Nel deserto dell'immagine

Il Manifesto
di Enrico Ghezzi

Ciao, caro Mario, non ti ho mai scritto, se non fax di due righe che reggessero il confronto con certe tue telefonate urgenti di trenta secondi. Ma hai letto fin troppo di me, e sonofelice che tuoi segni o tue insegne siano dentro sopra i miei libri. Vorrei risarcirti e risarcirmi di tutta la precisa vaghezza o svagatezza che ci siamo scambiatiin questi centoventicinque mesi. Di tutti i progetti indefinitamente accarezzati e vagheggiati, e realizzati parlandone, dissolvendoli nel sorriso che ti portava a una duna ulteriore.

Con te, carissimo Mario, ho sperimentato una comunità impossibile e frequente, fatta di poco dialogo, di pochissimo costrutto per fortuna, di nessun fraintendimento economico operativo. Tu, che mi sembri sempre più un socratico imploso (quanto aristotelica mi pare la vitalmortale spietatezza di Warhol), ti sei ritirato nell'eremo più inaccessibile, l'immagine. Rispondi agliappelli di tutti i compagni, ti spendi in copertine e in manifesti, ti ricompri in pubblicità.Eppure abiti, con tutto il tuo splendore. il deserto dell'immagine, la solitudine trovata del tuo studio. Come se la rapidità generosa futurista esplosa della tua pittura fosse già stata, già rimasta, e tu le fossi passato oltre (pur fermo nel tuo studio). La tua risata tirata come un'imprecazione, nervosa come un godimento infantile dolce, inseguiva altri battiti,il battito di cuore già trovato nell'astronauta a scandire il tuo grande filmUmano non umano, il battito infinitesimale della corrente di immagini che ci attraversae ci genera e che solo intravvediamo impigliata in schermi, pellicole, emulsioni, punti digitali.Quanto fosse atomica e ininterrotta fissione la tua pittura lo conferma e rilancia la tua passione per le immagini altrui, per le immagini di tutti e di nessuno. Le visioni delle tue tele si incrociano da subito con le televisioni, si compongono e riconoscono e riscindono in esse. E tu a sfidare gioiosarmente e malinconicamente l'identico,la ripetizione automatica, il fluire che ci illude di un pieno, lavorando ossessivamente sugliintervalli, tallonando i fotogrammi con le tue macchine fotografiche e i tuoi video. Le migliaia di scatti settimanali, il sapere doloroso che l'occhio non si bagna mai nella stessaimmagine (e che mai gli riesce di immaginarsi/costruirsi lo stesso scatto). E il rimpianto tuo divertito è solo per gli scatti che non sei riuscito a fissare, per mai più vederli, amati, a volte ritoccati con un segno di colore, pitturati come simulacri indiani, evidenziati o scossipenetrati più spesso accarezzati, amati e percepiti quelli non colti come i colti. Questa la tua "cultura", il cogliere più che il coltivare. Il cinema, fatto sfatto con lo stesso furore eroicodi un Carmelo Bene, e consumato e finito; più politicamente fiammeggiante di quellofiammeggiantemente nichilista di Bene. In entrambi i casi, non bastante, il cinema con i film,alla dimensione filmica trovata ormai grazie a esso in ogni corpo in ogni segno, in ogni sensoo direzione. Cinema che è (dove il che è la cosa/pronome in impossibile congiunzione), indipendente da autori film cinematografie.

Peccato che si deve morire (o, di nuovo, che peccato che si deve morire!). Qualche mesefa, uscisti fuori con quest'esclamazione/titolo per un libro delle tue immagini còlte che si voleva si dovrà forse non si potrà fare (il libro di un filosofo muto dell'immagine, di riimmagini, di un riaversi delle immagini per un possibile riessere). L'interruzione del film, la fine nastro, basta con lo sfregamento logorìo godimento dolore, ti fa(ceva) paura.Lo spettacolo infine ti incanta, eterno presente.

Più limpido del verso che lo dice. Mi viene in mente - ancora - Sandro Penna che legge se stesso in Umano non umano (e al telefono. "mi stanno facendo un film"). Ci siamo incontrati come immagini che si conoscevano, e senza voler saper nulla (delle immagini). Appunto il presente, la fatalità dello svolgersi in futuro di milioni di attimimmagine mai persimai trovati, ti affascina e spaventa dello spettacolo. Appena ci si era incontrati, e la sigladella Magnifica Ossessione 1985 è tua, sulla fronte di tuo figlio Marco appena nato corre lastoria del cinema come rinascente sovrimpresa. Blob e fuoriorario - e le schegge che nonriescono a essere milioni - sono tuoi, anche tu come Marco Melani li vedi e li fai riessere di notte fuori dal loro "programma". Guardi mia figlia Aura, le dedichi un titolo stupendo per unvideo alla biennale: con aura senz'aura. Come, sciattato atleta sedentario che sa quantosiamo seduti stupiti stupidi ribelli troppo presto troppo tardi giustamente inutili rispetto a quel che ci (oc)corre.