Gli straccioni modernissimi

Il Manifesto
di Michelangelo Notarianni

Il capitalismo italiano, improbabile animale, continua a vivere, anzi cresce, nonostante innumerevoli sfracelli. Può aver rallentato lo slancio negli ulitimi decenni, ma non troppo diversamente dagli altri capitalismi nazionali dell’Occidente, e anzi guadagnando qualche posizione. Nessuno parla più di inevitabile arretratezza di questo paese, nessuno in Italia punta più a improbabili sostituzioni nel ruolo tradizionalmente svolto dai ceti capitalistici nei processi di modernizzazione .Lo straccione di Lenin non si lascia escludere dalle prime posizioni nel club dei paesi opulenti. Se ha qualche difficoltà dicono tutti, è proprio nel campo in cui da sempre giudicato maestro, la politica, invenzione antica di banchieri fiorentini.

Pure, il paradosso resta, il fenomeno continua a sfidare le leggi di ogni economia e biologia comprensibili. apparsa in questi giorni, frutto del lavoro di qualche anno, la prima Storia del capitalismo italiano. Dal dopoguerra a oggi. L’ha curata e in parte notevole scritta Fabrizio Barca, riunendo intorno a sé un gruppo interessante di economisti e giuristi che sembrano condividere un insieme di ipotesi piuttosto forti (Donizelli pagg.XIV-634, £.60.000). A parte le ipotesi, su cui torneremo, i fatti accertati sono difficilmente equivocabili e parlano tutti di fallimenti del capitalismo italiano che non hanno paragone nell’ambito delle economie sviluppate. Nell’ultimo mezzo secolo il capitalismo italiano ha fatto bancarotta, o ha drasticamente ridimensionato Il suo ruolo in tutte le grandi imprese private tranne una, la Fiat. Anche le industrie pubbliche, non hanno dato migliori risultati, anche qui a esclusione del solo Eni (ma come quasi ovvio, e come del resto tutti ricordano, le due eccezioni, pubblica e privata, sono state tutt’altro che estranee al quadro generale di progressivo dissesto della grande dimensione dell’economia italiana). Altri due fallimenti sono clamorosamente evidenti in questa vicenda pluridecennale. Il primo la mancata modernizzazione delle strutture civili del Mezzogiorno attraverso l’industrializzazione, obiettivo proclamato e perseguito in tulle le politiche economiche succedutesi negli anni. Il secondo, su cui gli autori mettono particolarmente l’accento e che tendono anzi a valutare come ragione essenziale di tutti gli altri, la mancata realizzazione di un quadro generale di regole e di politiche valide come punto di riferimento stabile per l’insieme della società e dei mercati. l’inesistenza di un modello di capitalismo italiano, razionalisticamente scelto o storicisticamente riconosciuto, a cui l’azione pubblica e lo stesso humus culturale del paese potessero guardare e ispirarsi. Specchio di questa mancanza non solo la farragine della legislazione e il suo vanificarsi sotto il cumulo delle eccezioni, ma la stessa rinuncia a modernizzare la pubblica amministrazione, sanzionata dal sistematico impiego delle amministrazioni straordinarie e degli enti autonomi retti da un diritto particolare.

Fabrizio Barca, nel suo saggio iniziale che ha valore di sintesi, chiama questo insieme di processi il "compromesso senza riforme". Non si tratta, si badi, di una semplice ennesima variante del trasformismo gattopardesco della "arretrate" classi dirigenti italiane. Qui l’arretratezza c’entra pochissimo, se non come alibi inconscio. Il processo, secondo Barca e i suoi collaboratori, prende corpo proprio come momento essenziale di uno sforzo contro l’arretratezza che ha per protagonista un ceto dirigente modernizzatore, industrialista, a volte, persino giacobineggiante, caratterizzato da un forte spessore culturale e da valori personali, anche sul piano etico, di rare qualità. Al solito, la prima guerra mondiale, crocevia decisivo di tutta la nostra storia contemporanea, il luogo d’origine di questo processo. I "nittiani", così chiamati per il loro raccogliersi iniziale intorno al presidente del consiglio del 1919, economista e tecnocrate, sono in gran parte volontari di guerra, espressione parziale ma significativa di quell’interventismo di sinistra, non imperialista, da Nathan a Bissolati a Salvemini, che nella guerra ha visto un’occasione per il pieno integrarsi dell’Italia in Europa e dunque per il compimento del risorgimento nazionale (un’altra e diversa filiazione dello stesso ceppo saranno Giustizia e libertà e il Partito d’Azione). Antifascisti o almeno afascisti in una prima fase, collaboreranno col regime di Mussolini in posizione di grandi responsabilità in qualità di tecnici e dirigenti di imprese, soprattutto in seguito alla creazione dell’Iri, nel 1933. Si chiamano, tra gli altri, Alberto Beneduce, Donato Menichella, Paride Formentini, Alberto Reiss Romoli, Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Agostino Rocca, Oscar Sinigaglia. Il regime fascista, passata la prima fase intensamente liberista, gli ha dato grande potere e prestigio, promuovendo con la loro opera il salvataggio di gran parte del sistema industriale e della parte essenziale del sistema creditizio attraverso il passaggio sotto il controllo dello stato. La politica autarchica è un’occasione per il realizzarsi delle loro aspirazioni di autosufficienza nazionale. Ma l’operazione si realizza sulla base di tre condizinni, almeno due delle quali rimarranno alla base del sistema. La prima è l’esigenza di una convivenza non competitiva e aggressiva con le grandi concentrazioni private. Il carattere privatistico o semiprivatistico delle forme dell’intervento statale serve a questa finalità e insieme dà per scontata l’irriformabilità della pubblica amministrazione e l’assenza di un quadro giuridico regolatore dei mercati. Di qui la seconda delle condizioni, che è il carattere "permanentemente straordinario" dell’intervento pubblico, il suo essere sottratto a regole e controlli e la sua dipendenza dalla qualità personale dei dirigenti, forma particolare e specificamente italiana di quella separazione tra proprietà e potere aziendale che è caratteristica generale delle economie contemporanee sviluppate. La terza condizione che il carattere autoritario e volontaristico del sistema tende a scontrarsi con l’autoritarismo maggiore che caratterizza il regime e a venir limitato nei suoi progetti dal conservatorismo di un ceto politico e di un personale amministrativo come quello fascista con cui le alleanze risultano occasionali e scarsamente produttive.

E noto che la grande occasione della formula, e degli uomini che l’hanno ispirata, verrà con l’instaurarsi della democrazia e del convergere di più culture politiche sulla loro ispirazione. I "nittiani", se potranno valersi della relativa benevola neutralità dei comunisti, che dall’espandersi della presenza statale si aspettano un’alternativa condizionabile al potere del capitale privato, godranno del consenso e dell’alleanza di gran parte del ceto politico democristiano e di uomini come Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno e Enrico Mattei che si integreranno pienamente nel loro progetto. I progetti bloccati dal fascismo, primi fra tutti quello della siderurgia e delle fonti energetiche (Sinigaglia e Mattei) saranno parte essenziale della fase espansiva e "miracolosa" della ricostruzione (ma anche la riforma agraria porterà il segno dell'eredità di un uomo a loro affine come Arrigo Serpieri). Anche gli autori di questa Storia valutano come ampiamente positiva questa fase del progetto "nittiano", di cui è difficile immaginare l’alternativa possibile. Il loro giudizio si fa invece fortemente critico quando, all’inizio degli anni 60; col profilarsi di nuove condizioni anche internazionali, il "modello Beneduce" mostra ii suo esaurimento e gli uomini che lo hanno incarnato escono progressivamente di scena. Ai volontari di guerra, formati in età prefascista succedono col centro sinistra e la convergenza fanfaniana e socialista, gli uomini cresciuti nel fascismo e intenzionati a fare del sistema dell’intervento straordinario e degli enti autonomi una leva decisiva di controllo politico e alla fine clientelare. Anche un economista come Giacomo Becattini ha argomentato da molti anni la tesi secondo cui, sulla spinta di questa intenzione politica, l’Italia abbia nei primi anni 60 scelto una strada, quella della rincorsa all’industrializzazione classica, che non riuscirà a realizzarsi, stretta tra le resistenze interne di un paese assai più complesso e anche vitale del previsto, coi suoi sistemi locali e la qualità della sua forza di lavoro, e l’iniziale obsolescenza dell’industrializzazione classicamente fordista nella società dei consumi e delle nuove tecnologie del controllo elettronico. Qui un altro pioniere della ricerca sui distretti industriali come Sebastiano Brusco a mostrare la vitalità e la modernità niente affatto marginali di un sistema come quello italiano della specializzazione flessibile, che nessuna classe dirigente ha progettato e previsto. L’antica contraddizione italiana tra cosmopolitismo delle classi dirigenti e localismo delle culture subalterne ha avuto un’ennesima manifestazione. Il cosmopolitismo della sprovincializzazione ha mutato l’umanesimo tradizionale in una pretesa tecnocratica che è stata presto riassorbita dalla politica più tradizionale. Il localismo ha incontrato attraverso prove ed errori una modernità verosimilmente più vitale. Il problema resta. Il capitalismo più antico del mondo non ha ancora trovato la sua strada. Il suo avvenire è forse oltre gli schemi conosciuti.