la
forza morale di questi nostri compagni, e dei tanti amici delle altre
organizzazioni sindacali che ogni giorno testimoniano.
Anche per questo la storia della Cgil, la storia di tutto il sindacato, non è
la storia di una parte del paese, ma è la storia del paese, della sua
democrazia, della sua libertà. E sta qui il grande lascito morale di Luciano
Lama, per tutti noi e per il paese.
Il Centenario è stata anche l’occasione per parlare di noi e del nostro
futuro. L’Italia di oggi è diversa. E’ un paese più ricco, con tanti problemi
che nascono da una rivoluzione silenziosa avvenuta negli ultimi anni, con
tanti lavori che sono cambiati e stili di vita e di consumi impensabili fino
a trent’anni fa. Ma siamo anche un paese che mantiene grandi e profondi
problemi. Alcuni storici, l’arretratezza di una parte del Mezzogiorno; altri
sociali, le aree di povertà e di esclusione che crescono; altri di reddito,
dove le ineguaglianze si sono accentuate a scapito del lavoro e dei redditi
da pensione; altre legate alla imprevedibilità di un mercato diventato
globale, ma senza regole, in cui la competitività ed i rischi vengono
trasferiti dall’impresa al lavoro. Altri ancora attraversano il rapporto tra
le generazioni, e per la prima volta il futuro dei giovani può essere meno
pieno di opportunità e speranze che il passato. Altri infine riguardano la
rivoluzione forse più forte e inattesa: il fatto che in poco più di una
generazione da paese di emigranti siamo diventati paese di immigrazione.
Anche la Cgil di oggi è un sindacato in parte diverso. La sua identità e la
sua appartenenza sono dettate dalla condivisione dei suoi valori di fondo e
del programma che democraticamente e liberamente decide. Non ci sono più
correnti di ispirazione politica, ma solo aree programmatiche. Le regole
della vita interna garantiscono il suo pluralismo e l’efficacia delle sue
decisioni.
Nei suoi iscritti – che ne fanno uno dei più grandi sindacati europei – si
riflettono le trasformazioni del mercato del lavoro. Cresce il peso dei
sindacati del terziario e dei servizi, il numero delle donne; i lavoratori
precari ed i migranti. Accanto alle tradizionali forme rivendicative e di
rappresentanza, si sviluppa il lavoro sui servizi, di tutela, di patronato.
All’estero abbiamo rafforzato la nostra presenza. Tra gli anziani ed i
pensionati costituiamo la rete sindacale più diffusa, la più grande in tutta
Europa.
Ai nostri congressi partecipano e votano oltre un milione e cinquecentomila
persone: la democrazia della nostra vita interna è un fattore di democrazia e
partecipazione per l’intero paese.
E’ una Cgil forte – ed aggiungo unita - quella che oggi celebra il suo
centenario.
Forte soprattutto della determinazione e della passione di milioni e milioni
di persone che, ogni giorno, in tutto il paese, dai più piccoli comuni ai più
grandi, in ogni posto di lavoro, ufficio, cantiere, scuola, fabbrica
testimonia ed opera nel nome dei valori delle origini e degli obiettivi
sindacali che insieme, liberamente e in autonomia, scegliamo e che vivono nel
simbolo di un piccolo, ma per noi grande, quadrato rosso.
Proprio questo, però ci pone anche una grande responsabilità, come sempre.
La società in cui viviamo presenta problemi e contraddizioni sempre più
forti, più grandi, spesso difficili da dirimere e superare. L’Italia continua
ad attraversare un suo originale percorso, sempre in bilico fra declino e
possibilità di farcela. Tra ricchezza e povertà, tra aree forti ed aree che
sono rimaste indietro, tra egoismo e solidarietà, inclusione e separazione,
tra meriti e bisogni, tra richiesta di istituzioni ordinate, forti,
pienamente democratiche ed una infinita transizione istituzionale.
Chi poteva pensare che nell’Italia del nostro millennio la schiavitù di
persone, quasi sempre immigrate, potesse vivere nel lavoro, in tante zone, in
tante campagne, in tanti cantieri? O che di fronte a questo fenomeno si
facesse finta di niente, da parte di tutti coloro che hanno responsabilità e
potere per intervenire, lasciando soli quei nostri compagni che da anni si
battono con coraggio e forza morale.
Quando in provincia di Foggia qualche mese fa hanno incendiato la Camera del
Lavoro di Cerignola, quella di Di Vittorio, per un momento è sembrato di
essere tornati indietro di un secolo, nell’Italia di allora. Ed è per questo
che il 21 ottobre insieme torneremo a Foggia per una grande manifestazione
contro lo schiavismo e per la libertà delle persone.
La verità è che nell’Italia di oggi il lavoro è insieme quello moderno,
quello semimoderno e quello antico delle origini.
C’è il lavoro intellettuale, tipico delle società della conoscenza, ed il
lavoro duro, spesso senza diritti e libertà di cantieri e campagne; c’è chi è
sicuro della propria preparazione e competenza e chi vive di una precarietà
senza fine, anno dopo anno; c’è chi va a lavorare a 16 anni, lasciando studi
e formazione e chi neanche a 30 anni con una laurea riesce a trovare un
lavoro, un’occupazione; c’è chi, più fortunato, cerca di restare al lavoro
fino a 70 anni e chi a 50 anni è considerato dalle aziende un peso, una
zavorra, una persona di cui fare a meno. Il fordismo del lavoro operaio e
manuale in parte si è trasformato nelle attività di servizio, e quelle
aziende industriali, un tempo considerate mature, sono oggi quelle che
producono di più, mentre le aziende di servizio spesso vanno in crisi e sono
in difficoltà. C’è chi lavora 48 ore e più alla settimana, e chi arriva
appena alle 16 ore mettendo insieme tre o quattro lavori differenti.
Il quadro della condizione lavorativa dell’Italia del 2006 è un ritratto
sempre meno omogeneo, con un risvolto prevalente di insicurezza che dalla
dimensione globale dei mercati si trasmette dalle aziende ai lavoratori.
Riflettendo su questo – e sui fatti di Foggia - si rende necessaria una
ricerca, un’inchiesta che abbia il respiro di altre inchieste importanti
della nostra storia, per fornire un quadro più compiuto, più preciso della
condizione del lavoro e dei suoi problemi.
Chiederemo formalmente, insieme con la Cisl e con la Uil, al Presidente della
Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica di assumere
questa iniziativa, della quale abbiamo già parlato con loro, trovando quel
consenso che nasce dalla loro sensibilità e dalla storia personale, per
segnare con questa scelta uno dei tratti distintivi della presente
legislatura.
Sarebbe un gesto importante, anche per ridare centralità e riconoscibilità
sociale alla condizione del lavoro di oggi.
Da troppo tempo, da troppe parti e per troppi interessi, si fa di tutto per
relegare il lavoro ai margini della vita pubblica e della rappresentazione
sociale.
Dalla fine della storia alla fine del lavoro, alla fine del sindacato il
passo – per quanto arduo – nei fatti ogni tanto viene suggerito, e vive in
tante modalità, in tanti richiami.
Vive ad esempio quando il lavoro di un migrante fonda una identità che esiste
solo tutta all’interno di un luogo di lavoro, per scomparire ed essere
negata, finito il lavoro. Vive quando si parla del lavoro pubblico come di
una indistinta area di inefficienza, privilegio e fattore di costo. Vive
quando il lavoratore diventa il collaboratore dell’imprenditore, quando una
condizione, un problema diventa oggetto di attenzione solo quando uno
sciopero ferma i servizi pubblici, oppure occupa strade e stazioni, quando
gli incidenti e i morti sul lavoro non fanno notizia. O quando il lavoro – in
qualsiasi delle sue forme di oggi – scompare dalla televisione, dalle
inchieste giornalistiche. O quando sottovoce ci si spiega che il lavoro non
fa audience. C’è molto che non va in questa situazione. E non è l’amarezza di
chi invece vede un’altra realtà, un mondo capovolto di fronte a quello
virtuale e immaginario. Ma una semplice, onesta e razionale considerazione.
Se il lavoro fonda ancora, in gran parte, identità, coscienza di sé e quindi
dignità nella vita delle persone; se la condizione lavorativa di oggi è
quella segnata da una complessità crescente, se senza i lavoratori comunque
un paese non cresce e non si sviluppa, e non è pensabile nessuna attività
manifatturiera, di servizio, di lavoro di cura, oppure di lavoro
intellettuale: allora il lavoro deve ritornare ad essere centrale nelle
politiche pubbliche, nelle scelte legislative, negli spazi culturali e delle
rappresentazioni sociali.
Insieme ai contenuti e all’idea di una cittadinanza moderna, il lavoro fonda
il riferimento essenziale di una politica e cultura riformatrice. Non
contrapposto all’idea di impresa e di mercato, ma non subalterno alla sua
centralità.
Per questo nel congresso di Rimini – partendo dalla straordinaria stagione
che avevamo alle spalle di cui il 23 marzo rappresenta il momento più alto -
abbiamo posto al paese, alle forze che si candidavano a governarlo,
l’imperativo di un progetto nuovo per l’Italia che partisse dal lavoro, dalla
sua centralità, dalla sua riconoscibilità, dai saperi, dai diritti. Perché
sentivamo e sentiamo forte e anche pressante il bisogno di una bussola
condivisa, di un orizzonte a cui guardare, di un sistema forte di riferimenti
di fronte ai rischi, alle incertezze, ai pericoli che il paese, l’Europa ed
il mondo attraversano. Un progetto capace di parlare all’economia, alla
società ed al lavoro, a chi sta indietro, a chi non ce la fa ed ai tanti che,
pur avendo talento, non pensano solo a sé.
Un progetto capace di far sentire meno sole le persone, e di non vivere
sempre tutto come una perenne competizione che riduce uomini e donne a mezzi
di produzione, e mai a quello che sono: delle persone. Un progetto in cui i
diritti fondamentali lo siano davvero per tutti, e dovunque.
Un progetto dove – per questo - la guerra sia bandita, nel nome di una
sicurezza che richiede accordi, compromessi politici, interposizioni
umanitarie, reciprocità; dove il terrorismo non abbia cittadinanza alcuna, né
alcuna giustificazione, dove ogni fondamentalismo venga prosciugato e reso
marginale, dove si faccia di tutto per evitare ogni forma di guerra di
civiltà, anche quando ci si confronta con culture che non hanno la nostra
stessa e giusta idea dei diritti e di libertà delle persone.
La proposta di Rimini fu raccolta dalle forze e dallo schieramento che hanno
vinto le elezioni e oggi hanno la responsabilità di guidare il governo del
paese.
Non vogliamo, tanto più oggi, in questa occasione che è anche una
celebrazione, parlare di temi come la legge Finanziaria, la precarietà del
lavoro, le pensioni, la sanità, il Mezzogiorno, le risorse per i contratti
pubblici e la scuola. Le cose di cui ci siamo occupati fino a ieri e di cui
torneremo ad occuparci domani.
Ma due cose vogliamo e dobbiamo dirle. Esamineremo con calma lunedì
pomeriggio nel corso di una segreteria unitaria il dettaglio della manovra,
ma voglio dire da subito che sono rimasto molto colpito dal giudizio del
centrodestra, dai toni usati e dalla arroganza delle parole; tutto è
legittimo, meno dimenticarsi di quello che hanno fatto, di come hanno
lasciato il paese. Perché se lasci senza risorse la scuola, le ferrovie, le
poste, le politiche industriali, gli ammortizzatori sociali, le strade, i
porti, a precarietà, i contratti pubblici, la condizione dei pensionati, le
famiglie allora diventa non solo ingeneroso, ma troppo furbo pensare che gli
altri possano fare qualcosa, partendo dai disastri compiuti. Trovo giusto e
condivido il fatto che la finanziaria parta dalla redistribuzione dei
redditi, scegliendo di ridurre l’area delle ingiustizie, partendo da chi in
questi anni è rimasto indietro. Condivido l’impostazione politica della
manovra. E chiedo al governo di non fare della lotta all’evasione la
battaglia di un solo giorno, perché il vero tartassato non è chi evade le
tasse, ma chi le paga.
La seconda è che di quel progetto – quello del congresso di Rimini - il paese
ha bisogno. Ne hanno bisogno i lavoratori, i pensionati, soprattutto i
giovani. Quelli a cui abbiamo dedicato assieme il nostro Congresso ed il
senso di questo Centenario. Un paese che non guardi ai giovani è un paese che
si chiude, che ha paura, che non investe sul proprio futuro.
E’ per i giovani che quel progetto non va abbandonato, non va lasciato cadere,
non va contraddetto.
Non abbiamo vissuto e speso questa storia per tornare alle disuguaglianze del
tempo delle origini. Non lo vogliamo. Non lo permetteremo. Non lo possono
volere tutte quelle imprese che puntano sulla qualità e sull’innovazione per reggere
la competizione in un mondo reso più incerto e difficile dalla
globalizzazione dei mercati.
Lavoreremo – care compagne e cari compagni - perché il futuro abbia il cuore
e la forza di questa storia, che è storia del paese, rinnovandola e
riformandola, accettando le sfide, come sempre abbiamo fatto, quando la sfida
ha avuto ed ha una posta importante.
Quello che ha alimentato una ragione di vita ed una ragione di appartenenza,
per tanti, attraverso le generazioni, ci servirà per il cammino che ci aspetta.
Qui, oggi, a Milano, rinnoviamo lo stesso impegno di allora.
Ripartiamo con un nuovo inizio, orgogliosi della nostra storia e dei valori,
che ne hanno segnato il percorso e ne accompagneranno il futuro, insieme con
tanti altri al nostro fianco.
In questo modo la storia centenaria della Cgil e di tutto il sindacato
continuerà a vivere davvero e sarà stata una storia spesa bene, per chi la
volle e per il paese.
Una storia che con emozione e orgoglio – non inferiore a quello che provarono
i delegati di quel congresso cento anni fa – consegniamo a tutti coloro che
verranno. Perché questa storia gli appartiene, perché vogliamo che il futuro
comune riparta da qui.
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