L'Università in una società multietnica.
L'Italia, come tutti i paesi occidentali, sperimenta un improvviso cambiamento sociale per l'arrivo contemporaneo di molti immigrati, regolari e non, dall'Africa, dall'Asia e dall'Europa Orientale. Per tale motivo oggi a Roma, come a Milano o Torino, in Sicilia come nei più piccoli paesi della Lombardia o dell'Abruzzo, si incontrano Arabi, Pakistani, Cinesi, Curdi, Filippini, Russi, Serbi, Albanesi, Bosniaci e con minore frequenza cittadini di altre etnie e paesi.
Il fenomeno, come spesso capita nel nostro Paese, si è verificato in tempi molto più rapidi che altrove, mettendo spesso in crisi l'organizzazione dello Stato e la tolleranza degli italiani, spesso più declamata che reale.
Questa immigrazione massiccia è resa comunque poco controllabile da due fattori uno strutturale e uno contingente: il fattore strutturale è l'estensione delle coste italiane che rende difficile un controllo capillare del territorio, del resto endemicamente messo in crisi da fenomeni malavitosi quali il contrabbando o il sequestro di persona; il fattore contingente è dato dalla catastrofica (almeno in senso matematico) caduta della natalità con parallelo aumento della età media degli italiani. Inoltre vi si innesta il fenomeno tipico dei paesi a elevato benessere, per cui i cittadini non sono più disponibili a svolgere determinati lavori poco qualificati e talvolta poco gratificanti dal punto di vista economico. Si pone perciò drammaticamente il problema dell'inserimento rapidissimo nel contesto sociale di elementi estranei per abitudini, religione, tradizioni, lingua.
La velocissima formazione di una società multietnica in Italia presente anche una ulteriore componente di atipicità. Infatti per la maggior parte delle nazioni europee multietniche, il nucleo iniziale di immigrazione è rappresentato da individui provenienti dalle ex-colonie (ad esempio Algeria e Guadalupe per la Francia, India e Giamaica per l'Inghilterra, Surinam per l'Olanda eccetera) che bene o male arrivano o sono arrivati con un bagaglio culturale, sia pur ridotto, ma in parte condiviso (ad esempio la lingua) con il Paese ospite.
Differentemente per l'Italia, e per gli Stati Uniti, dove però le risorse economiche e territoriali sono enormemente più grandi, la maggior parte degli immigrati al momento di metter piede nel nostro Paese non ha la minima conoscenza di alcun aspetto di esso.
Tutte queste premesse forse offrono qualche spunto per la "diagnosi" del fenomeno: rimane il problema della "terapia".
Al di là di ogni condivisibile, almeno da me, riserva di tipo etico su una rigida politica di esclusione o espulsione dell'immigrato, esiste a mio avviso un problema di tipo "termodinamico". Il richiamo che un Paese a tenore di vita elevato quale l'Italia esercita su popolazioni povere vicine, stimolate anche da meccanismi distorcenti di amplificazione quali la televisione, è irresistibile, come una vetrina indifesa di leccornie per un affamato. Soltanto uno stato di polizia, che nessun italiano, spero, oggi tollererebbe, è in grado di presidiare il territorio. Basta fare una analogia con le cosiddette invasioni barbariche dove sono impropri sia il sostantivo che l'aggettivo per capire che la Storia è fatta di flussi inarrestabili di popolazioni che in massa o in piccoli gruppi invadono terre fertili e ricche.
Rimane però aperto il problema del "che fare". Tralasciando le politiche economiche e gli interventi diplomatici che non competono all'Università, credo che ci sia da affrontare un problema di cultura che è invece di nostra competenza prevalente.
L'Università è, o meglio deve esssere, il terreno dello scambio di idee, della inculturazione reciproca, della tolleranza. Per questo essa in Italia deve svolgere un compito delicatissimo in questo momento storico particolare, rivolgendosi da un lato agli italiani, nei quali molti secoli di sostanziale isolamento etnico e religioso hanno creato un certo provincialismo culturale, per far loro comprendere la ricchezza delle tradizioni, delle lingue, delle religioni diverse; e dall'altro lato agli immigrati ai quali insegnare, oltre che la lingua, il valore della tradizione italiana, se di questa tradizione, consapevolmente o no, in tempi brevi o meno brevi, dovranno essere coeredi. Sarebbe per noi un obiettivo ambizioso ma realizzabile fare di questa Università, in questa Roma un tempo centro del mondo ora comunque snodo geografico importantissimo, un primo laboratorio di convivenza e di scambio in cui accogliere, grazie anche alla possibilità di creare un numero adeguato di alloggi, studenti e professori di varia provenienza per sperimentare, insegnare ed apprendere che lo scambio di idee e di culture può produrre ibridi "lussureggianti" come lo scambio di geni nelle popolazioni.
Sarebbe inoltre un luogo opportuno di formazione per quanti, insegnanti, forze dell'ordine, operatori sanitari, si trovano oggi a fronteggiare problemi nuovi posti dall'arrivo e dal soggiorno di tanti uomini, donne e bambini così diversi eppure così simili alla popolazione "indigena".
Alessandro Finazzi Agrò