I misteri del capitalismo italiano
Debiti & miracoli

La Repubblica
di Federico Rampini

Nel sondaggio annuo del Financial Times sulle imprese più ammirate dai manager di tutta l'Europa, neppure un'azienda italiana figura fra le prime trenta. Per la privatizzazione della Telecom, Ciampi ha trovato pochissimi capitalisti nostrani disposti a investire qualche centinaio di miliardi per entrare nel nocciolo duro. Eppure siamo la sesta potenza industriale del mondo, e vantiamo un attivo nei conti con l'estero (42 miliardi di dollari) secondo solo al Giappone.

Misteri del capitalismo italiano. Le nostre grandi aziende - non parliamo delle banche - sono delle nane su scala internazionale; ma i micro-imprenditori del Lombardo-Veneto non temono i dragoni asiatici.

Abbiamo un tasso di risparmio fra più alti del mondo, ma ignoriamo i fondi pensione (negli Stati Uniti controllano la General Motors, l'Ibm e l'AT&T). Ci opprime il più alto numero di leggi fiscali dell'universo, ma anche un'evasione unica fra i Paesi industrializzati (il 12 per cento del prodotto interno lordo è "nero" contro il 2-3% nel resto d'Europa e in America).

Sul modello di sviluppo italiano sono fiorite definizioni pittoresche: capitalismo senza capitali, capitalismo-bonsai. Si è detto, non a torto, che negli anni Settanta e Ottanta abbiamo avuto l'economia più statalizza ta del mondo dopo la sovietica.

Il nostro settore pubblico il grande malato d'Europa, con un debito al l22 per cento del Pil che ha rischiato di escluderci dalla moneta unica. La stampa anglosassone ironizza sul caso Mediobanca, questa piccola banca d'affari guidata da un novantenne che da mezzo secolo tiene in piedi le ultime dinastie storiche della grande borghesia. Ma i nostri distretti industriali, metà Silicon Valley metà Corea del Sud, sono stati additati da un vertice del G-7 come esempi per creare occupazione.

Per capire quale logica tiene insieme queste contraddizioni, una lettura preziosa è la Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, opera di un'ampia schiera di economisti, che esce in questi giorni a cura di Fabrizio Barca, del Servizio studi della Banca d'Italia (Donzelli, pagg.634, lire 60.000).

Uno dei fili conduttori di quest'opera collettiva è il tentativo di illuminare l'eterno dilemma piccolo-grande. Perché il capitalismo italiano è così forte nelle piccole dimensioni e così debole e asfittico nelle grandi prese? E questo è un bene o un male per la crescita economica e la prosperità del Paese? E ancora: che nesso c'è fra l'anomalia del nostro capitalismo e il modo in cui esso organizza la proprietà delle aziende, il ruolo dello Stato e delle banche, la funzione storicamente marginale della Borsa, le regole del gioco nelle società per azioni(la corporate governanca).

Barca chiarisce fin dalla prefazione che all'Italia non sono mai mancati né i capitalisti, ma semmai difettano le istituzioni giuste per combinare in modo efficiente i capitalisti con i capitali; e funziona male la selezione della classe dirigente.

Problema antico: nel 1905 Francesco Saverio Nitti riteneva che nelle scelte strategiche, economiche e politiche del Paese avessero un peso spropositato due categorie di individui: quelli che, essendosi venuti a trovare in posizioni di comando, hanno eretto robuste barriere a difesa della posizione acquisita; e quegli "affaristi, speculatori, intermediari, che agiscono per impedire che altri faccia che per fare".

La concentrazione del potere economico (cui è dedicato il capitolo di Francesco Brioschi e Franco Amatori) è un fenomeno universale nelle società industriali, ma in Italia presenta almeno tre aspetti patologici: i legami incestuosi fra i (pochi) potentati economici privati; la loro accentuata dipendenza dagli aiuti dello Stato; infine l'allergìa dell'impresa italiana ai controlli e alle regole di trasparenza.

Già nel 1911 Luigi Einaudi criticava il "sistema delle catene", ribattezzate piramidi o scatole cinesi ai giorni nostri. Ricostruendo la storia di Fiat, Pirelli e Falck dal 1947 a oggi, Barca e altri dimostrano come le famiglie fondatrici hanno usato una serie di società "a cascata" per mantenere il controllo dei loro imperi mobilitando i risparmi altrui. Un modo per privatizzare i profitti e socializzare le perdite, senza dare al mercato un vero potere di controllo.

Alla lunga le piramidi si sono rivelate troppo costose anche per chi le ha inventate, e oggi sono in declino. In compenso aumentano negli ultimi anni i matrimoni incestuosi, cioè le partecipazioni incrociate, stampelle con cui le dinastie private del Nord si sorreggono a vicenda.

Gli incroci azionari, sconosciuti al capitalismo angloamericano, esistono invece in Germania e Francia ma almeno lì ci sono vari poli di potere, in Italia finora c'era solo la galassia Mediobanca. Questo sistema maschera una profonda debolezza: la Fiat è ormai declassata di fronte a giganti in via di privatizzazione come Eni, Telecom ed Enel; la borghesia storica è rimasta ai margini dei business più innovativi e dinamici.

All' estremo opposto c'è il miracolo dei distretti industriali, queste aree geografiche dove pullulano piccole e medie imprese iper-specializzate su singoli prodotti con capacità di leadership mondiale (dalla moda al mobile al giocattolo). Diffusi soprattutto nel Lombardo Veneto e lungo la costiera adriatica, i distretti assorbono il 4O per cento di tutti gli addetti all'industria manifatturiera, sono un pezzo della nostra economia più grosso di Fiat più Eni più Iri, e rappresentano una quota rilevantissima delle nostre esportazioni.

Nel bel capitolo di Sebastiano Brusco sui distretti emerge con chiarezza che il successo della piccola e micro-impresa italiana è anche frutto di arretratezza: all'origine si nutre di bassi salari, poca sindacalizzazione, lavoro sommerso, evasione fiscale, regimi di favore voluti sia dalla Dc che dalla sinistra. Ma col passare degli anni i distretti industriali si sono affrancati del peccato originale, oggi pagano salari eguali alle grandi imprese, la loro forza è nella flessibilità, nella creatività, nell'innovazione.

Il Sud-Est asiatico non costituisce una vera minaccia per questo tessuto di piccole imprese, perché su qualità gusto e design sono irraggiungibili. La globalizzazione non le spaventa: il successo della multinazionale americana Nike, con le sue fabbriche in Cina, non ha impedito al settore calzaturiero italiano di allargare la propria quota di mercato mondiale.

E tuttavia l'economia italiana non può camminare su una gamba sola, quella della micro industrializzazione diffusa. I limiti del capitalismo storico, l'inadeguatezza delle oligarchie tradizionali, il fallimento dell'intervento pubblico, ci hanno fatto pagare un prezzo altissimo: per tutto il trentennio 1963-95 l'Italia ha avuto costantemente molta più inflazione, molta più disoccupazione di Germania e Francia, dal 1973 a oggi la lira ha perso più di due terzi del suo valore.

Come osserva Barca, se persisteranno le tendenze in atto, dall'inizio degli anni Ottanta al 2000 l'Italia avrà accumulato cinque punti di ritardo nella crescita del reddito pro capite rispetto agli altri Paesi industrializzati.

Questo capitalismo non tiene più il passo con gli altri. Per cinquant'anni ha voluto regole del gioco diverse dai Paesi più avanzati, credendo così di proteggersi: la scommessa è perduta.