Multiculturalisti? No, laici
Perché la tolleranza non basta
La Stampa del 27.10.1997
di Gian Enrico Rusconi
Il "multiculturalismo" e il crescente carattere "multietnico" delle nostre società sono sempre più frequentemente usati per battaglie che un tempo si sarebbero dette "laiche". Così alcune settimane fa nella sala del Consiglio comunale a Torino qualcuno ha chiesto la rimozione del crocifisso, considerato simbolo cristiano-religioso in contrasto con il principio multiculturale, che proprio l'amministrazione comunale tanto generosamente promuove. La polemica è stata intensa, un po' confusa e si è chiusa precipitosamente.
Quello dei simboli religiosi in luogo pubblico è un problema complicato e delicato. In Germania la questione è arrivata sino alla Corte Costituzionale che nell'estate del 1995 ha emesso una sentenza a favore della legittimità della richiesta della rimozione del crocifisso dalla scuola pubblica. La sentenza ha provocato nella popolazione cattolica bavarese un vivace movimento di protesta. Il "popolo" bavarese è sceso in piazza a difesa della propria identità culturale. Non entro qui nel merito della controversia (per un episodio analogo si veda su La Stampa del 28 dicembre 1996 "Il presepio della discordia"). Certamente non è una questione risolvibile a colpi di maggioranza politica, né con intese interconfessionali. Rimette in gioco i criteri della laicità oggi dopo l'esaurirsi delle grandi controversie ideologiche tradizionali, tipiche della stagione alta del liberalismo. Ma il multiculturalismo può considerarsi sinonimo della laicità dello Stato?
Per la verità, a sentire certi "multiculturalisti" il concetto di laicità appare un po' obsoleto e troppo "occidentale", se non addirittura insidioso per alcune "culture altre" che si vogliono salvaguardare. In effetti il concetto di laicità è molto più esigente del multiculturalismo di cui si parla oggi disinvoltamente. Il principio laico infatti non si limita a neutralizzare le pretese delle diverse culture e religioni a occupare in modo improprio o monopolistico il terreno pubblico; non si limita ad affermare il principio della tolleranza, ma esige positivamente un vincolo reciproco per costruire una comunità politica solidale attraverso regole e istituti precisi. In nessun altro ambito il termine "cultura" è oggi tanto strapazzato come in quello legato ai fenomeni dell'immigrazione, dell'etnicità del razzismo. Molte "Case delle culture" o "interculturali" vivono in bilico tra folklore, attivismo da scuola serale e sede di rivendicazione di rappresentanza sociale e politica che viene negata altrove. Spesso le manifestazioni "multiculturali" sono soltanto feste di colori, suoni, lingue anche se seguite dall'immancabile tavola rotonda. Tutto questo, beninteso, è "cultura" purché tramite essa non si trasmetta alla popolazione autoctona il più sottile dei pregiudizi: gli immigrati, gli stranieri (extracomunitari) hanno una "loro diversità" culturale da proteggere in quanto curiosum o da rispettare quando attiene l'ambito religioso, per non interferire nella sfera misteriosa del sacro. Ma la non interferenza è cosa diversa dal reciproco riconoscimento e apprendimento che dovrebbe caratterizzare un autentico scambio interculturale.
Lo si vede, del resto, nei tentativi di dialogo che per molti aspetti sono all'avanguardia in questo processo: negli incontri tra le religioni. La religione - si sa - è l'elemento fondante di molte culture degli immigrati. Ma se osserviamo i tentativi di colloquio dei rappresentanti
ufficiali delle religioni su questo terreno, vediamo che essi hanno successo sin tanto che rimangono sul piano delle grandi affermazioni di principio, perfettamente congruenti con lo spirito laico: benevola attenzione vicendevole, esclusione di ogni forma di pressione e coercizione, eventuale autocritica per precedenti atteggiamenti discriminatori. Rimangono esclusi dal dialogo (salvo che in rari casi di seminari ristretti tra teologi e studiosi) gli specifici contenuti dogmatici di verità che fanno "cristiano" un cristiano "musulmano" un musulmano "ebreo" un ebreo. Rimangono confermati nella loro diversità se non nella loro incompatibilità - i simboli, i gesti, i comportamenti (dal rito al cibo) che danno concretezza, visibilità alle identità.
Non potrebbe essere diversamente. A questo punto si configura un grosso sconcerto per le donne e gli uomini religiosi che si dedicano generosamente all'accoglienza degli immigrati, che praticano concretamente la solidarietà, che sostengono con entusiasmo il multiculturalismo. Rimangono cioè sconcertati dalla prospettiva che i loro simboli religiosi possano ridursi a "cultura degli autoctoni" accanto ad altri simboli di altre culture. Ma questa è la logica del multiculturalismo. Se non si vuole che esso scada a sinonimo ingenuamente positivo di relativismo culturale ("tutte le culture sono ugualmente vere e moralmente buone per vivere"); se non si vuole che multiculturalismo equivalga a nuovo politeismo, occorre pesare bene parole e concetti (...).
Considerazioni diverse valgono per il concetto di "politica del riconoscimento". Essa presuppone però una cultura dei diritti a tre livelli. In primo luogo una cultura dei diritti umani e civili fondamentali (libertà, dignità e minimo vitale) che trae forza dai fondamenti stessi dell'ordinamento democratico. Negare tali diritti a un qualunque immigrato, anche clandestino, significa contraddire e negare il principio democratico stesso. (Questo non vuol dire, beninteso, che siano illegittime o antidemocratiche le misure di regolazione dell'immigrazione stessa, compresa l'espulsione). Ma anche i nuovi arrivati entrando nel nuovo sistema legislativo devono dotarsi di una cultura dei diritti fondamentali tale che non vengano usati in modo meramente strumentale. In secondo luogo esistono i diritti alla propria integrità identitaria e alla particolarità storica della propria origine. Questo complesso di principi è già presente in modo implicito nella Costituzione italiana ma va articolato ed esplicitato più di quanto non abbiano fatto i Costituenti che non potevano immaginare il problema dell'immigrazione nei termini di oggi. Tatto ciò, infine, presuppone una "cultura delle istituzioni" che è il vero deficit della società italiana, che rischia di essere trasmesso ai nuovi arrivati. Solo attraverso regole certe, univoche, lealmente accettate; solo attraverso la loro materializzazione in istituzioni funzionanti che producono comportamenti precisi, sanzionabili e/o premianti, si crea il terreno della convivenza e del dialogo tra la cultura dominante e le culture minoritarie.
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