

Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo recante
"Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore
aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205"
approvata il 5.1.2000 dal Consiglio dei ministri.
Premessa. - Le linee generali dell’intervento -
Il presente decreto legislativo dà attuazione alla delega conferita
dall’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, che — in collegamento,
da un lato, all’ampio intervento di depenalizzazione dei reati minori previsto
dalla legge stessa e, dall’altro, alla vasta opera di riforma che ha
recentemente interessato la materia fiscale — demanda al Governo di emanare,
entro otto mesi dall’entrata in vigore della legge di delegazione, un decreto
legislativo recante la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui
redditi e sul valore aggiunto.
Alla base della delega legislativa sta l’esigenza, profondamente avvertita, di
superamento della strategia che informa la vigente regolamentazione, racchiusa
nel titolo I del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, e successive modificazioni ed
integrazioni: quella strategia, cioè, che ponendo prioritariamente l’accento
sull’esigenza di emancipare il giudice penale dall’accertamento
dell’imponibile e dell’imposta evasa, affida l’intervento repressivo al
modello dei cosiddetti "reati prodromici", ossia a fattispecie
criminose volte a colpire, indipendentemente da un’effettiva lesione degli
interessi dell’erario, comportamenti ritenuti astrattamente idonei a
"preparare il terreno" ad una successiva evasione.
Come è ben noto, i risultati pratici di siffatto approccio normativo alla
materia sono risultati largamente insoddisfacenti. Frantumando il comparto
punitivo in un pletorico complesso di figure criminose dall’impronta
marcatamente "casistica", che si prestano a qualificare penalmente
anche condotte concretamente prive di collegamento oggettivo e soggettivo con
l’evasione d’imposta, esso ha determinato una eccessiva proliferazione dei
procedimenti per reati tributari, gran parte dei quali relativi a fatti di
scarsa rilevanza per gli interessi del fisco, con conseguente sovraccarico degli
uffici giudiziari, le cui energie sono state così distolte dal perseguimento di
vicende criminose degne di maggiore attenzione. Al tempo stesso, poi, proprio la
rimarcata prospettiva di forte anticipazione della tutela penale ha
"costretto" il legislatore del 1982 a comminare per larga parte delle
ipotesi criminose pene particolarmente lievi, spesso tali da consentire
l’oblazione, e dunque inidonee — ancorché irrogate all’esito di processi
lunghi e costosi, quali normalmente risultano quelli tributari (che richiedono
non di rado consulenze tecniche, perizie o indagini bancarie) — a
rappresentare un serio deterrente per l’evasione.
Conformemente alle direttive della legge delega, il nuovo sistema attua, per tal
rispetto, una vera e propria inversione di rotta, assumendo, come obiettivo
strategico, quello di limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente
correlati, tanto sul versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione
degli interessi fiscali, con correlata rinuncia alla criminalizzazione delle
violazioni meramente "formali" e "preparatorie". Esso
risulta conseguentemente imperniato su un ristretto catalogo di fattispecie
criminose, connotate da rilevante offensività e da dolo specifico di evasione:
fattispecie che, proprio per tali loro caratteristiche, sono configurate come di
natura esclusivamente delittuosa e soggette ad un regime sanzionatorio di
apprezzabile spessore.
Quanto alla concreta fisionomia delle fattispecie stesse, la scelta di ancorare
la sanzione penale all’offesa degli interessi connessi al prelievo fiscale ha
portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai
fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento nel quale si
realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e
"definitivo" dell’evasione d’imposta: sì che le violazioni
tributarie "a monte" della dichiarazione medesima — quali, ad
esempio, le omesse fatturazioni o annotazioni in contabilità di corrispettivi,
e a maggior ragione le irregolarità nella tenuta delle scritture contabili,
oggi autonomamente incriminate (articolo 1 del decreto legge n. 429 del 1982)
— restano prive, ex se, di rilievo penale.
La violazione dell’obbligo di veritiera ostensione della situazione reddituale
e delle basi imponibili è al fondamento, segnatamente, di tre tipologie
criminose, costituenti il "cuore" del rinnovato impianto repressivo:
id est, la dichiarazione fraudolenta, che è una dichiarazione non soltanto
mendace, ma caratterizzata altresì da un particolare coefficiente di
"insidiosità"; la dichiarazione "semplicemente" infedele e,
da ultimo, l’omessa dichiarazione.
A tali ipotesi delittuose risultano affiancate tre figure
"collaterali", comunque di rilevante attitudine lesiva, intese a
colpire l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al
fine di consentire a terzi l’evasione; l’occultamento o la distruzione di
documenti contabili in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del
volume d’affari; e, infine, la sottrazione alla riscossione coattiva delle
imposte mediante compimento di atti fraudolenti su propri od altrui beni.
Nella prospettiva del contenimento dell’impiego della sanzione penale, le
indicate fattispecie restano soggette — ad eccezione di quelle di
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti, emissione di tali documenti e occultamento o distruzione
di scritture contabili — a soglie di punibilità idonee a limitare
l’intervento punitivo ai soli illeciti di significativo rilievo economico e,
con ciò stesso, a deflazionare il numero dei procedimenti penali.
Alle norme incriminatrici si accompagnano disposizioni a carattere generale,
regolative di istituti, sostanziali e processuali, che percorrono
"trasversalmente" il campo di intervento (meccanismi premiali intesi a
favorire il risarcimento del danno, prescrizione, competenza per territorio);
disposizioni la cui logica di fondo — segnatamente sugli ultimi due fronti —
è quella di contenere in termini minimali, pur tenendo conto delle
ineliminabili peculiarità della materia, lo scarto tra le regole proprie del
diritto penale tributario e quelle ordinarie.
Specifiche previsioni normative sono poi dirette a disciplinare i rapporti tra
il sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo: versante sul quale la
novità saliente è rappresentata dalla introduzione del principio di specialità,
che esclude, nel caso di convergenza di norme repressive eterogenee sul medesimo
fatto, il cumulo — sancito, di contro, nell’odierno regime — tra misure
punitive dell’uno e dell’altro genus.
Lo schema di decreto è completato da disposizioni transitorie, di coordinamento
e finali, nella cui cornice una particolare attenzione è dedicata alla
risoluzione, in via normativa, dei problemi connessi alla successione della
legge penale nel tempo e, più in particolare, alla individuazione della norma
incriminatrice applicabile ai fatti di reato commessi anteriormente
all’entrata in vigore del decreto stesso che presentino rilevanza penale anche
in base alla nuova disciplina.
Le norme definitorie
Scendendo, sulla scorta di tale preliminare ricognizione, ad una più minuta
analisi dello schema, il titolo I, composto da un solo articolo, è dedicato
alle norme definitorie, volte a fornire opportuni chiarimenti in ordine alla
valenza dei termini impiegati nei titoli successivi, nella duplice ottica di
prevenire dubbi interpretativi e di rendere più asciutta e meglio leggibile,
grazie all’uso di espressioni contratte, la formulazione dei singoli
prescritti normativi.
La nozione di "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti",
offerta dalla lettera a) dell’articolo 1, è in larga misura allineata a
quella emergente dalla lettera d) dell’articolo 4 del decreto legge n. 429 del
1982: si tratta, cioè, della documentazione attestante operazioni in tutto o in
parte prive di riscontro nella realtà, vuoi in senso oggettivo (perché mai
poste in essere, ovvero poste in essere solo parzialmente), vuoi in senso
soggettivo (in quanto intervenute tra soggetti diversi da quelli indicati). Si
precisa, peraltro, che i documenti avuti di mira sono unicamente quelli
"aventi rilievo probatorio a fini fiscali", tali, cioè, da possedere,
nei confronti dell’amministrazione finanziaria, nel caso concreto, una
attitudine alla prova delle operazioni che ne risultano non dissimile da quella
delle fatture (non viene in rilievo, ad esempio, un mero "buono di
consegna" di merce, non seguito dall’emissione della relativa fattura).
Con la formula "elementi attivi o passivi", cui è riferimento nella
lettera b) dell’articolo 1 e che non trova specifico riscontro nella normativa
vigente, si è inteso prefigurare una espressione di sintesi — valevole, in
particolare, riguardo alle fattispecie criminose concernenti la dichiarazione
— atta a comprendere, nella loro traduzione numerica, tutti le voci, comunque
costituite o denominate, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla
determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini
dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Ciò ad
evitare i rischi, in termini di incertezze interpretative e di possibili lacune,
insiti in una enunciazione di tipo specifico e casistico (corrispettivi, ricavi,
componenti reddituali, costi, oneri, eccetera).
Le lettere c) ed e) rendono palese — prevenendo possibili dubbi legati al
principio di stretta legalità — che le norme incriminatrici dello schema sono
applicabili, oltre che nei casi di coincidenza tra contribuente e soggetto
attivo del reato, anche nei confronti di chi opera nella veste di
amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone
fisiche, ai quali sono riferibili la dichiarazione presentata ed il fine di
evasione.
La lettera d) chiarisce, ancora, evitando ripetizioni nel testo normativo, che
la finalità di evadere le imposte, cui è costante richiamo nelle previsioni
punitive, deve intendersi comprensiva anche dello scopo di conseguire indebiti
rimborsi o il riconoscimento di inesistenti crediti di imposta; correlativamente,
ai sensi della lettera g), le soglie di punibilità ragguagliate all’imposta
evasa si intendono estese anche all’ammontare dell’indebito rimborso
richiesto o dell’inesistente credito esposto in dichiarazione.
Sulla nozione di "imposta evasa", di cui alla lettera f) — che ha
valenza anche precettiva — si porterà l’attenzione in sede di esame della
disciplina delle soglie di punibilità (infra, §§ 3.1.2 e 3.1.4).
I delitti
3.1. I delitti in materia di dichiarazione.
3.1.1. Premessa.
Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti.
Nell’ambito del titolo II dello schema, recante le disposizioni
incriminatrici, il capo I raggruppa i delitti in materia di dichiarazione, che,
secondo quanto accennato in apertura, rappresentano l’asse portante del nuovo
sistema punitivo (retro, § 1).
Posto che la dichiarazione avuta di mira è unicamente quella annuale, viene
prefigurata, in ossequio alle indicazioni della legge delega, una terna di
figure delittuose, tutte qualificate da dolo specifico di evasione: la
dichiarazione fraudolenta, la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione.
La fattispecie della dichiarazione fraudolenta si connota come quella
ontologicamente più grave: essa ricorre, infatti, quando la dichiarazione non
soltanto non è veridica, ma risulta altresì "insidiosa", in quanto
supportata da un "impianto" contabile, o più genericamente
documentale, atto a sviare od ostacolare la successiva attività di accertamento
dell’amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalorare artificiosamente
l’inveritiera prospettazione di dati in essa racchiusa.
Nell’ambito di tale figura — che "assorbe" anche talune
fattispecie attualmente punite a titolo di frode fiscale dall’articolo 4 del
decreto legge n. 429 del 1982 — è parso peraltro necessario differenziare,
costruendole come delitti autonomi, le ipotesi in cui la falsa dichiarazione si
fondi su fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2. dello
schema) e quella in cui si basi su artifici di altra natura (articolo 3. dello
schema). L’esigenza nasce dalla diversa struttura che, in base alle
indicazioni del legislatore delegante, il reato di dichiarazione fraudolenta è
destinato ad assumere nelle due ipotesi: giacché solo nella seconda, e non
invece nella prima, la punibilità del fatto resta subordinata al superamento di
particolari soglie "quantitative".
La previsione di cui al n. 1) della lettera a) dell’articolo 9 della legge
delega — a fronte della quale vanno configurate come "dichiarazioni
fraudolente" quelle "fondate su documentazione falsa ovvero su altri
artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile" — va
infatti correlata con quella della successiva lettera b), che esclude la
soggezione a soglie di punibilità delle "fattispecie concernenti …
l’utilizzazione di documentazione falsa". La formula "documentazione
falsa", adoperata dal legislatore delegante, è stata d’altro canto
intesa in senso puntuale e restrittivo — ossia come riferita alle sole fatture
o documenti per operazioni inesistenti, quali definiti nell’articolo 1,
lettera a), dello schema di decreto (retro, § 2) — in coerenza con
l’esigenza di restringere il campo applicativo dell’ipotesi criminosa non
soggetta a soglia ai fatti che presentino il maggiore indice di "decettività"
nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
Sulla scorta di tale impostazione, l’articolo 2 dello schema punisce, dunque,
a prescindere da ogni sbarramento quantitativo, chiunque, avvalendosi di fatture
o altri documenti per operazioni inesistenti, indichi in una delle dichiarazioni
annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi
fittizi ("gonfi", cioè, le componenti negative, in guisa da diminuire
l’imponibile e l’imposta dovuta).
Ad evitare l’insorgenza di serie incertezze sul piano ermeneutico, si è
ritenuto peraltro di dover precisare in quali casi il fatto si considera
commesso "avvalendosi" dei documenti anzidetti. Va rilevato, infatti,
come l’ampia elaborazione giurisprudenziale e dottrinale relativa al concetto
di "utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti", rilevante nell’ottica applicativa del delitto di frode
fiscale di cui all’articolo 4 del decreto legge n. 429 del 1982, non sia
recuperabile sic et sempliciter in rapporto alla nuova figura di reato, la quale
resta integrata, non dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un
comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione:
dichiarazione alla quale, in base alla disciplina tributaria in vigore, non deve
essere allegata alcuna documentazione probatoria. Viene dunque chiarito che si
avvale dei documenti in questione chi li registra nelle scritture contabili
obbligatorie, o comunque li detiene a fine di prova nei confronti
dell’amministrazione finanziaria (scilicet, in sede di successivo
accertamento). Quest’ultima previsione è evidentemente riferibile (ed in
primis) anche ai contribuenti che non siano obbligati alla tenuta delle
scritture contabili, i quali rientrano tra i destinatari della previsione
punitiva.
Quanto al trattamento sanzionatorio, è nella logica del sistema che esso debba
attestarsi sul livello più alto fra quelli ritagliati nell’ambito della
fascia (da sei mesi a sei anni di reclusione) entro la quale, a norma
dall’articolo 9, comma 2, lettera a), della legge delega, il legislatore
delegato può fissare la risposta punitiva ai singoli illeciti. In concreto,
l’articolo 2, comma 1, dello schema commina per il delitto in rassegna la
reclusione da due a sei anni. Ad evitare, tuttavia, conseguenze sanzionatorie
sproporzionate all’oggettivo disvalore del fatto, connesse alla mancanza di
soglie di punibilità, si è prevista l’applicabilità di una pena decisamente
più mite (da sei mesi a due anni di reclusione) quando l’ammontare
complessivo degli elementi passivi fittizi indicato nella dichiarazione risulti
inferiore a lire trecento milioni (la strutturazione della fattispecie con una
pena più elevata per l’ipotesi-base e una più lieve per i casi di minore
gravità, anziché l’inverso, mira intuitivamente ad evitare — con una
tecnica già ampiamente sperimentata in occasione delle modifiche al decreto
legge n. 429 del 1982 — che la comminatoria di pena più severa venga posta
concretamente nel nulla dal giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti
ed aggravanti previsto dall’articolo 69 del codice penale).
3.1.2. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
L’articolo 3. dello schema delinea la fattispecie della dichiarazione
fraudolenta mediante artifici diversi dall’utilizzazione di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti.
Il reato resta integrato dalle mendaci indicazioni inerenti tanto agli elementi
attivi che a quelli passivi: s’intende, nel senso della diminuzione dei primi
o dell’aumento dei secondi rispetto al dato reale.
L’elemento qualificante, che segna il discrimen fra il delitto in esame e
quello di dichiarazione infedele, è rappresentato da ciò, che la
prospettazione inveritiera di dati deve essere realizzata "con mezzi
fraudolenti". Il criterio direttivo della legge delega sul punto — in
virtù del quale vanno configurate come dichiarazioni fraudolente quelle fondate
(oltre che su documentazione falsa, di cui si occupa l’articolo 2 dello
schema) "su altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione
contabile" — è stato attuato, in specie, prevedendo che l’accennata
fraudolenza oggettiva della condotta debba ravvisarsi in presenza d’una
situazione composita, nella quale confluiscono due condizioni fra loro
concatenate.
Il mendacio deve risultare, cioè, anzitutto supportato dalla falsa
rappresentazione degli elementi attivi o passivi nelle scritture contabili
obbligatorie o nel bilancio (la "falsa rappresentazione contabile"):
condizione, questa, a fronte della quale la figura criminosa in esame viene
dunque a connotarsi come reato proprio dei soggetti obbligati alla tenuta della
contabilità.
La falsa rappresentazione non è, però, da sola sufficiente ad integrare gli
estremi del mezzo fraudolento, occorrendo che essa derivi, a propria volta,
dalla violazione degli obblighi di fatturazione o di registrazione dei
corrispettivi relativi a cessioni di beni o prestazioni di servizi, ovvero da
altri artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità (gli
"artifici" cui fa cenno il legislatore delegante). Ne consegue, ad
esempio, che l’indebita sottovalutazione di un voce di bilancio, intesa ad
abbattere l’utile di esercizio, non integrerà — anche laddove ecceda gli
speciali "limiti di tolleranza" stabiliti dall’articolo 7 dello
schema (infra, § 3.1.5) — il delitto di dichiarazione fraudolenta (ma,
semmai, soltanto quello di dichiarazione infedele), quante volte non risulti
accompagnata da un quid pluris atto a conferire caratteristiche di particolare
decettività alla manovra contabile.
Con particolare riguardo alla preliminare inclusione, tra gli
"artifici" rilevanti nell’economia applicativa della figura
criminosa in esame, della violazione degli obblighi di fatturazione e di
registrazione di corrispettivi, si è ritenuto che ad essa non sia d’ostacolo
la circostanza che la norma di delega, nel tracciare la fisionomia della
fattispecie, non faccia specifico e distinto riferimento — diversamente dal
disegno di legge governativo n. 2979/S, le cui generali cadenze sono state da
detta norma mutuate — alla "violazione degli obblighi contabili". Va
rilevato, infatti, come l’ordine del giorno n. 9/1850-B/1, presentato nella
seduta del 16 giugno 1999 della Camera dei deputati e non posto in votazione, in
quanto accolto dal Governo, preveda puntualmente l’impegno del legislatore
delegato a comprendere le violazioni in parola "tra le fattispecie
penalmente sanzionate, ai sensi del comma 2, lettera a)", dell’articolo 9
della legge di delegazione. E se è certo che l’ordine del giorno in questione
non potrebbe comunque prevalere sulla lettera della legge delega, che segna
comunque il confine invalicabile dell’intervento normativo affidato
all’esecutivo, esso può ben assumere, per converso, una valenza
interpretativa del criterio direttivo che qui interessa, dissipandone i margini
di ambiguità.
Giova al riguardo ricordare, in effetti, come il citato disegno di legge 2979/S,
nel descrivere le condotte integrative del delitto di dichiarazione fraudolenta,
indicasse la "violazione degli obblighi contabili" a fianco della più
generale ipotesi degli "altri artifici idonei a fornire una falsa
rappresentazione contabile". La cesura del primo inciso in sede
parlamentare può considerarsi motivata — piuttosto che dalla voluntas di far
rientrare in ogni caso le violazioni degli obblighi di fatturazione e di
registrazione nel meno grave paradigma punitivo della dichiarazione infedele —
dalla duplice considerazione che l’inciso soppresso, da un canto, poteva
ritenersi superfluo, o comunque non indispensabile, risolvendosi dette
violazioni nella predisposizione di un "impianto contabile"
complessivamente "artificioso", così da rappresentare un mero
"doppione" della previsione generale; dall’altro, e proprio per
questo, poteva risultare sinanche "pericoloso", nella misura in cui si
prestava ad avvalorare equivoche interpretazioni stando alle quali anche la
semplice violazione formale degli obblighi attinenti alla fatturazione sarebbe
stata suscettiva di integrare una condotta "artificiosa".
Sotto il profilo sostanziale, poi, la soluzione adottata nello schema di decreto
si giustifica sul rilievo che il ricorso, a fini di evasione, alla
sottofatturazione o all’omessa fatturazione, piuttosto che all’utilizzazione
di fatture per operazioni inesistenti o ad altri artifici, non solo è in
diretta funzione del tipo di reddito conseguito dall’autore dell’illecito,
ma si connota, altresì, come condotta di pericolosità equivalente o, comunque,
non significativamente dissimile: sì che una considerazione penalistica
totalmente differenziata delle due ipotesi — nel senso che la violazione degli
obblighi di fatturazione, cui consegua una mendace dichiarazione, debba non
soltanto restare soggetta ad una soglia di punibilità, ma integrare altresì
una diversa e meno grave fattispecie di reato — non risulterebbe rispondente a
logica. Mentre, invero, per i titolari di reddito d’impresa l’evasione può
più agevolmente realizzarsi tramite costituzione di costi fittizi documentati
da false fatture, per i titolari di altri tipi di reddito (si pensi, in
particolare, al reddito di lavoro autonomo) la via maestra per l’evasione è
rappresentata, per l’appunto, dall’omessa o dalla sottofatturazione:
nell’uno e nell’altro caso, peraltro, il risultato finale è una
dichiarazione "sottomanifestante", ma avvalorata da un impianto
contabile formalmente ineccepibile e tale, dunque, da sviare o rendere assai
complessa la successiva verifica dell’amministrazione finanziaria.
Il punto — per la sua centrale rilevanza, anche in rapporto ai noti precedenti
"storici" connessi alla definizione dell’area di applicabilità del
delitto di frode fiscale ex articolo 4 del decreto-legge n. 429 del 1982 —
viene peraltro specificamente segnalato all’attenzione delle Commissioni
parlamentari chiamate ad esprimere il loro parere sullo schema di decreto,
affinché forniscano opportune indicazioni, segnatamente sotto il profilo della
conformità del proposto assetto ai criteri di delega.
Al di là di ciò, la fattispecie criminosa in discorso, punita con la medesima
pena prevista dall’articolo 2, comma 1, per il delitto di dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti, risulta, però, a differenza di questo, soggetta a soglie di
punibilità intese — secondo la previsione dell’articolo 9, comma 1, lettera
b), della legge delega — "a limitare l’intervento penale ai soli
illeciti economicamente significativi".
In via generale, si è ritenuta coerente con la complessiva filosofia
dell’intervento l’attestazione delle soglie su livelli sensibilmente più
elevati — fatto il ragguaglio tra i diversi parametri di riferimento — di
quelli attualmente previsti dal decreto-legge n. 429 del 1982. A tale soluzione
è di conforto anche la considerazione che l’introduzione — imposta dal n.
1) della lettera c) dell’articolo 9 della legge delega — di soglie di
punibilità ragguagliate all’ammontare dell’imposta evasa comporterà,
inevitabilmente, un considerevole appesantimento del procedimento penale,
imponendo al giudice di sottoporre a verifica in tale sede l’intera posizione
del contribuente, quale premessa per l’accertamento del quantum di evasione.
In simile situazione, la collocazione delle soglie di punibilità su cifre non
adeguatamente selettive rischierebbe di vanificare gli obiettivi di deflazione
della riforma, in quanto i benefici in termini di abbattimento del numero dei
procedimenti finirebbero per risultare annullati dal maggior dispendio di
energie necessario onde definire i procedimenti residui.
Tanto puntualizzato, si prevede che il delitto di cui si va discorrendo resti
integrato — in linea con il disposto di cui ai numeri 1), 2) e 3) della
lettera c) della legge delega — solo quando la falsa indicazione in
dichiarazione degli elementi attivi o passivi porti al superamento congiunto di
due soglie (da considerarsi alla stregua di altrettanti elementi costitutivi del
reato, e che, in quanto tali, debbono essere investiti dal dolo).
In primo luogo, l’imposta evasa deve risultare superiore a lire cento milioni
con riferimento a taluna delle singole imposte. Quest’ultima specificazione,
che tiene conto del sistema della dichiarazione unica, esclude la sommatoria tra
evasione concernente le imposte sui redditi e evasione concernente l’imposta
sul valore aggiunto, incrementando così l’effetto deflattivo della soglia; al
tempo stesso, però, rende rilevante il superamento del limite anche quando si
sia verificato in rapporto ad una soltanto delle imposte considerate.
La nozione di "imposta evasa" è fornita dalla lettera f)
dell’articolo 1: deve considerarsi tale, cioè, la differenza fra l’imposta
effettivamente dovuta e quella che (a seguito della mendace esposizione dei
componenti reddituali o delle basi imponibili) è stata indicata (come dovuta)
in dichiarazione. Da tale importo vanno tuttavia sottratte le somme che il
contribuente, od altri in sua vece (nella veste, segnatamente, di sostituito
d’imposta), abbiano in fatto versato a qualunque titolo (acconto, ritenuta,
ecc.) in pagamento dell’imposta prima della presentazione della dichiarazione
(che segna il momento consumativo dell’illecito).
L’altra soglia, di natura composita, ha come paramento l’ammontare degli
elementi attivi sottratti all’imposizione (formula, questa, che traduce in
termini maggiormente tecnici il riferimento della legge delega ai
"componenti reddituali o … volume di affari evasi"), fermo restando,
ovviamente, che la sottrazione all’imposizione può realizzarsi, oltre che
attraverso una sottoindicazione delle componenti attive, anche mediante un
mendace incremento di quelle passive. Affinché il fatto sia punibile, detto
ammontare deve risultare superiore al rapporto proporzionale del cinque per
cento rispetto all’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in
dichiarazione (rapporto che segna un "limite di tolleranza" di
scostamenti marginali rispetto a contribuenti con elevato imponibile), ovvero, e
comunque, a lire tre miliardi.
3.1.3. Dichiarazione infedele.
L’articolo 4 dello schema delinea il delitto di dichiarazione infedele, la
cui struttura è sostanzialmente coincidente con quella del delitto di
dichiarazione fraudolenta "non qualificata", ex articolo 3, salvo il
già segnalato elemento differenziale dell’assenza dell’impiego di mezzi
fraudolenti. In ragione di ciò, il reato può essere dunque commesso da
qualunque contribuente, anche non obbligato alla tenuta della contabilità.
La minore carica lesiva del fatto ha indotto a prevedere, oltre ad una pena meno
severa (da uno a tre anni di reclusione), soglie di punibilità più elevate: in
particolare, la soglia relativa all’imposta evasa viene stabilita in lire
centocinquanta milioni, mentre quella proporzionale ragguagliata all’ammontare
degli elementi sottratti all’imposizione risulta determinata nel dieci per
cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in
dichiarazione, rimanendo invariato, per contro, il limite "fisso"
alternativo di tre miliardi di lire.
A tale riguardo, si è invero ritenuto che l’istruzione impartita dal n. 4)
della lettera c) dell’articolo 9 della legge delega — di prevedere, cioè,
per l’omessa dichiarazione una soglia di punibilità minore rispetto a quella
stabilita per i casi di infedeltà — non escludesse la facoltà del
legislatore delegato di graduare opportunamente le soglie nelle residue ipotesi.
3.1.4. Omessa dichiarazione.
L’articolo 5 dello schema, in attuazione del n. 3) della lettera a) della
norma di delega, contempla il delitto di omessa dichiarazione, prefigurando per
il medesimo una soglia di punibilità unitaria rapportata alla sola imposta
evasa, il cui ammontare deve superare i cento milioni di lire. La mancanza della
dichiarazione rende, infatti, logicamente inapplicabile una soglia concorrente
basata sul rapporto tra elementi attivi sottratti all’imposizione ed elementi
attivi dichiarati; mentre la previsione di una soglia fissa riferita agli
elementi sottratti risulterebbe scarsamente significativa, rappresentando una
sostanziale duplicazione di quella riferita all’imposta evasa.
Ovviamente, nel frangente per "imposta evasa" dovrà intendersi
l’intera imposta dovuta, al netto delle somme comunque versate in pagamento di
essa prima della scadenza del termine di presentazione della dichiarazione .
Il comma 2 dell’articolo 5 riproduce il secondo periodo dell’articolo 1,
comma 1, del decreto legge n. 429 del 1982, escludendo la rilevanza penale di un
ritardo nella presentazione della dichiarazione contenuto nel limite di novanta
giorni ed evitando, altresì, che possa considerarsi omessa ai fini penali —
come viceversa è previsto in ambito tributario — la dichiarazione non
sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.
3.1.5. Le disposizioni sul tentativo e sulle valutazioni.
Di particolare rilievo, nello spirito del nuovo sistema, è la previsione
dell’articolo 6 dello schema, in forza della quale le condotte di
utilizzazione di fatture o documenti per operazioni inesistenti, definite
dall’articolo 2, comma 2, e le altre condotte fraudolente descritte
nell’articolo 3, comma 2, non sono punibili a titolo di tentativo del delitto
di dichiarazione fraudolenta, ove ad esse non segua la presentazione della
dichiarazione recante indicazioni non veritiere.
La ratio è di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante, di
bandire il modello del "reato prodromico", risulti concretamente
vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’articolo 56 del
codice penale: si potrebbe sostenere, difatti, che le registrazioni in
contabilità di fatture per operazioni inesistenti e le omesse o
sottofatturazioni, scoperte nel corso del periodo d’imposta, rappresentino
atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva
dichiarazione fraudolenta, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato.
L’esclusione di quest’ultimo favorisce, d’altro canto, nell’interesse
dell’erario, la resipiscenza del contribuente: di fronte ad un accertamento
compiuto nei suoi confronti nel corso del periodo d’imposta, egli sarà
portato — piuttosto che a contestare, anche pretestuosamente, l’accertamento
— a presentare una dichiarazione conforme alle sue risultanze e veridica, in
quanto ciò gli consente di sottrarsi alla responsabilità penale.
Altrettanto pregna di significato è la disposizione di cui al successivo
articolo 7, che — riprendendo e sviluppando le indicazioni già contenute
nell’articolo 6, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 18 dicembre
1997, n. 472, come modificato dall’articolo 2 del decreto legislativo 5 giugno
1998, n. 203, in rapporto alle sanzioni amministrative tributarie — stabilisce
i limiti entro i quali le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio
possono dar luogo, nella successiva trasposizione in dichiarazione, a fatti
penalmente rilevanti. A tal proposito, va invero premesso e rimarcato come
nell’economia delle norme incriminatrici di nuovo conio — diversamente che
in rapporto alla normativa vigente (la quale, per tale profilo, è stata spesso
oggetto di censura) — possano assumere rilievo anche manovre contabili a
carattere lato sensu valutativo (sottostime di poste attive, determinazione
arbitraria dell’esercizio di imputazione di determinati costi, ecc.), manovre
attraverso le quali, in effetti, assai di frequente si realizza la "grande
evasione". Al tempo stesso, però, si è inteso evitare — in coerenza con
la preoccupazione già emersa nell’ambito sanzionatorio amministrativo — che
le nuove previsioni punitive di settore possano risultare oggetto di
applicazioni improntate ad eccessiva asprezza, o comunque determinare
l’insorgenza di un "rischio penale" anche nei confronti dei soggetti
non spinti da reali intenti evasivi, stanti i margini di opinabilità e di
incertezza che, tanto a livello normativo che fattuale, connotano la materia
delle valutazioni.
Sostanzialmente, le disposizioni dettate dall’articolo in rassegna possono
considerarsi alla stregua di altrettante regole di esclusione, con presunzione
iuris et de iure, del dolo di evasione. In tale spirito, si prevede, così,
anzitutto, che la violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di
competenza — dell’esercizio al quale imputare, cioè, una certa voce attiva
o passiva (violazione che pure può incidere, deprimendolo, sul computo
dell’imponibile) — non dia luogo a fatto punibile quando sia espressione di
metodi costanti di impostazione contabile (e non, dunque, un fatto episodico
artatamente e specificamente volto, ad esempio, a far gravare indebitamente
costi su un esercizio in utile, piuttosto che su uno in perdita).
In secondo luogo, poi, si esclude rilievo all’inosservanza delle regole
extrapenali che presiedono all’individuazione dei criteri di rilevazione e di
stima, quante volte i criteri concretamente (e, cioè, effettivamente) applicati
siano stati comunque indicati nel bilancio (segnatamente, nella nota
integrativa, che è la sede normativamente deputata alla relativa illustrazione)
o nei documenti che lo accompagnano. L’aperta ostensione, in documenti
destinati alla pubblicità, dei metodi estimativi utilizzati, anche se
scorretti, è stata ritenuta, difatti, incompatibile con la configurabilità di
un dolo di evasione o, comunque, tale da escludere quel minimum di attitudine
all’inganno nei confronti del fisco richiesta ai fini della configurabilità
anche del delitto di dichiarazione infedele. In tal modo, si favorisce e si
premia anche un atteggiamento di lealtà del contribuente, il quale, ove versi
in una situazione di incertezza, potrà comunque evitare la sanzione penale
indicando apertis verbis i criteri ai quali si è attenuto.
Da ultimo, si stabilisce che non diano comunque luogo a fatti punibili a titolo
di dichiarazione fraudolenta o infedele le valutazioni estimative che,
singolarmente considerate, differiscano in misura inferiore al dieci per cento
da quelle ritenute corrette (scilicet, sulla base dell’esatta applicazione dei
criteri legali e contabili che, di volta in volta, debbono presiedere
all’operazione). La previsione di una simile "soglia di tolleranza"
— che si è ritenuto di dover fissare, dato il carattere esclusivamente doloso
degli illeciti avuti di mira, in misura doppia rispetto a quella stabilita dal
citato articolo 6 del decreto legislativo n. 472 del 1997 con riguardo agli
illeciti amministrativi, qualificati anche dalla semplice colpa — si
giustifica, per vero, al lume della già rimarcata opinabilità dei risultati
delle stime. Deve sottolinearsi, d’altro canto, come la disposizione, che è
unicamente "di favore", lasci affatto impregiudicata la possibilità
che anche uno scarto eccedente l’indicato rapporto venga considerato, a fronte
delle circostanze del caso concreto, compreso nella "fascia di
ragionevolezza" entro la quale le valutazioni sono suscettive
legittimamente di spaziare, ovvero, e comunque, non sorretto da dolo.
Logicamente conseguenziale è l’ulteriore previsione per cui degli importi
compresi entro lo "scarto tollerato" non dovrà tenersi conto (anche
quando lo scarto complessivo eccedesse il limite del dieci per cento) nella
verifica del superamento delle soglie di punibilità dei delitti concernenti la
dichiarazione (ad esempio, se il valore attribuito dal contribuente in bilancio
ad una data voce è lire un miliardo e quello ritenuto corretto è lire un
miliardo e cinquecento milioni, l’importo da considerare ai fini della
verifica del superamento delle soglie non sarà rappresentato dalla differenza
"secca" fra le due cifre, ma dalla differenza al netto della
"franchigia" del dieci per cento: e, dunque, in concreto, lire
quattrocento milioni).
3.2. I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte.
3.2.1. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Il capo II del titolo II contempla tre ulteriori fattispecie delittuose, non
concernenti la dichiarazione.
In attuazione del criterio di cui al n. 2 della lettera a) della norma di
delega, l’articolo 8 punisce con la medesima pena prevista per il delitto di
dichiarazione fraudolenta (reclusione da due a sei anni) chiunque, al fine di
consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto,
emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’autonoma considerazione penalistica della fattispecie trova giustificazione,
per vero, nel rilievo tutto particolare che la condotta incriminata assume nel
quadro delle fenomeniche dell’evasione: fenomeniche che assai di frequente
ruotano su "figure criminali" di spiccata pericolosità, rappresentate
da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul
"mercato" documentazione volta a supportare l’esposizione in
dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come
"cartiere").
Stante, peraltro, l’evidente interconnessione tra l’emissione di falsa
documentazione e l’utilizzazione della stessa al fine di avvalorare
dichiarazioni mendaci — condotte che rappresentano facce opposte della
medesima medaglia — è apparso necessario introdurre opportuni correttivi
volti ad evitare che, al di là della diversa strutturazione delle due ipotesi
criminose (l’emissione è punita di per sé, l’utilizzazione solo in quanto
"trasfusa" in una falsa dichiarazione), si determini una troppo
marcata disparità di trattamento sanzionatorio tra emittente ed utilizzatore,
in danno del primo, tale dar dare esca a sospetti di violazione del principio di
cui all’articolo 3 della Carta costituzionale.
In tal ottica, poiché dal versante dell’utilizzatore l’impiego di più
fatture o documenti falsi (non importa se emessi dallo stesso o da diversi
soggetti) a supporto di una medesima dichiarazione mendace dà comunque luogo ad
unico reato, si è previsto, al comma 2 dell’articolo 8, che anche nei
confronti dell’emittente la formazione di una pluralità di fatture o
documenti falsi nel medesimo periodo d’imposta (non importa se a favore dello
stesso o di diversi soggetti) integri un solo episodio criminoso, anziché tanti
reati quanti sono i documenti emessi (si tratta, in sostanza, di una speciale
ipotesi di cumulo giuridico). Parallelamente, poi, a quanto stabilito per
l’utilizzatore dal comma 3 dell’articolo 2, si è comminata una pena minore
nei confronti dell’emittente (da sei mesi a due anni di reclusione) quando
l’importo complessivo dei falsi documenti da lui formati nell’ambito del
medesimo periodo d’imposta risulti inferiore a lire trecento milioni
(s’intende che quando l’operazione, documentata dalla falsa fattura, sia
solo in parte inesistente, si dovrà tener conto, a tale fine, non dell’intero
importo esposto nel documento, ma della sola porzione non rispondente al vero).
Sotto diverso profilo, l’articolo 9. dello schema esclude, poi, in deroga
all’articolo 110 del codice penale, la configurabilità del concorso
dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso
dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato
di emissione. Per quanto attiene all’emittente, la previsione mira a rendere
inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi: essendo,
infatti, l’emissione punita autonomamente ed "a monte", a
prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che
l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione
che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in
sostanza, punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente, per quel che
riguarda l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica
sottesa all’articolo 6, innanzi illustrato (retro, § 3.1.5): quella, cioè,
di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una
indiretta "resurrezione" del "reato prodromico". In difetto
dell’enunciato in rassegna, difatti, il soggetto a favore del quale venga
emessa una fattura o altro documento per operazione inesistente potrebbe essere
considerato, nella quasi totalità dei casi — ancorché egli non si sia
successivamente avvalso della fattura o del documento stesso a supporto di una
dichiarazione inveritiera — come egualmente punibile in veste di compartecipe
(quantomeno morale) nel delitto di emissione, alla cui base sta normalmente un
accordo tra emittente e beneficiario.
In riferimento, poi, al caso in cui tra emittente ed utilizzatore si collochi un
"intermediario", il quale funga da tramite per il
"collocamento" o l’ottenimento della falsa fattura, egualmente si è
escluso che tale soggetto possa essere considerato concorrente in entrambi i
reati.
3.2.2. Occultamento o distruzione di documenti contabili.
In ossequio al n. 5 della lettera a) della norma di delega, l’articolo 10
dello schema prevede la fattispecie — corrispondente a quella di cui
all’articolo 4, lettera b), del decreto legge n. 429 del 1982 —
dell’occultamento o distruzione totale o parziale, a fine di evasione, di
documenti o scritture contabili di cui sia obbligatoria la conservazione, in
modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Proprio il tipo di ostacolo frapposto all’attività di accertamento, cui si
connette la maggior difficoltà di verifica del superamento di prefissati
livelli di evasione, spiega il mantenimento della fattispecie come ipotesi
autonoma rispetto ai delitti in materia di dichiarazione ed il mancato
assoggettamento della medesima (per disposizione del legislatore delegante) a
soglie di punibilità. La pena edittale minima è pari a quella della
dichiarazione infedele (un anno di reclusione), mentre la pena massima si
approssima, senza raggiungerla, a quella della dichiarazione fraudolenta (cinque
anni): al disvalore del mezzo fa difatti riscontro la possibilità che il
quantum concreto di evasione, stante la rimarcata assenza di soglie di punibilità,
si attesti, in concreto, su cifre non particolarmente elevate.
Viene fatto espressamente salvo, comunque, il caso in cui la condotta
costituisca più grave reato: clausola che vale ad escludere, in particolare, il
concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale,
sancendo la prevalenza di quest’ultimo.
3.2.3. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.
Il catalogo delle figure criminose è completato dal delitto di sottrazione
fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’articolo 11 dello schema.
Giova al riguardo premettere e sottolineare che, nella cornice del nuovo
sistema, il mero inadempimento dell’obbligazione pecuniaria avente ad oggetto
l’imposta ed i relativi accessori — una volta che il contribuente abbia
compiutamente e correttamente assolto il dovere di dichiarazione — non assume
in alcun caso rilevanza penale. Scompare, così, in particolare, il delitto di
omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, previsto
dall’articolo 2 del decreto legge n. 429 del 1982: figura criminosa che, più
di altre, è stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme
numero di procedimenti penali cui essa, specie nella versione d’origine
(anteriore, cioè, alla modifica operata dall’articolo 3 del decreto legge 16
marzo 1981, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 maggio 1991, n.
154), aveva dato esca.
In linea con le indicazioni della legge delega , la sanzione penale è stata per
converso mantenuta e rafforzata riguardo alle condotte fraudolente — delle
quali l’alienazione simulata costituisce l’esempio paradigmatico — che il
debitore d’imposta ponga in essere su propri od altrui beni al fine di
frustrare la procedura di riscossione coattiva. Rispetto alla previsione
punitiva dell’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall’articolo 15, comma
4, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 — di cui quella in esame
costituisce lo sviluppo — si evidenzia, in particolare, la soppressione del
presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o
verifiche, o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di
inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo: presupposto che
aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente le capacità di presa
dell’incriminazione. Inoltre, la linea della tutela penale è stata
opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la
semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di
riscossione — idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex
ante — e non anche l’effettiva verificazione di tale evento.
Per converso, è stata aumentata a lire cento milioni, in conformità delle
direttrici generali di intervento (supra, § 3.1.2), la soglia di punibilità
riferita all’ammontare complessivo delle imposte, degli interessi e delle
sanzioni amministrative il cui pagamento si intendeva eludere. Correlativamente,
è stato elevato anche il trattamento sanzionatorio, comminando la pena della
reclusione da uno a quattro (laddove la norma vigente prevede invece la
reclusione fino a tre anni).
Da ultimo, è stata pure nel frangente inserita, in testa alla formula
descrittiva dell’illecito, la clausola di salvezza del reato più grave,
riferita soprattutto all’ipotesi in cui il fatto risulti riconducibile al
paradigma punitivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Le disposizioni comuni
4.1. Le pene accessorie.
Il titolo III dello schema raccoglie le disposizioni comuni, applicabili alla
generalità dei reati contemplati dal titolo precedente.
Dando attuazione alla direttiva di cui alla lettera d) dell’articolo 9 della
legge di delegazione, l’articolo 12 stabilisce le pene accessorie che
conseguono alla condanna per taluno di detti reati. La relativa griglia
corrisponde — al di là del differente ordine di elencazione — a quella già
prefigurata dall’articolo 6 del decreto legge n. 429 del 1982, fatta eccezione
per la pena accessoria, non più riproposta, dell’esclusione dalla borsa degli
agenti di cambio e dei commissionari.
Limitati ritocchi sono stati apportati alla durata delle misure, in una logica
di razionalizzazione complessiva dell’assetto sanzionatorio: in particolare,
è stata aumentata la durata minima e massima dell’interdizione dagli uffici
direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dell’interdizione dai
pubblici uffici, nonché la durata massima dell’interdizione dalle funzioni di
rappresentanza e assistenza in materia tributaria.
A differenza che per le altre pene accessorie, le quali trovano applicazione in
caso di condanna per uno qualsiasi dei delitti contemplati dallo schema, si è
previsto che l’interdizione dai pubblici uffici consegua esclusivamente alla
condanna per i delitti più gravi (dichiarazione fraudolenta e emissione di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), e sempre che non
ricorrano le circostanze attenuanti speciali previste dagli articoli 2, comma 3,
e 8, comma 2. È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione
della pena accessoria in parola — peraltro in ambiti più ristretti rispetto
alla normativa vigente — risulti pienamente giustificata a fronte
dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i
doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus
publicum.
4.2. Le circostanze attenuanti.
Gli articoli 13 e 14 dello schema si connettono all’istruzione impartita
dalla lettera e) dell’articolo 9 della legge di delega, che dà mandato
all’esecutivo di prevedere "meccanismi premiali idonei a favorire il
risarcimento del danno".
Al riguardo, si è scartata la soluzione "estrema" — che pure
avrebbe potuto astrattamente ipotizzarsi a fronte della genericità
dell’indicazione del legislatore delegante — di elevare la condotta
risarcitoria a causa estintiva del reato: e ciò sul rilievo che in materia di
criminalità economica, e tributaria in particolare — laddove vengono in
giuoco interessi di natura prettamente patrimoniale — una simile soluzione
finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un
effetto "criminogeno", in quanto consentirebbe ai contribuenti di
"monetizzare" il rischio della responsabilità penale, barattando,
sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con
l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale.
In tale ottica, lo "strumento premiale", incentivante il risarcimento,
è stato quindi individuato nella previsione di circostanze attenuanti speciali
che rispondono, in sostanza, alla medesima ratio di quella comune di cui
all’articolo 62, n. 6), prima parte, del codice penale. Tali circostanze sono
state costruite come ad effetto comune — esse comportano, cioè,
l’abbattimento della pena principale nella misura ordinaria di un terzo,
prevista dall’articolo 65, n. 3), del codice penale — con l’aggiunta,
tuttavia, dell’attitudine ad escludere tout court l’applicabilità delle
pene accessorie.
L’articolo 13 — costituente la norma applicabile nei casi ordinari —
connette segnatamente l’indicata attenuante all’avvenuta estinzione,
mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei
delitti contestati, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado (limite temporale, questo, che, oltre a risultare in linea con le
previsioni citato articolo 62 n. 6 del codice penale, mira ad evitare lunghe
sospensioni o rinvii del dibattimento in prossimità della decisione, o comunque
ad istruttoria avanzata, finalizzate ad iniziative risarcitorie). Il pagamento
non deve essere, peraltro, necessariamente integrale in rapporto alle pretese
avanzate dal fisco, potendo l’interessato giovarsi degli "istituti
premiali" previsti dalla legislazione tributaria al fine di favorire
l’adempimento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente (accertamento con
adesione, conciliazione giudiziale, rinuncia all’impugnazione, ravvedimento
operoso). La formula al riguardo adoperata — estinzione "anche a seguito
delle procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle
norme tributarie" — è volutamente "aperta", al fine di
consentire l’adattamento automatico del disposto normativo ad eventuali nuovi
istituti di futura introduzione.
Mette conto segnalare, per altro verso, come la disposizione non riferisca
specificamente il pagamento estintivo all’imputato, per modo che il medesimo
giova, ai fini della fruizione dell’attenuante, anche se eseguito da un terzo:
ipotesi suscettiva di verificarsi segnatamente in rapporto a fatti commessi da
amministratori o rappresentanti di società od enti, allorché il versamento
venga effettuato dalla società o dall’ente rappresentato, in quanto soggetto
passivo della pretesa tributaria.
Il comma 2 dell’articolo 13 stabilisce, tuttavia, al tempo stesso, che il
pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste la
violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato in
virtù del principio di specialità sancito dall’articolo 18 dello schema (infra,
§ 5.1). La disposizione non intende introdurre una deroga a tale principio —
inammissibile a fronte delle indicazioni della legge delega — né qualificare
in senso risarcitorio le sanzioni amministrative tributarie, in contrasto con le
indicazioni di sistema emergenti dal decreto legislativo n. 472 del 1997, ma
semplicemente utilizzare la sanzione amministrativa quale criterio
"legale" di commisurazione del risarcimento del danno da reato,
ulteriore rispetto al mero pagamento dell’imposta.
Il successivo articolo 14 prende in considerazione un’ipotesi particolare,
nella quale la disposizione dell’articolo 13 risulterebbe logicamente
inapplicabile: quella, cioè, in cui i debiti tributari connessi alle violazioni
per le quali si procede penalmente risultino estinti per prescrizione o
decadenza dall’azione di accertamento (l’evenienza è configurabile a fronte
della diversa calibratura dei relativi termini rispetto a quelli di prescrizione
dei reati). Poiché sarebbe incongruo — e di dubbia conformità al principio
costituzionale di eguaglianza — che in tale frangente resti preclusa
all’imputato la possibilità di fruire dell’attenuante, si è prefigurato
uno speciale ed agile meccanismo inteso alla determinazione della somma dovuta a
titolo di riparazione dell’offesa recata dal reato, le cui cadenze mutuano (ma
in ottica ovviamente del tutto diversa) quelle dell’istituto del c.d.
"patteggiamento allargato", della cui introduzione si discute in sede
di più generale riforma del processo penale.
In particolare, si stabilisce che l’imputato possa chiedere di essere ammesso
a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,
una somma, da lui indicata, a titolo di "equa riparazione"
dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata,
comunque non inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma
dell’articolo 135 del codice penale della pena minima prevista per il delitto
contestato. Il riferimento al carattere equitativo della riparazione rende
palese come, pur dovendosi tener conto della gravità dell’offesa,
l’istituto non rappresenti uno strumento surrettizio di
"reviviscenza" del debito tributario prescritto, al cui importo il
versamento non deve, dunque, necessariamente adeguarsi.
Qualora il giudice, sentito il pubblico ministero, ritenga congrua la somma
offerta, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il
pagamento, la cui concreta effettuazione determina l’applicabilità
dell’attenuante. Poiché, peraltro, il pagamento non presuppone in alcun modo
un’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, si è espressamente
previsto che, in caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma versata —
non corrispondente ad alcun debito attuale — debba essergli restituita.
Da ultimo, al fine di assicurare la pronta applicazione delle disposizioni
passate in rassegna — tanto dell’articolo 13 che dell’articolo 14 —
evitando l’instaurazione di prassi difformi in tema di interpello
dell’amministrazione finanziaria con effetti di allungamento dei tempi
processuali, la norma finale di cui all’articolo 21 dello schema demanda ad un
decreto del ministero delle Finanze — da emanare entro sessanta giorni
dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo e privo, per i suoi
contenuti, di carattere regolamentare (essendo piuttosto ascrivibile alla
categoria degli atti generali) — di stabilire le modalità di documentazione
dell’avvenuta estinzione dei debiti tributari rilevanti ai fini
dell’applicazione dell’attenuante e di versamento delle somme dovute a
titolo di riparazione dell’offesa.
4.3. Non punibilità nei casi di adeguamento al parere del comitato per
l’applicazione delle norme antielusive.
L’articolo 15 dello schema attua il criterio direttivo di cui alla lettera
f) della norma di delega, stabilendo che non dia luogo a fatto punibile a norma
del decreto delegato la condotta di chi, avvalendosi della speciale procedura
disciplinata dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n.
413, si sia uniformato al parere espresso dal Comitato consultivo per
l’applicazione delle norme antielusive o abbia compiuto le operazioni esposte
nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso.
Come è noto, il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme
antielusive — istituito dal comma 1 dello stesso articolo 21 della legge n.
413 del 1991 — è organo competente ad esprimere pareri su richiesta del
contribuente, dopo un preventivo infruttuoso interpello dell’amministrazione
finanziaria, in ordine a casi concreti nei quali possa farsi questione
dell’applicazione di norme tributarie specificamente indicate dalla legge
(articoli 37, comma 3, e 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 600, articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica
22 dicembre 1986, n. 917, articolo 10 della legge 30 dicembre 1990, n. 408).
Esso è tenuto a pronunciarsi entro sessanta giorni dalla richiesta o, al più,
entro ulteriori sessanta giorni dal ricevimento di una formale diffida, decorsi
i quali la mancata pronuncia equivale ad assenso.
La previsione della non punibilità di chi si sia adeguato al parere
dell’organo consultivo — manifestato anche nella forma del silenzio-assenso
— si connette ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la nota
sentenza 24 marzo 1988, n. 364 e risponde alla medesima logica di fondo delle
speciali disposizioni in tema di non punibilità delle valutazioni di cui
all’articolo 7, in precedenza illustrate (retro, § 3.2.1): si tratta, cioè,
di un criterio legale di esclusione del dolo di evasione richiesto per la
configurabilità delle diverse ipotesi criminose.
L’ambito di operatività della previsione ripete, naturalmente, i confini,
alquanto circoscritti, delle competenze del Comitato consultivo (che, come
accennato, si esplicano in rapporto alle sole materie specificamente indicate
dalla legge): competenze il cui ampliamento — auspicabile nell’ottica di
consentire ai contribuenti un preventivo trasparente rapporto con
l’amministrazione finanziaria — esula, all’evidenza, dai limiti della
delega legislativa nella contingenza attuata.
Val la pena peraltro di soggiungere che, nelle ipotesi di mancata sottoposizione
del caso al parere del Comitato (anche perché esorbitante dai limiti delle sue
attribuzioni), resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta
del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge
civile al fine di realizzare risparmi di imposta, vada ricondotta al paradigma
di quella che è tradizionalmente qualificata come semplice "elusione di
imposta", quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione,
rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale. In altre parole, la
disposizione di cui all’articolo 15. è unicamente di favore per il
contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, "a
rovescio", ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle
fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione
dell’organo consultivo.
4.4. Prescrizione.
Per quanto attiene alla prescrizione, la legge delega impartisce
l’istruzione di uniformare la relativa disciplina a quella generale, facendo
salve, tuttavia, eventuali deroghe "rese opportune dalla particolarità
della materia tributaria" .
Attualmente, come è noto, l’articolo 9 del decreto legge n. 429 del 1982
enuncia regole derogatorie circa la prescrizione dei reati in materia di imposte
sui redditi e sul valore aggiunto tanto sul versante dei termini prescrizionali,
da esso modulati in senso fortemente "atipico"; quanto su quello degli
atti interruttivi, al cui catalogo viene aggiunta la "constatazione"
delle violazioni.
Sul primo fronte, il presente schema prefigura l’integrale abbandono del
regime speciale, rendendo così applicabili senza eccezioni alle nuove ipotesi
criminose le disposizioni generali sui termini di prescrizione di cui
all’articolo 157 del codice penale.
Di contro, è sembrato opportuno conservare, in correlazione all’iter tipico
dell’accertamento delle infrazioni in campo tributario, la previsione di atti
interruttivi ulteriori rispetto a quelli elencati dall’articolo 160 del codice
penale: atti che sono stati peraltro più puntualmente identificati nel
"verbale di constatazione" e nell’"atto di accertamento"
delle violazioni. La nuova formulazione vale, invero, a risolvere in senso
formale e più garantista i dubbi interpretativi originati dal concetto di
"constatazione", cui è riferimento nella norma vigente —
particolarmente sul punto dell’attitudine a comprendere qualsiasi attività
accertativa degli uffici finanziari o della polizia tributaria a prescindere
dalla verbalizzazione dei relativi risultati — evitando che possa attribuirsi
efficacia interruttiva ad atti ed attività non aventi rilievo tipico.
Quanto all’atto di accertamento, alla produzione dell’effetto interruttivo
è peraltro sufficiente la semplice adozione, non essendo richiesta la notifica.
4.5. Competenza per territorio.
L’articolo 17 dello schema detta regole specifiche in ordine alla
competenza per territorio. In proposito, il criterio direttivo della legge
delega — "individuare la competenza per territorio sulla base del luogo
in cui il reato è stato commesso, ovvero, ove ciò non fosse possibile, del
luogo in cui il reato è stato accertato" — prelude alla trasformazione
del criterio del luogo di accertamento, da regola generale ed esclusiva di
determinazione del foro competente (qual è attualmente: articolo 11, secondo
comma, del decreto-legge n. 429 del 1982), a regola sussidiaria, destinata ad
operare unicamente allorché non possa trovare applicazione il criterio
principale del luogo di commissione.
In puntuale ossequio a tale direttiva, il comma 1 dell’articolo in esame
esordisce, dunque, stabilendo che quando (e solo quando) la competenza per
territorio in ordine ai reati previsti dal decreto non possa determinarsi sulla
base delle disposizioni generali di cui all’articolo 8 del codice di procedura
penale (che individuano, in rapporto alle diverse categorie e forme di
manifestazione dei reati, il luogo di commissione dell’illecito), la
competenza stessa si radichi presso il giudice del luogo di accertamento,
escludendo così l’applicazione delle regole suppletive di cui all’articolo
9 del medesimo codice.
I successivi commi 2 e 3 dettano disposizioni specifiche, intese a risolvere in
via normativa i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in
ordine a determinate ipotesi di reato, le quali si giustificano sulla base della
generale delega legislativa al coordinamento conferita dall’articolo 16, comma
1, lettera b), della legge delega.
Relativamente ai delitti in materia di dichiarazione, tali problemi si
connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica
attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal
quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore
dell’illecito di "scegliersi" il giudice competente con il semplice
accorgimento di incaricare della trasmissione stessa un soggetto abilitato che
operi nel luogo ritenuto più conveniente; mentre, ove si abbia riguardo al
luogo in cui i dati confluiscono, porterebbe all’inaccettabile risultato di
concentrare la competenza per tutti i reati presso il tribunale di Roma, stante
la gestione centralizzata del materiale informatico. A fronte di ciò, si è
dunque stabilito che i reati in questione debbano considerarsi consumati nel
luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salva l’applicabilità
del criterio suppletivo del luogo dell’accertamento laddove detto domicilio
risulti ubicato all’estero.
Il comma 3 ha per converso di mira la fattispecie, prevista dall’articolo 8,
comma 2, dello schema, dell’emissione di più fatture o documenti per
operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso
periodo d’imposta: ipotesi che — per le ragioni a suo tempo lumeggiate
(retro, § 3.2.1) — è stata configurata come integrativa di un unico reato.
Stante la particolare strutturazione dell’ipotesi criminosa, nella quale
confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico
criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile,
in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più
precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali).
Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di
emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo:
soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le
questioni di competenza, specie nel caso — tutt’altro che infrequente — di
scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di
contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei
singoli documenti, presso il quale ha sede l’ufficio del pubblico ministero
che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro
previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale: criterio che
ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dal comma 2
dell’articolo 10 del medesimo codice.
Rapporti con il sistema sanzionatorio amministrativo e tra procedimenti
5.1. Il principio di specialità.
Il titolo IV dello schema reca disposizioni intese a regolare i rapporti tra
il nuovo sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo, nonché fra il
procedimento penale, il procedimento amministrativo di accertamento ed il
processo tributario.
Le coordinate nell’ambito delle quale si muove l’intervento sono segnate dai
criteri di delega che impongono, per un verso, l’applicazione del principio di
specialità nel caso di convergenza di norme sanzionatorie eterogenee (penali ed
amministrative) su un medesimo fatto ; e, per l’altro, di coordinare i due
sistemi "in modo da assicurare risposte coerenti e concretamente
dissuasive" .
Sulla base di tali istruzioni parlamentari, il comma 1 dell’articolo 18. dello
schema — ribaltando la regola del cumulo, oggi sancita dall’articolo 10 del
decreto legge n. 429 del 1982, ed allineando il sistema sanzionatorio tributario
al principio generale di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n.
689 — stabilisce che quando uno stesso fatto è punito da una delle norme
incriminatrici del decreto delegato e da una disposizione che prevede sanzioni
amministrative, si applichi la sola disposizione speciale.
All’affermazione del principio di specialità non deve peraltro seguire —
stante il ricordato criterio di delega di cui alla lettera l) — una perdita di
deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su questo versante si
connettono, per vero, all’eventualità che, in determinati frangenti, il
potenziale autore d’una violazione tributaria possa considerare maggiormente
temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di elevato ammontare (quale
normalmente sono quelle tributarie, ragguagliate a percentuali o multipli
dell’evasione) e che verrà d’altro canto indefettibilmente applicata,
piuttosto che una sanzione penale, fortemente afflittiva bensì in astratto, ma
la cui esecuzione è suscettiva di venir evitata, in concreto, con
l’ottenimento della sospensione condizionale della pena: donde, in definitiva,
un possibile pungolo al compimento dei fatti più gravi di evasione (collocati,
cioè, al di sopra della soglia di punibilità), in luogo di quelli più lievi.
Siffatto timore appare pregnante, in verità, soprattutto in riferimento ai
fatti commessi nell’ambito di società o altri enti — quali saranno, in
buona parte dei casi, quelli puniti con pene criminali dal presente decreto,
stante il livello delle soglie di punibilità — a fronte della possibilità di
sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare
sostanziale dell’interesse (la società o l’ente, per l’appunto),
riversando la responsabilità penale su meri prestanome.
Quale opportuno correttivo, si è dunque previsto, al comma 2 dell’articolo
18., che quando pure il principio di specialità porti ad escludere
l’applicabilità delle sanzioni amministrative nei confronti della persona
fisica autrice della violazione, permanga tuttavia la responsabilità per tali
sanzioni dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto
legislativo n. 472 del 1997, che non siano, a lor volta, s’intende, persone
fisiche penalmente responsabili in veste di concorrenti nel reato. La
disposizione richiamata stabilisce, invero, come è noto, che nei casi in cui
una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo
è commessa dal dipendente o dal rappresentante negoziale di una persona fisica
nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato, ovvero dal dipendente o
dal rappresentante o dall’amministratore di società, associazione od ente,
nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società,
l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della
violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla
sanzione irrogata.
Si tratta, per vero, d’una soluzione che appare, in sé, rispondente ad una
logica "di sistema". Questa consiste, in effetti, nell’evitare che
il medesimo fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto (una volta
come illecito amministrativo e l’altra come illecito penale), mantenendo,
tuttavia, la possibilità di una punizione divaricata rispetto a soggetti
diversi (ad esempio: amministratore, da un lato, e società amministrata,
dall’altro). Inoltre, sebbene l’obbligazione dei soggetti indicati dal
citato articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997 sia
qualificata come "solidale" rispetto a quella dell’autore della
violazione, lo stesso decreto legislativo già contempla la possibilità che
detti soggetti rispondano della sanzione amministrativa nonostante
l’inapplicabilità della medesima all’autore. Ciò avviene, in particolare,
nel caso di morte di quest’ultimo: ancorché, infatti, l’obbligazione al
pagamento della sanzione non si trasmetta agli eredi (articolo 8 del decreto
legislativo n. 472 del 1997), la responsabilità dei soggetti di che trattasi
permane, pure quando la morte sia avvenuta prima dell’irrogazione della
sanzione stessa (articolo 11, comma 7, del decreto).
5.2. Rapporti tra procedimento penale e processo tributario.
Il tema dei rapporti tra procedimento penale e processo tributario assume una
rilevanza tutta particolare nella cornice del nuovo sistema, a fronte del
generale spostamento "a valle" della linea di intervento punitivo e
dell’introduzione di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare
dell’imposta evasa, con conseguente devoluzione al giudice penale di compiti
di verifica spesso integralmente sovrapponibili a quelli del giudice tributario.
Al riguardo, si è peraltro decisamente scartata qualsiasi soluzione che
postulasse l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità tra procedimenti
nell’uno o nell’altro senso (pregiudiziale tributaria al processo penale o
pregiudiziale penale al processo tributario): e ciò per un duplice ordine di
ragioni. Innanzitutto, per l’inaccettabile dilatazione dei tempi di intervento
della decisione che ne seguirebbe, e che in fatto preluderebbe — come ha in
particolare insegnato l’esperienza della "pregiudiziale tributaria",
già contemplata dall’articolo 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929, n.
4 e successivamente abbandonata dal decreto legge n. 429 del 1982 tra il
generale plauso — ad un drastico illanguidimento dell’efficacia del sistema
sanzionatorio. In secondo luogo, poi, per le diverse regole probatorie valevoli
nei due processi, non esportabili sic et simpliciter dall’uno all’altro
senza che ne derivino effetti penalizzati per l’imputato o per
l’amministrazione finanziaria.
In sostanziale continuum con il panorama normativo vigente, si è pertanto
affermato l’opposto principio dell’autonomia reciproca dei due processi (o
del "doppio binario"), segnatamente escludendo — sulla falsariga
dell’articolo 12, primo comma, prima parte, del decreto legge n. 429 del 1982
— che il processo tributario possa essere sospeso per la pendenza del
procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento dipende la relativa definizione (articolo 19 dello schema): regola,
questa, estesa — al fine di evitare ogni possibile dubbio — anche al
preliminare procedimento amministrativo di accertamento delle violazioni
tributarie. Quanto alla regola inversa — id est, all’impossibilità di
sospensione del processo penale per la pendenza di quello tributario — essa
discende dalle regole generali del codice di procedura penale (articoli 3 e
479).
Non si sono dettate, del pari, disposizioni particolari sull’efficacia del
giudicato penale nel processo tributario, del tipo di quella già prevista
dall’articolo 12, primo comma, seconda parte, del decreto legge n. 429 del
1982, e peraltro ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità tacitamente
abrogata dal nuovo codice di rito. Troveranno quindi applicazione le
disposizioni ordinarie, ed in particolare l’articolo 654 di detto codice, che
esclude l’efficacia "esterna" del giudicato penale allorché la
legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva
controversa.
Nella cornice degli accolti principi di specialità (retro, § 5.1) e di
autonomia, si sono introdotte, per converso, speciali regole procedurali intese
ad evitare che le intersezioni dei due sistemi provochino comunque un
rallentamento dei tempi di applicazione delle sanzioni. Occorre considerare, per
vero, che l’appartenenza d’una data violazione all’area dell’illecito
penale, piuttosto che a quella dell’illecito amministrativo, è in funzione di
elementi (superamento di soglie, dolo specifico di evasione, eccetera) la cui
sussistenza, anche a fronte delle allegazioni difensive dell’imputato,
potrebbe ovviamente rimanere esclusa all’esito del procedimento penale (questo
potrebbe concludersi, ad esempio, con l’accertamento che la contestata
omissione della dichiarazione dei redditi sussiste bensì, ma non è punibile
come reato perché al di sotto della soglia di evasione o non qualificata da
dolo). In tale situazione, se di fronte a violazioni ritenute integrative di
reato l’amministrazione finanziaria dovesse senz’altro sospendere il
procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative (in quanto
inapplicabili sulla base del principio di specialità, ex articolo 18, comma 1,
dello schema), salvo poi a riavviarlo in caso di assoluzione o proscioglimento
dell’imputato con sentenza definitiva, si aprirebbe, in coda al processo
penale — al di là della possibile scadenza, medio tempore, dei termini di
decadenza o di prescrizione — una nuova fase suscettiva di sviluppi in sede
contenziosa.
Ad evitare ciò, l’articolo 20 dello schema prefigura un meccanismo che
consente all’amministrazione finanziaria di determinare subito le sanzioni
amministrative astrattamente applicabili per le violazioni fatte oggetto di
notizia di reato: sanzioni la cui concreta eseguibilità nei confronti dei
soggetti ritenuti penalmente responsabili resta comunque soggetta alla
condizione sospensiva che essi vengano assolti o prosciolti in via definitiva
con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In tal modo, fermo
restando il principio di unicità della sanzione (nella specie, solo
amministrativa), viene salvaguardata — conformemente al dettato della citata
lettera l) della norma di delega — la capacità di pronta risposta e, dunque,
l’efficacia dissuasiva del sistema.
Il comma 3 dello stesso articolo 20 fornisce, da ultimo, un opportuno
chiarimento circa l’operatività dell’indicato meccanismo nei casi in cui ci
si trovi di fronte a più violazioni tributarie che, in base al disposto
dell’articolo 12 del decreto legislativo n. 472 del 1997, debbono essere
colpite con sanzione amministrativa unica in quanto in concorso formale o
continuazione tra loro. Allorché, in particolare, solo alcune di dette
violazioni risultino penalmente rilevanti, l’ufficio competente procederà
comunque all’irrogazione di un’unica sanzione per tutte, secondo il disposto
del comma 1 dell’articolo 20: ma di tale sanzione sarà eseguibile nei
confronti dell’imputato — sino a quando il procedimento penale non si
concluda con l’assoluzione o il proscioglimento per la riconosciuta
irrilevanza penale del fatto — solo la parte che sarebbe stata applicabile in
rapporto alle violazioni considerate ab origine prive di riflessi penali.
Le disposizioni di coordinamento, transitorie e finali
6.1. Le disposizioni di coordinamento e le abrogazioni.
A chiusura dello schema, il titolo V detta le disposizioni di coordinamento,
transitorie e finali, le quali trovano la loro generale fonte di legittimazione
nel criterio di cui all’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.
Posto che dell’articolo 21 — connesso alle neointrodotte circostanze
attenuanti legate al risarcimento del danno — si è già detto a suo luogo
(retro, § 4.2), l’articolo 22 novella l’articolo 63, primo comma, secondo
periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e
l’articolo 33, terzo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, in tema di trasmissione agli uffici
finanziari degli atti di indagine svolti in sede penale relativamente a reati
tributari. L’attuale formulazione delle norme novellate — in base alla quale
tale trasmissione può aversi solo "previa autorizzazione dell’autorità
giudiziaria in relazione alle norme che disciplinano il segreto" — è
stata per vero interpretata nel senso che l’autorizzazione stessa possa
intervenire solo quando sia cessato il segreto investigativo in base alle norme
del codice di procedura penale: prospettiva nella quale, peraltro, le
disposizioni in questione non svolgono alcuna utile funzione, rendendo priva di
ratio la stessa previsione di un provvedimento autorizzatorio. Anche in
correlazione all’enunciato principio di reciproca autonomia del processo
penale e del procedimento amministrativo di accertamento (retro, § 5.2), si
chiarisce ora, per converso, che l’autorizzazione de qua può essere
rilasciata dall’autorità giudiziaria anche in deroga alle generali
disposizioni sul segreto di cui all’articolo 329 del codice di procedura
penale. In sostanza, nel concedere o negare la trasmissione, l’autorità
giudiziaria potrà compiere, caso per caso, una valutazione comparativa
dell’interesse a non diffondere comunque ante diem la conoscenza di atti che
possono risultare cruciali per lo svolgimento delle indagini e quello
contrapposto dell’amministrazione finanziaria ad avere pronta notizia di
acquisizioni investigative suscettive di portare all’avvio di procedure di
recupero di imposte o di applicazione di sanzioni.
L’articolo 23 sostituisce con una sanzione amministrativa pecuniaria la
sanzione penale attualmente comminata dall’articolo 2 della legge 26 gennaio
1983, n. 18 per le condotte di manomissione dei registratori di cassa. Va
rilevato, in proposito, come la qualificazione penalistica di tali condotte non
trovi più giustificazione nel nuovo sistema, trattandosi di violazioni "prodromiche"
ad una dichiarazione mendace; pur tuttavia, non potrebbe procedersi
all’abrogazione pura e semplice della norma incriminatrice, in quanto —
diversamente che per altre ipotesi di reato — le violazioni in questione
rimarrebbero sfornite di qualsiasi sanzione, anche sul piano amministrativo
(assetto, questo, evidentemente inopportuno, trattandosi di comportamenti
trasgressivi comunque di rilievo). L’ammontare della sanzione introdotta (da
due milioni a quindici milioni di lire) è stato parametrato tenendo conto
dell’importo delle sanzioni comminate dal decreto legislativo 18 dicembre
1997, n. 471 per infrazioni di omologo disvalore.
L’articolo 24 reca le abrogazioni, che investono, conformemente al dettato del
comma 1 dell’articolo 9 della legge delega, l’intero titolo I del
decreto-legge n. 429 del 1982 e le altre norme vigenti incompatibili con la
nuova disciplina. Al riguardo, si è sancita l’abrogazione espressa — oltre
che delle disposizioni relative a fattispecie od istituti diversamente
disciplinati dallo schema (quali l’articolo 97, sesto comma, del decreto del
Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, in tema di sottrazione fraudolenta
alla riscossione delle imposte, o l’articolo 6, comma 1, del decreto legge 31
dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio
1997, n. 30, in tema di risarcimento del danno nei reati tributari) — anche di
un complesso di norme incriminatrici che, sulla falsariga del decreto legge n.
429 del 1982, e talora con esplicito richiamo alle relative disposizioni,
sanzionavano penalmente violazioni "prodromiche" ad una falsa
dichiarazione, con intenti anticipatori della tutela: modello, questo, da
considerare incompatibile con il nuovo assetto, a fronte di quanto innanzi
ampiamente lumeggiato.
Tra le norme incriminatrici abrogate non figura quella di cui all’articolo 2,
comma 26, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con
modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17: in forza dell’articolo 6,
comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 1999 tale disposizione deve essere
infatti oggetto di semplice depenalizzazione (depenalizzazione in fatto disposta
dall’articolo 27 del decreto attuativo della distinta delega legislativa di
cui all’articolo 1 della legge stessa).
6.2. Le norme transitorie.
Lo schema di decreto è completato da norme transitorie volte a dare compiuta
risposta ai delicati problemi connessi alla successione di leggi penali nel
tempo.
Giova al riguardo osservare come, a seguito della abolizione del principio di
ultrattività delle norme penali finanziarie (articolo 20 della legge n. 4 del
1929) — abolizione imposta dall’articolo 6, comma 1, lettera d), della legge
n. 205 del 1999 e sancita anch’essa dal decreto legislativo attuativo della
delega di cui all’articolo 1 della medesima legge (articolo 24, comma 1) —
la sorte dei fatti criminosi commessi anteriormente all’entrata in vigore del
presente decreto dovrebbe essere stabilita alla stregua delle regole generali
dettate dall’articolo 2 del codice penale. La diversità strutturale tra il
vecchio ed il nuovo regime renderebbe peraltro malcerta l’applicazione di tali
regole, determinando l’insorgenza di questioni ermeneutiche particolarmente
complesse, destinate ad appesantire, per i loro riflessi sul piano giudiziario,
la fase di passaggio dall’uno all’altro sistema. Accanto, infatti, ad
ipotesi criminose che non trovano più riscontro nel rinnovato panorama
normativo, e rispetto alle quali il presente decreto realizza senz’altro una
vicenda di abolitio criminis (omessa fatturazione o registrazione di
corrispettivi, irregolarità concernenti le scritture contabili, omesso
versamento di ritenute, violazioni concernenti gli stampati, eccetera), ve ne
sono per converso altre che presentano più o meno marcati tratti comuni con le
fattispecie delittuose di nuovo conio , così che, rispetto ad esse,
l’interprete dovrebbe volta per volta indagare se il fatto punibile in base
alle vecchie disposizioni resti tale anche in base alle nuove, in vista della
successiva individuazione della norma concretamente applicabile alla
fattispecie, ex articolo 2, terzo comma, del codice penale, in quanto più
favorevole al reo. La definizione dell’area di sovrapposizione dei due schemi
punitivi sarebbe resa, peraltro, disagevole dalle discrepanze di struttura, che
investono sia l’elemento psicologico (si passa, infatti, da contravvenzioni
punite anche a titolo di semplice colpa a delitti qualificati da dolo specifico
di evasione: così, ad esempio, rispetto all’omessa dichiarazione); sia la
configurazione e l’oggetto materiale della condotta ; sia, infine, le soglie
di punibilità, che risultano non soltanto modificate in aumento, ma riferite
altresì a diversi parametri (così, ad esempio, la soglia di punibilità
dell’omessa dichiarazione è ragguagliata all’imposta evasa e non più ai
componenti positivi di reddito non dichiarati).
A tali delicate questioni si è intesa dunque dare soluzione normativa,
indicando espressamente e in modo specifico, nel rispetto del generalissimo
principio del favor rei, in quali casi i fatti criminosi pregressi conservino
rilevanza penale e quali disposizioni siano ad essi applicabili.
In simile prospettiva, l’articolo 25. dello schema prevede preliminarmente, al
comma 1, che le nuove norme incriminatrici — caratterizzate, nel complesso, da
risposte sanzionatorie decisamente più energiche di quelle prefigurate dalle
corrispondenti disposizioni del decreto legge n. 429 del 1982 — non operino in
alcun caso, ai sensi dell’articolo 2, terzo comma, del codice penale,
relativamente ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore;
mentre, nei successivi commi, individua le condizioni in presenza delle quali le
vecchie norme incriminatrici continuano ad applicarsi ai fatti posti in essere
sotto il loro impero (a contrario sensu, in loro assenza la condotta non sarà
più penalmente perseguibile). In sostanza, siffatte condizioni attuano un
raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina, "ritagliando" entro
l’originario perimetro di operatività della singola incriminazione un’area
più ristretta, che corrisponde a quella nella quale il fatto manterrebbe
valenza penale anche alla stregua delle nuove norme. Nei casi in cui si
riscontra una diversità nel parametro di riferimento della soglia di punibilità
(imposta evasa, anziché soli componenti positivi), il raccordo è stato operato
elevando l’originaria soglia ad un multiplo della soglia prevista per le nuove
incriminazioni: multiplo che tiene conto del rapporto esistente, in base all’id
quod plerumque accidit, tra omessa indicazione di ricavi ed evasione. Così, ad
esempio, si è previsto che la norma incriminatrice dell’omessa dichiarazione,
di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 429 del 1982, continui ad
applicarsi solo quando il fatto sia stato commesso al fine di evadere le imposte
sui redditi o sul valore aggiunto (non, dunque, per semplice colpa o dolo
generico) e l’ammontare dei redditi fondiari, corrispettivi, ricavi, compensi
o altri proventi non dichiarati risulti superiore a lire trecento milioni (in
luogo dei cinquanta oggi previsti): importo, questo, pari al triplo della soglia
di punibilità ragguagliata all’evasione stabilita per il corrispondente
delitto di cui all’articolo 5 del presente schema (articolo 25, comma 2, dello
schema). La soluzione mira intuitivamente ad agevolare la definizione del
processi in corso, evitando che si debba procedere a supplementi di indagine per
accertare il superamento di soglie basate su parametri diversi da quelli sui
quali sinora è stata puntata l’attività di accertamento.
È opportuno segnalare, da ultimo, che, a mente del citato articolo 25, quante
volte ricorrano le condizioni di applicabilità delle disposizioni
incriminatrici del decreto legge n. 429 del 1982 ai fatti anteriormente
commessi, tale decreto legge troverà applicazione in blocco (e così, anche per
quel che concerne la disciplina delle pene accessorie, della prescrizione, della
competenza per territorio, eccetera). Anche nel frangente, l’obiettivo è
quello di evitare l’insorgenza di questioni ermeneutiche di non agevole
risoluzione, connesse alla "mescolanza" — altrimenti ipotizzabile
— tra norme incriminatrici del vecchio regime e norme "collaterali"
del nuovo.
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