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Editoriale
Chi
ha paura degli studi culturali?
«Fate qualsiasi cosa, ma non i Cultural Studies»: questo
invito, che proviene da una fonte assai autorevole, è l’espressione
di un timore molto diffuso nell’università italiana. A prima vista,
esso può essere attribuito ad una diffidenza nei confronti della
cultura anglosassone, cioè ad una volontà di restare saldamente
ancorati al nocciolo duro franco-tedesco della tradizione continentale,
la quale ha nella filosofia, nella storia e nelle scienze umane il proprio
baricentro. Tale orientamento è, da un punto di vista astratto,
certamente plausibile, ma purtroppo esso ha esaurito la propria forza propulsiva
nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso: le grandiose imprese
editoriali dirette a ricondurre tutto il sapere umanistico sotto l’egida
della storia o delle scienze umane (realizzate negli anni Settanta dalla
Storia d’Italia e dall’Enciclopedia dell’editore Einaudi), oppure sotto
quella della filosofia (realizzata negli anni Novanta dall’Encyclopédie
Philosophique Universelle) appaiono come ultimi generosi, ma anche vani,
tentativi di far valere un principio di totalità, di organicità
e di sistematicità da cui la «tecnoscienza» contemporanea
si è liberata da tempo. Fintanto che il sapere umanistico si ostinerà
nella pretesa di individuare e di imporre un’unica area di studi come sapere
guida rigidamente distinto dagli altri, esso riuscirà sconfitto
dal confronto con la «tecnoscienza», cioè con quell’insieme
di scienza, tecnica e industria che domina la società occidentale.
Ancora più assurda è la pretesa di poter sostenere la
sfida che proviene dalla «tecnoscienza», esagerando lo specialismo
delle singole discipline in cui si articolano le aree della storia, della
filosofia e delle scienze umane, perché questa strada conduce alla
totale e rapida scomparsa di quella tradizione continentale che si desidera
preservare in qualche modo: questa infatti ha sempre pensato il sapere
umanistico come inseparabile da un processo di civilizzazione e di formazione
culturale che coinvolge l’intera società e che riguarda potenzialmente
tutti. Del resto dovrebbe essere chiaro che l’esasperazione della coerenza
metodologica conduce ad un isterilimento e ad un inaridimento di molti
campi di ricerca appartenenti alla storia, alla filosofia e alle scienze
umane: siamo ormai sommersi da una quantità di libri e di pubblicazioni,
prodotti unicamente per costituire titoli in concorsi universitari; che
non interessano a nessuno e che non saranno letti da nessuno.
In realtà, dietro la nobile giustificazione di salvare il nocciolo
duro della cultura continentale, i nemici dei Cultural Studies nascondono
altre motivazioni assai meno nobili come la volontà di preservare
poteri accademici articolati su discipline rigidamente chiuse e perciò
controllabili su scala nazionale, la preoccupazione nei confronti di ricerche
focalizzate sullo studio dei complessi legami esistenti tra sapere e potere,
e last but not least la decisione di impedire l’ingresso nell’alta cultura
di nuovi attori, come le donne, i giovani e gli intellettuali non occidentali,
che si preferisce confinare in ghetti come il cosiddetto «pensiero
femminista» o le cosiddette «sottoculture giovanili»,
la cosiddetta «questione postcoloniale».
La forza degli Studi culturali sta innanzitutto nel fatto che facendo
saltare la separazione rigida tra le grandi aree umanistiche (la storia,
la filosofia e le scienze umane), essi si propongono di colmare lo iato
esistente tra il sapere umanistico e la società contemporanea. Ciò
che caratterizza quest’ultima è l’incontro e la mescolanza di codici
appartenenti ad ambiti diversi. essa si sviluppa attraverso una continua
interazione di segni e un incessante slittamento di significati. Ad essere
inadeguati rispetto alle sollecitazioni della società contemporanea
non sono tanto i saperi tradizionali, quanto la struttura che presiede
alla loro articolazione: è la chiusura in se stessi di tali saperi
che li fa apparire obsoleti. Un giovane o una giovane orientati verso i
nuovi profili professionali dello spettacolo, della comunicazione, del
turismo, del giornalismo, dell’editoria, dell’organizzazione del tempo
libero, delle pubbliche relazioni; dell’associazionismo e del volontariato...
hanno certamente bisogno di conoscere la storia politica, sociale, letteraria
ed artistica, la filosofia e le scienze umane, ma queste particolari conoscenze
sono per loro fruttuose solo se contengono in se stesse la possibilità
di essere correlate tra loro nell’ambito di un orizzonte epistemologico
caratterizzato dalla flessibilità. In fondo, alla base della metodologia
degli Studi culturali sta il principio barocco dell’ingegno che consiste
nell’avvicinare cose a prima vista lontane e nell’allontanare cose a prima
vista prossime. Tale principio è ancora più importante se
applicato alla ricerca, la quale è generalmente tanto più
originale e innovativa, quanto più esplora le zone marginali e i
confini delle conoscenze canoniche.
La seconda caratteristica importante degli Studi culturali è
l’attenzione al rapporto tra sapere e potere. Il fatto che l’articolazione
del sapere umanistico non corrisponda affatto alle esigenze del sapere,
ma a strutture di potere accademico, che
mirano molto spesso soltanto ad autoriprodursi, costituisce già
da solo un motivo sufficiente per l’ostracismo in cui gli Studi culturali
sono tenuti in Italia. Molto più grave è tuttavia lo scandalo
di un sapere senza potere e di un potere senza sapere, che è strettamente
congiunto con il tramonto del sistema scientifico-professionale otto-novecentesco,
fenomeno questo che riguarda non solo l’Italia, ma tocca proprio il nocciolo
duro dell’organizzazione culturale continentale. In essa scienza e professione
formavano una struttura le cui due parti erano inseparabili l’una dall’altra:
la scienza era il sapere di una realtà già razionale e scientifica
e quindi il suo possesso garantiva la possibilità di operare all’interno
di tale realtà; e viceversa la professione era un fare che poteva
mostrare in ogni momento di sapere ciò che stava facendo, e che
perciò produceva effetti nella misura in cui si fondava sul sapere.
Questa mirabile coappartenenza reciproca tra scienza e professione, su
cui si reggeva l’università moderna, è ora a pezzi. Resta
tuttavia quanto mai viva l’esigenza che essa cercava di soddisfare. E a
questa che gli Studi culturali cercano di dare una risposta differente
da quella ottocentesca, prescindendo cioè da ogni rapporto organico
e totalizzante tra scienza e professione. Ciò naturalmente non implica
una considerazione delle categorie concettuali nella loro astrazione e
purezza ideale, ma proprio al contrario si propone di intenderle come pratiche
culturali e dispositivi di potere.
In terzo luogo, gli Studi culturali dovrebbero emancipare i nuovi attori
del sapere — le donne, i giovani, gli intellettuali non occidentali — dalle
trappole dell’ingenuità e dell’ideologia. Il femminismo, il giovanilismo,
il multiculturalismo hanno svolto un ruolo importante nel focalizzare il
rapporto tra la conoscenza e i sessi, le generazioni e le culture; tuttavia
molto spesso sono rimasti invischiati nella rivendicazione di identità
anziché consentire esperienze di differenza. In altri termin4 sono
state più manifestazioni di un «risentimento» che di
un «sentire» alternativo. Il sapere umanistico occidentale
ha raggiunto un tale grado di sottigliezza speculativa che ogni sforzo
diretto ad oltrepassarlo non può ricadere all’indietro in un vitalismo
che confonde tutto con tutto.
Resta da spiegare perché si è deciso di collegare nel
sottotitolo di questa rivista gli Studi culturali all’estetica, la quale
in effetti non sembra affatto godere, a prima vista, di nessuno di quei
titoli di merito che abbiamo attributo agli Studi culturali. L’estetica,
intesa in senso stretto, è una disciplina di origine settecentesca,
la cui carica innovativa parve a molti già estinta intorno agli
anni Settanta del secolo scorso: Lukàcs, Marcuse ed Adorno sembrarono
gli ultimi importanti esponenti di una tradizione che affondava le proprie
radici nel pensiero kantiano ed hegeliano. Del resto, circoscritta all’ambito
accademico, essa non si sottrae a quella condizione polverosa e stantia,
che caratterizza tanti aspetti del sapere umanistico: nel migliore dei
casi, non si va oltre la diligente trasmissione del passato. Non a caso,
la maggior parte di coloro che hanno riflettuto in modo creativo sui problemi
dell’estetica nel corso degli ultimi decenni hanno preso le distanze da
essa, in nome di altri orientamenti teorici; come l’ermeneutica, le discipline
dello spettacolo e della comunicazione, la semiotica, la psicoanalisi;
la sociologia. Ora è vero che nel corso degli anni Ottanta e Novanta,
essa ha goduto di una certa rivalutazione, sull’onda di un più generale
ritorno d’interesse verso gli studi filosofici. Ma se ci chiediamo quali
opere veramente importanti sugli oggetti di cui si occupa o di cui dovrebbe
occuparsi l’estetica sono state prodotte nell’ultimo ventennio, quasi tutte
eccedono i limiti in cui i cultori accademici di essa vogliono tenerla
imprigionata.
Se, nonostante ciò, noi la riproponiamo all’attenzione dei lettori,
e ne facciamo addirittura un’etichetta sotto la quale porre parzialmente
un’impresa editoriale, è perché sentiamo il bisogno di una
riflessione teorica intorno ai due oggetti tradizionali dell’estetica:
l’arte, nonché quel particolare tiro di esperienza che, non essendo
né conoscitiva né morale, può — in mancanza di meglio
– continuare ad essere definita come «estetica». Ci troviamo
in effetti dinanzi ad una situazione paradossale: da un lato l’estetica
come disciplina sembra esangue e spenta, dall’altro l’arte e l’esperienza
estetica hanno enormemente ingrandito il loro territorio, trasgredendo
ogni limite e appropriandosi di sempre nuovi territori. Dalla constatazione
di tale paradosso parte il progetto di questa rivista, nella quale l’attenzione
ai fenomeni emergenti della sensibilità artistica ed estetica si
sposa con la ricerca di approcci metodologici più agili e flessibili
di quelli tradizionali.
Un’ultima osservazione riguarda il titolo della rivista: àgalma
in greco antico vuoi dire ornamento, dono, immagine e proviene dai verbi
agàllo (glorificare, esaltare), agàllomai (esultare). In
questa parola, dotata di una ricca pregnanza semantica, s’incrociano il
valore economico, l’aspetto estetico e il potere simbolico. Non a caso
è stata ripresa da Lacan, per il quale essa tende a configurarsi
come l’oggetto del desiderio.
Mario Perniola
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