Circolare Assonime n. 7 del 22 febbraio 2000

"Redditi di lavoro dipendente – Redditi diversi – Nuova disciplina delle assegnazioni di azioni ai dipendenti – Modifiche ai criteri di determinazione del capital gain da cessione – Decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (articolo 10 e articolo 13, comma 1, lettera b), nn. 2 e 3) e comma 2) – Circolare 19 dicembre 1999, n. 247/E del ministero delle Finanze (par.1.13)".

Facendo seguito alle nostre circolari di inizio anno, proseguiamo l’esame dei provvedimenti fiscali di fine 1999, commentando nella presente le modifiche apportate al Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Dpr 22 dicembre 1986, n. 917, dall’articolo 13, comma 1, lettera b), nn. 2 e 3, e comma 2, e dall’articolo 10 del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (pubblicato nel Supplemento ordinario n. 232 alla "Gazzetta Ufficiale" n. 306 del 31 dicembre 1999), in tema di assegnazione di azioni ai dipendenti; modifiche che incidono, in particolare, sulle disposizioni dell’articolo 48 del Tuir concernenti la determinazione dei redditi di lavoro dipendente e dell’articolo 82, comma 5, del Tuir riguardanti la determinazione delle plusvalenze costituenti redditi diversi.

L’articolo 13 del citato decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 ha introdotto, invero, anche altre modifiche alla disciplina di determinazione del reddito di lavoro dipendente recata dall’articolo 48 del Tuir, relative in particolare al trattamento impositivo di alcune tipologie di fringe benefits: di esse ci occuperemo in altra circolare di prossima emanazione.

In ordine all’assegnazione di azioni, duplice è l’intervento operato sul citato articolo 48 del Tuir: da un lato viene sostituita la lettera g) del comma 2 per dettare un più restrittivo regime delle assegnazioni di azioni alla generalità dei dipendenti; dall’altro viene integrato lo stesso comma 2 con la lettera g-bis), al fine di disciplinare ex novo i piani di stock options rivolti anche solo a determinate categorie di dipendenti.

Nel premettere che entrambe le modifiche devono considerarsi rilevanti sia ai fini fiscali che previdenziali — in virtù della unificazione delle basi imponibili attuata dall’articolo 6 del decreto legislativo n. 314 del 1997 — osserviamo che il nuovo regime, tanto per ciò che concerne l’ipotesi della lettera g) quanto della lettera g-bis), è applicabile, come per il passato, solo in relazione alle azioni emesse dall’impresa con la quale il contribuente intrattiene il rapporto di lavoro, nonché a quelle emesse da società che direttamente o indirettamente controllano la stessa impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa: in questo senso dispone espressamente il nuovo comma 2-bis dell’articolo 48 del Tuir, come inserito dall’articolo 13 in commento.

Innovativa rispetto al previgente regime è, invece, l’estensione dei meccanismi agevolativi anche alle azioni di vecchia emissione. Come si ricorderà, la precedente lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir, pur nella sua ampiezza applicativa, limitava l’agevolazione alle sole azioni di nuova emissione attraverso un esplicito rinvio alle disposizioni di cui agli articoli 2349 (emissione di azioni a favore dei prestatori di lavoro) e 2441, ultimo comma (azioni di nuova emissione offerte in sottoscrizione ai dipendenti), Codice civile. La nuova disposizione rimuove tale limitazione, priva di plausibili giustificazioni sistematiche, rendendo applicabile l’agevolazione tanto alle azioni di nuova quanto a quelle di vecchia emissione, entrambe perfettamente fungibili in relazione alla ratio del beneficio.

Strettamente connessa all’introduzione dell’anzidetta disciplina è la modifica apportata dall’articolo 10 dello stesso decreto legislativo n. 505 all’articolo 82, comma 5, del Tuir: modifica con la quale viene fissato il principio di assumere come valore di riferimento per la determinazione del capital gain da cessione, in alternativa al costo, il valore di acquisto delle partecipazioni, a condizione che esso risulti assoggettato a tassazione. Tale modifica, sovvertendo la precedente impostazione, riconduce nell’alveo dei capital gains i valori non assoggettati a tassazione come reddito di lavoro dipendente al momento dell’assegnazione.

Sia la disciplina relativa all’assegnazione delle azioni e alle stock options, sia quella concernente i capital gains decorrono dal 1º gennaio 2000. Viene, peraltro, previsto un particolare regime transitorio volto a salvaguardare, seppure — come vedremo — in modo incompleto, l’applicazione delle previgenti e generalmente più favorevoli disposizioni per i piani di assegnazione già avviati antecedentemente a tale data.

Considerazioni generali.

Nella sua previgente formulazione, come risultante dalle modifiche apportate con il decreto legislativo n. 314 del 1997, la lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir accordava un trattamento di favore alle azioni di nuova emissione assegnate ai dipendenti a prezzo inferiore a quello di mercato ovvero a titolo totalmente gratuito. In particolare, la differenza di valore nel primo caso, e l’intero valore di assegnazione delle azioni nel secondo, venivano non solo esclusi dal concorso alla formazione del reddito di lavoro dipendente, ma anche considerati costi fiscalmente riconosciuti in occasione della eventuale successiva applicazione della disciplina dei capital gains. In questo senso si era chiaramente espresso lo stesso ministero delle Finanze nella circolare 24 giugno 1998, n. 165/E, di commento al decreto legislativo n. 461 del 1997, nel passo in cui aveva precisato (v. par. 2.3.2) che "in caso di successiva cessione da parte del dipendente delle azioni di qualunque tipo acquisite in relazione al rapporto di lavoro dipendente, ai fini della determinazione della plusvalenza o minusvalenza, va assunto il valore delle azioni alla data in cui sono state acquisite dal dipendente quale reddito in natura, determinato a norma dell’articolo 9 del Tuir, senza attribuire alcun rilievo alla circostanza che l’importo relativo abbia o meno concorso a formare il reddito di lavoro dipendente".

Il Governo, nella primavera dello scorso anno, aveva manifestato — in uno schema di decreto contenente disposizioni correttive alla disciplina dei redditi di capitale inviato alla Commissione parlamentare costituita per l’esame dell’attuazione delle deleghe di cui alla legge n. 662 del 1996 — la volontà di modificare il regime delle assegnazioni di azioni ai dipendenti, nel senso di limitare il beneficio in parola alla fase di tassazione del reddito di lavoro dipendente, trattando invece come reddito rilevante ai fini della determinazione dei capital gains il valore delle azioni assegnate in occasione del successivo loro realizzo. In particolare, la proposta governativa consisteva nell’introdurre una modifica normativa che, ai fini della determinazione dei capital gains, assumesse come valore di riferimento delle azioni solo l’eventuale costo effettivamente sostenuto dal dipendente — e non quindi il valore normale come individuato al momento dell’assegnazione delle azioni — con la conseguenza di ricondurre a tassazione, in sede di cessione delle azioni da parte del dipendente, l’intera differenza fra il corrispettivo di cessione e il costo anzidetto; differenza, quindi, che avrebbe consentito di attribuire rilevanza, nel sistema di tassazione dei capital gains, anche al valore normale non tassato come reddito di lavoro dipendente.

La finalità sottesa alla proposta governativa era di evitare che il regime di esclusione previsto dall’articolo 48, comma 2, lettera g) del Tuir — il quale, come noto, non prevedeva né limiti quantitativi alle azioni assegnabili né vincoli temporali di possesso delle stesse da parte del dipendente — combinandosi con il sopra ricordato più favorevole criterio di determinazione dei capital gains consentisse il ricorso alla assegnazione di azioni ai dipendenti con fini elusivi, e cioè per corrispondere sostanzialmente in esenzione di imposta una quota parte delle retribuzioni.

Peraltro, nelle intenzioni iniziali, la correzione di questo regime avrebbe dovuto esplicare effetti fin dalla entrata in vigore della nuova disciplina dei capital gains, così come delineata dal decreto legislativo n. 461 del 1997 (e cioè fin dal 1º luglio 1998). La norma proposta prevedeva, infatti, la sua estensione applicativa a tutte le cessioni delle azioni acquisite dai dipendenti nella vigenza della precedente lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 Tuir, e poste in essere a partire dall’anzidetta data.

Proprio su questa applicazione retroattiva si erano appuntate le maggiori perplessità della dottrina.

Sul tema era intervenuta criticamente anche la Commissione parlamentare consultiva per l’attuazione delle deleghe di cui alla legge n. 662 del 1996, evidenziando l’opportunità di introdurre, comunque, alcune condizioni restrittive alla disciplina prevista dalla citata lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir, per circoscriverne in modo più puntuale l’ambito applicativo in relazione al fenomeno del cosiddetto azionariato ai dipendenti: in particolare veniva evidenziata l’esigenza che il piano di assegnazione coinvolgesse la generalità dei dipendenti; che venissero imposti limiti quantitativi al regime di esonero, eventualmente commisurati all’ammontare delle retribuzioni dei singoli dipendenti; e, inoltre, che il beneficio venisse condizionato a una durata minima di possesso delle azioni da parte dei dipendenti medesimi.

La Commissione, nel suo parere, sottolineava, peraltro, l’opportunità di dare apposita regolamentazione anche alle stock options, come strumento di incentivazione di singoli lavoratori o gruppi di lavoratori, sulla base dell’esperienza maturata in altri paesi industrializzati; coinvolgendo, anzi, in questa disciplina anche i collaboratori qualificati dell’impresa non dipendenti, quali in particolare gli amministratori.

A questa duplice finalità si conforma la disciplina introdotta dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 505 del 1999, la quale reca, con la nuova lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir, un apposito regime di incentivazione dell’azionariato diffuso, e con la lettera g-bis) del medesimo comma 2, definisce, invece, il meccanismo impositivo incentivante delle stock options.

La disposizione della lettera g), nell’intento di realizzare la diffusione tout court dell’azionariato popolare tra i dipendenti, recepisce i limiti che caratterizzano l’attuazione di questa finalità, così come indicati dalla Commissione parlamentare (attribuzione delle azioni alla generalità dei dipendenti, limiti quantitativi alle azioni assegnabili a ciascun dipendente e periodo di possesso minimo delle azioni da parte dello stesso).

La disposizione della lettera g-bis), invece, si attaglia alla funzione precipuamente premiale e di cointeressenza delle stock options.

Al riguardo, segnaliamo che le stock options si articolano su un archetipo contrattuale alquanto complesso. Di regola, al dipendente viene attribuito un diritto di opzione, non cedibile a terzi, per l’acquisto di azioni a un prezzo non inferiore a quello di mercato delle stesse al momento dell’offerta, prevedendosi che l’opzione stessa possa essere esercitata non prima di un termine iniziale e non dopo un termine finale dalla data dell’offerta, e solo dal lavoratore che sia ancora in servizio alla data di tale esercizio. Ordinariamente, sul modello degli stock option plans diffusi negli Stati Uniti, il piano di stock option prevede un acquisto di titoli scaglionato nel tempo, per cui la società rilascia una proposta irrevocabile, ai sensi dell’articolo 1359 Codice civile, a vantaggio dei beneficiari, attribuendo a questi ultimi la facoltà di posticipare l’acquisto delle azioni; in questo modo, il dipendente lucra sulla crescita prospettica di valore dei titoli dell’impresa e la società ottiene lo scopo di fidelizzare il dipendente stesso, facendo sì che esso lavori all’interno dell’impresa per migliorarne i risultati gestionali: gli interessi dell’imprenditore e del dipendente vengono così a coincidere e si crea quella cointeressenza che è alla base del meccanismo delle stock options.

La disciplina dettata dalla nuova lettera g-bis) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir si disinteressa, evidentemente, di attuare una regolamentazione analitica dell’intero meccanismo contrattuale che è alla base di tali operazioni, limitandosi a fornirne le coordinate essenziali. In particolare, la nuova disposizione stabilisce che la crescita di valore delle azioni assegnate al dipendente, tra il momento dell’offerta dell’opzione e quello dell’esercizio della stessa, è tassabile sic et simpliciter come guadagno aleatorio di quest’ultimo e dunque è assoggettabile a tassazione non come reddito di lavoro dipendente, ma come capital gain solo se e nella misura in cui risulti realizzata attraverso la successiva cessione delle azioni.

Da tale meccanismo applicativo appare evidente, come, in questa fattispecie, non abbia alcuna importanza che il dipendente mantenga il possesso delle partecipazioni e, con esse, la sua posizione di azionista anche dopo aver esercitato il diritto di opzione. La fidelizzazione del dipendente, in questo caso, si esplica solo durante il periodo di crescita di valore dei titoli ai quali si riferisce il diritto di opzione; una volta che tale opzione sia stata esercitata, e le azioni acquisite, è del tutto indifferente — ai fini del rapporto di cointeressenza alla base delle stock options — che il dipendente mantenga il possesso delle azioni così acquisite ovvero monetizzi immediatamente il suo guadagno.

Da qui l’ulteriore differenza tra l’ipotesi di cui alla lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 Tuir — la quale, coerentemente con le finalità di incentivazione dell’azionariato diffuso, subordina, come vedremo meglio, la irrilevanza reddituale del valore delle azioni assegnate al lavoratore alla condizione che questi non le ceda prima di tre anni dalla data della loro acquisizione — e l’ipotesi di cui alla lettera g-bis) in commento, nella quale — ribadiamo — la fidelizzazione del dipendente, attuandosi nel periodo di crescita di valore dei titoli dell’impresa, si colloca logicamente nella fase anteriore all’esercizio del diritto di opzione.

Sotto altro profilo risulta chiaro, da quanto fin qui detto, che la disciplina delle stock options trova il naturale completamento normativo nella previsione del nuovo comma 5 dell’articolo 82 Tuir, il quale, nel fissare — come abbiamo anticipato — il principio di determinare le plusvalenze da realizzo delle partecipazioni avendo a riferimento il loro costo ovvero, in luogo di esso, il loro valore di acquisizione, ma solo se assoggettato a tassazione, sposta automaticamente nell’ambito impositivo dei capital gains proprio la crescita di valore delle partecipazioni che la lettera g-bis) del comma 2 dell’articolo 48 Tuir esclude dai redditi di lavoro dipendente.

Questo spostamento — che, è bene subito sottolinearlo, determina il passaggio del guadagno in parola dalla tassazione progressiva dei redditi di lavoro a quella dell’imposta sostitutiva ad aliquota fissa del capital gain, nonché la sua esclusione anche dagli obblighi contributivi — trova una sua giustificazione logica e sistematica nel rilievo che tale guadagno, pur se collegato in via mediata al lavoro nell’azienda, avrebbe pur sempre una diretta derivazione dall’andamento del mercato finanziario; assumerebbe, in altri termini, la natura di provento aleatorio derivante dalla valutazione di mercato delle partecipazioni.

In effetti, merita evidenziare che, rispetto a un comune investitore-terzo, il dipendente coinvolto nel piano di stock option ha indubbiamente il vantaggio di acquisire gratuitamente dal_l’impresa il diritto di opzione, senza corrisponderne, cioè, il relativo prezzo. Va, tuttavia, messo in evidenza che la irrilevanza reddituale dell’acquisizione del suddetto diritto di opzione è pur sempre subordinata alla incedibilità del diritto stesso; al fatto, cioè, che al dipendente venga attribuita semplicemente una posizione contrattuale nei confronti dell’impresa e non un bene suscettibile di commercializzazione.

Al riguardo è molto chiara la relazione governativa, la quale pone proprio in luce che la incedibilità del diritto di opzione è condizione necessaria per l’applicazione della disciplina in esame, precisando che, al contrario, l’assegnazione di un diritto di opzione cedibile "deve essere assoggettata a tassazione come reddito di lavoro dipendente fin dal momento della medesima assegnazione", così come accade per qualsiasi altro fringe benefit. Ovviamente, la tassazione riguarderà il valore di mercato di tale fringe benefit, al netto di quanto eventualmente corrisposto dal lavoratore a fronte dell’assegnazione stessa; anzi, la relazione ha cura di precisare che analoga soluzione dovrà adottarsi anche nell’ipotesi in cui "un diritto non cedibile perda successivamente tale requisito", nel senso, cioè, che "nel periodo d’imposta in cui è reso trasferibile il relativo importo è assoggettato a tassazione".

Per quanto riguarda, infine, l’estensione soggettiva della disciplina delle stock options anche a quei collaboratori dell’impresa che non siano a essa legati da un vincolo di subordinazione, non è stata accolta l’osservazione di carattere generale, formulata al punto 16) nel parere definitivo della Commissione parlamentare, volta a estendere la nuova disciplina anche a quei soggetti che, pur non essendo dipendenti, prestino continuativamente la propria attività al servizio dell’impresa (come gli amministratori o, più in generale, i collaboratori coordinati e continuativi). Tale estensione dell’ambito soggettivo dei beneficiari dell’agevolazione che, ad avviso della Commissione parlamentare, avrebbe potuto comunque operarsi in sede di decreto correttivo ai decreti legislativi emanati in base alla delega contenuta nella legge n. 662 del 1996, non è stata attuata dal Governo, non per ragioni di merito, ma perché ritenuta esorbitante rispetto ai limiti della delega in questione, comportando modifiche alla disciplina fiscale dei redditi di lavoro autonomo, tra i quali confluiscono i redditi dei collaboratori coordinati e continuativi.

Non sussistendo, comunque, preclusioni logico-sistematiche alla delineata estensione soggettiva, sarebbe opportuno — con ciò accogliendo l’indicazione della Commissione parlamentare che, in subordine all’inserimento di tale disposizione nel decreto correttivo, invitava espressamente il Governo ad assumere le necessarie iniziative legislative — che in provvedimenti di prossima emanazione venga inserita una disposizione che sancisca l’avvio del regime delle stock options per i collaboratori coordinati e continuativi dell’impresa in contestualità con quello previsto per i dipendenti.

Le assegnazioni di azioni alla generalità dei dipendenti

Venendo ad un esame più dettagliato della nuova disciplina, osserviamo che la nuova lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir prevede l’esclusione dal reddito di lavoro dipendente del valore delle azioni offerte alla generalità dei dipendenti per un importo complessivamente non superiore, nel periodo d’imposta, a quattro milioni di lire, a condizione che tali azioni non siano riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute prima che siano trascorsi tre anni dalla loro percezione. Qualora le azioni siano cedute prima del predetto termine — prosegue la norma — l’importo che non ha concorso a formare il reddito al momento dell’acquisto è assoggettato a tassazione nel periodo di imposta in cui avviene la cessione.

Per quanto riguarda la condizione che l’offerta delle azioni sia rivolta alla generalità dei dipendenti, riteniamo che tale condizione possa considerarsi soddisfatta, in coerenza con le finalità della disciplina in esame, quando l’offerta coinvolga tutti i dipendenti legati all’impresa da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche se ne risultino eventualmente esclusi altri soggetti legati all’impresa da rapporti lavorativi temporalmente definiti (esempio: contratti di formazione-lavoro). Inoltre, la suddetta condizione dovrebbe considerarsi rispettata, nella logica della diffusione generale dell’azionariato, anche nel caso di una differenziazione, per singole categorie di dipendenti, del quantum oggetto di assegnazione. Riteniamo, in altri termini, che non possano essere penalizzati i piani che, coinvolgendo la generalità dei dipendenti nell’operazione di assegnazione delle azioni, attuino delle differenziazioni di importo delle azioni assegnate con riferimento a singoli e/o singole categorie degli stessi.

In merito, poi, al limite quantitativo di quattro milioni di lire per periodo d’imposta, premettiamo che non ha trovato accoglimento, in considerazione delle difficoltà operative che avrebbe ingenerato sotto il profilo dell’effettuazione delle ritenute d’acconto da parte dei sostituti d’imposta, il suggerimento della Commissione parlamentare di trasformare il limite annuale in un limite individuale più elevato, ma riferito ad un più lungo arco temporale (ad esempio 20 milioni per 5 anni), ovvero in un limite elastico, parametrato alla retribuzione annuale del dipendente.

La formulazione della norma, ed in particolare la previsione che impone di rispettare il limite quantitativo di quattro milioni con riferimento a ciascun periodo d’imposta, potrebbe, peraltro, far sorgere alcune perplessità.

Osserviamo preliminarmente che, ai fini della verifica del rispetto del limite in parola, deve prendersi in considerazione il valore delle azioni, così come determinato — all’atto della loro assegnazione — in base ai criteri fissati dall’articolo 9, comma 4, del Tuir; e quindi, per le azioni quotate, va fatto riferimento alla media del valore delle azioni stesse nel mese precedente l’assegnazione e, per le partecipazioni non quotate, al valore, in proporzione, del patrimonio netto della società emittente al momento dell’assegnazione stessa. Peraltro, in ordine a questa seconda fattispecie, sono note le incertezze che la nozione di "valore del patrimonio netto" solleva. Il ministero delle Finanze, di recente, ha interpretato il dato normativo della lettera b) del citato comma 4, nel senso che occorre far riferimento al valore effettivo di tale patrimonio, prescindendo invece dalla sua espressione contabile (si veda, in tal senso, il par. 1.1.3. della circolare n. 112/E del 21 maggio 1999, emanata a commento della disciplina delle assegnazioni agevolate dei beni d’impresa ai soci recata dagli articoli 29 della legge n. 449 del 27 dicembre 1997 e 13 della legge n. 28 del 18 febbraio 1999). È stato, peraltro, da più parti evidenziato che la individuazione del valore effettivo del patrimonio implica il riferimento a procedure valutative spesso non univoche, determinando, quindi, incertezze che, nel caso in esame, si rifletterebbero direttamente sul datore di lavoro, nella sua qualità di sostituto d’imposta. Data la delicatezza della questione, sarebbe opportuno un ulteriore intervento chiarificatore dei competenti organi ministeriali.

Quanto all’ipotesi che l’impresa proceda ad assegnazioni ripetute nel corso del periodo d’imposta, ci limitiamo ad osservare che per l’individuazione del limite quantitativo di cui trattasi dovrà procedersi semplicemente alla somma dei valori delle partecipazioni attribuite, così come determinati in base ai criteri anzidetti. Nessuna rilevanza, invece, ci sembra possa attribuirsi al valore delle azioni medesime alla chiusura del periodo d’imposta; il riferimento a tale valore, infatti, non troverebbe alcuna giustificazione logico-sistematica nel contesto dei principi generali che presiedono alla determinazione dei redditi di lavoro.

Sotto altro profilo, merita rilevare che il suddetto limite dovrebbe operare come una franchigia, nel senso che qualora vengano assegnate al dipendente azioni per un importo superiore ai quattro milioni, dovrebbe essere ricondotta a tassazione come reddito di lavoro dipendente solo l’eccedenza del valore delle azioni assegnate rispetto al suddetto limite.

Tale franchigia, peraltro, dovrebbe ritenersi obiettivamente applicabile in tutte le fattispecie in cui si manifesti una attribuzione di partecipazioni totalmente o parzialmente gratuita. In altri termini, appare logico ritenere che nell’ipotesi in cui al dipendente è concessa la possibilità di acquistare azioni dietro corresponsione di un corrispettivo inferiore a quello di mercato, il limite dei quattro milioni debba essere riferito all’importo oggetto dello sconto; in tal caso, quindi, la verifica del rispetto del limite di valore delle partecipazioni assegnabili al dipendente in regime di esclusione dal reddito di lavoro dovrà essere condotta avendo riguardo alla differenza tra valore delle azioni assegnate al dipendente e costo da quest’ultimo sostenuto.

Quanto, infine, alla condizione che le partecipazioni non devono essere riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute dal dipendente prima che siano trascorsi almeno tre anni dalla percezione, il mancato rispetto di tale condizione temporale determina — come accennato — il recupero a tassazione, nel periodo di imposta in cui avviene la cessione, dell’importo che non ha concorso a formare il reddito di lavoro dipendente al momento dell’assegnazione; recupero che avviene sempre a titolo di reddito di lavoro dipendente e che, quindi, comporta l’inclusione dell’importo in questione nel reddito imponibile complessivo e il loro assoggettamento all’imposta progressiva.

Al riguardo, si pongono varie questioni applicative. Innanzitutto, nell’ipotesi in cui il dipendente abbia beneficiato di una pluralità di assegnazioni in momenti diversi, e dunque abbia un portafoglio di partecipazioni "stratificate" nel tempo, sorge il problema di stabilire a quali partecipazioni debba essere imputata la cessione. Motivi logici ed equitativi indurrebbero a privilegiare, ai fini della verifica del rispetto della condizione temporale, l’applicazione di un criterio FIFO (first in, first out), un criterio, cioè, che consenta di riferire la cessione agli acquisti meno recenti; non può non rilevarsi, tuttavia, che ai diversi effetti della determinazione del capital gain da cessione, il comma 1-bis dell’articolo 81 del Tuir prevede che si considerino cedute per prime le partecipazioni acquisite in data più recente, sulla base, dunque, di un criterio LIFO (last in, first out). Il punto meriterebbe un intervento chiarificatore da parte dei competenti organi.

Sotto il profilo procedimentale, inoltre, non è chiaro con quali modalità e forme vada attuato il recupero a tassazione in parola, posto che né la norma, né la circolare ministeriale intervengono a disciplinarlo espressamente. In linea generale, dovrebbe essere il dipendente stesso ad attivarsi, per lo meno nell’ipotesi in cui il cessionario sia un soggetto diverso dal datore di lavoro. Nulla viene detto, tuttavia, circa le modalità del recupero a tassazione: è dubbio, quindi, se il dipendente debba procedere direttamente a tale recupero in sede di dichiarazione dei redditi ovvero debba o possa coinvolgere il datore di lavoro attraverso apposita comunicazione; né va, comunque, trascurata la possibilità che medio tempore il rapporto di lavoro sia cessato. Per altro, occorre considerare che il problema coinvolge anche profili connessi all’adempimento degli obblighi contributivi: motivi di carattere sistematico indurrebbero a ritenere che anche questi adempimenti debbano essere assolti, stante il principio di unicità delle basi imponibili; è, tuttavia, discutibile che il dipendente debba o possa procedervi autonomamente.

Ovviamente, è appena il caso di aggiungere che il descritto meccanismo di recupero a tassazione dei valori già affrancati all’atto dell’assegnazione influenza anche la determinazione della plusvalenza da assoggettare ad imposta sostitutiva al momento della cessione delle azioni; e ciò proprio in virtù dei principi stabiliti dall’articolo 82, comma 5, del Tuir, così come modificato per effetto dell’articolo 10 del decreto legislativo n. 505. In altri termini, l’atto realizzativo delle partecipazioni è, al contempo, fonte costitutiva dell’obbligo di tassazione come reddito di lavoro dipendente dei valori già affrancati e di commutazione, conseguentemente, di tali valori in un maggior costo di riferimento delle partecipazioni ai fini della misurazione della plusvalenza derivante dalla cessione stessa.

Merita da ultimo rilevare che nel diverso caso in cui il dipendente ceda le azioni dopo il periodo triennale di possesso, i valori già affrancati da tassazione come reddito di lavoro dipendente al momento dell’assegnazione, pur mantenendo tale esenzione, acquisiranno nuovamente rilevanza impositiva ai fini del capital gain da cessione; e ciò proprio in considerazione dell’applicazione del sumenzionato nuovo comma 5 dell’articolo 82 del Tuir, il quale — come accennato — dispone che venga assunto come valore di riferimento ai fini del capital gain il costo di acquisizione delle azioni ovvero il loro valore, solo se già assoggettato a tassazione. Non può non rilevarsi come, in effetti, tale scelta normativa risulti, con riguardo alla fattispecie di cui alla lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir, sistematicamente meno coerente di quanto essa non lo sia - come abbiamo sottolineato - in relazione alla diversa fattispecie di cui alla lettera g-bis): infatti, la funzione di mera diffusione dell’azionariato che è alla base della disciplina dettata dalla nuova lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 Tuir avrebbe coerentemente richiesto che il compenso in natura, una volta escluso dal reddito di lavoro dipendente, non venisse successivamente ripreso a tassazione sotto altro profilo reddituale; fosse, in altri termini, riconosciuto anch’esso come costo di acquisto delle partecipazioni ai fini della misurazione di tutte le successive vicende reddituali.

I piani di stock option rivolti anche a singoli (o singole categorie di) dipendenti

Come già accennato, l’agevolazione fiscale per le assegnazioni di azioni anche a singoli dipendenti o a singole categorie degli stessi, così come prevista dalla nuova lettera g-bis) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir, é articolata in modo diverso da quella applicabile, in base alla lettera g), alle assegnazioni riguardanti la generalità dei dipendenti. Ribadiamo che mentre queste ultime sono integralmente escluse, sia pure alle condizioni e nei limiti che si sono sopra esaminati, dal reddito di lavoro dipendente, per le assegnazioni rivolte a singoli dipendenti l’esclusione dal reddito di lavoro riguarda soltanto l’eventuale maggior valore acquisito dalle azioni rispetto al valore di mercato che le stesse avevano alla data dell’offerta del diritto di opzione; ne risulta così un incentivo alla produttività dei managers interessati ad accrescere il valore dell’impresa per poter ottenere, al momento dell’acquisto delle azioni, beni di valore superiore a quello fissato nel prezzo di opzione

Come evidenziato dalla stessa Commissione parlamentare, la disciplina dettata per i piani di stock option rivolti a singoli (o singole categorie di) dipendenti è, comunque, più favorevole rispetto ad analoghe normative in vigore in altri paesi industrializzati, posto che, diversamente da esse, non sottopone l’esclusione dal reddito di lavoro dipendente ad alcun limite quantitativo. Infatti, l’anzidetto spread fra valore di mercato al momento dell’assegnazione e prezzo di opzione è interamente sottratto all’imposizione progressiva e assoggettato al più tenue regime impositivo dei proventi finanziari (imposta sostitutiva del 12,5 ovvero del 27 per cento).

Il beneficio fiscale è, per altro, subordinato alla esistenza di un duplice presupposto: che il prezzo di acquisto delle azioni pagato dal dipendente "sia almeno pari al valore delle azioni stesse alla data dell’offerta" e che le partecipazioni, i titoli o i diritti posseduti dal dipendente non rappresentino una percentuale dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento.

Quanto a quest’ultima condizione, la stessa relazione governativa chiarisce che la verifica in parola va effettuata con riferimento al periodo d’imposta nel quale viene eseguita l’assegnazione, tenendo conto anche dei titoli acquisiti per effetto dell’esercizio dell’opzione.

Più delicati invece sono i problemi interpretativi connessi al rispetto dell’altro presupposto.

Al riguardo va, anzitutto, osservato che il ministero delle Finanze, nel paragrafo 1.13 della circolare 29 dicembre 1999, n. 247/E, ha affermato che se il prezzo di acquisto pagato dal dipendente è inferiore al valore delle azioni alla data dell’offerta (cioè alla data di attribuzione del diritto di opzione), costituisce reddito di lavoro dipendente l’intero ammontare della differenza tra valore delle azioni al momento dell’assegnazione e prezzo pagato dal dipendente. In questa ricostruzione, dunque, in presenza di un prezzo di opzione inferiore al valore delle azioni al momento dell’offerta, viene negata per intero l’applicazione del regime della lettera g) bis del comma 2 dell’articolo 48, con la conseguenza di assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente tutto il plusvalore conseguito dal lavoratore per effetto dell’esercizio del diritto di opzione.

In effetti, la posizione ministeriale sembra dettata da esigenze di cautela, più che da istanze logico-sistematiche. La richiesta corrispondenza tra prezzo di esercizio dell’opzione e valore delle azioni alla data dell’offerta appare finalizzata, infatti (come emerge dalle considerazioni che precedono), ad individuare con esattezza il guadagno di natura aleatoria e a distinguerlo da eventuali componenti reddituali più propriamente riconducibili nell’alveo del reddito di lavoro dipendente a titolo di fringe benefit.

In quest’ottica, la norma ben avrebbe potuto essere interpretata dall’Amministrazione nel senso di assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente solo lo sconto ottenuto dal lavoratore, mantenendo comunque la rilevanza reddituale dell’ulteriore crescita di valore delle azioni (realizzatasi tra il momento dell’offerta dell’opzione e il momento dell’esercizio della stessa) nell’alveo dei capital gains.

In questo modo, peraltro, si sarebbero evitate le incongruenze legate ad un totale mutamento di regime tra assegnazioni senza sconto e assegnazioni con sconti di modesto importo. In termini più chiari, sarebbe stato possibile evitare che la fissazione di un prezzo di esercizio dell’opzione ad un importo anche minimamente inferiore al valore delle azioni alla data dell’offerta comporti l’integrale disapplicazione della disciplina di favore prevista dalla lettera g-bis) e la rilevanza dell’intero plusvalore, anche per la componente aleatoria dello stesso, come reddito di lavoro dipendente, soggetto alla più onerosa imposizione progressiva.

Comunque, al di là di queste considerazioni, appare evidente che la individuazione del valore delle partecipazioni al momento dell’offerta dell’opzione (valore cui deve rapportarsi il prezzo di esercizio dell’opzione) costituisce, sotto il profilo tecnico, il tema centrale della disciplina in esame.

La norma stabilisce che tale valore debba essere individuato con riferimento alla "data dell’offerta".

Una prima delicata questione è se questo momento debba essere individuato con riferimento alla data in cui si forma la volontà di procedere all’offerta dell’opzione da parte del datore di lavoro ovvero avendo riguardo alla data, eventualmente successiva, in cui tale offerta assume giuridica rilevanza nei confronti dei beneficiari, nel senso di far sorgere in capo agli stessi il relativo diritto potestativo (diritto di opzione). Non c’è dubbio che questo secondo momento — normalmente coincidente con la recezione, da parte del beneficiario, della dichiarazione dell’offerente ex articoli 1331 e 1333 Codice civile — segna il perfezionamento del rapporto giuridico che si instaura tra le parti. Tuttavia, motivi di ordine logico e anche operativo ci indurrebbero a privilegiare il riferimento al momento in cui l’offerta viene definita e formalizzata dagli organi sociali nelle sue linee essenziali; ciò in considerazione sia del fatto che tale momento segna, di regola, la data a partire dalla quale si instaura, unitariamente nei confronti di tutti i destinatari dell’offerta, un procedimento oggettivo ed irreversibile che conduce alla nascita delle relative situazioni attive, sia della sua indubbia connotazione, per il soggetto offerente, di momento oggettivo di individuazione della congruità del prezzo di esercizio dell’opzione rispetto al valore delle partecipazioni offerte.

Ciò posto, non meno importante è stabilire se il valore delle partecipazioni vada assunto con puntuale riferimento all’anzidetta data, come sembra suggerire la lettera della norma, ovvero se soccorrono al riguardo le generali regole poste dal Testo unico delle imposte sui redditi ed, in particolare, dal comma 4 dell’articolo 9, il quale, come è noto, rinvia per le partecipazioni quotate alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese e, per le partecipazioni non quotate, al proporzionale valore del patrimonio netto della società cui si riferiscono i titoli. Motivi di ordine logico e sistematico ci indurrebbero ad aderire a questa seconda soluzione, anche in considerazione delle finalità della norma su cui ci siamo sopra soffermati: non può, infatti, non rilevarsi che, dovendo l’anzidetto parametro di riferimento operare come discrimine tra gli eventuali successivi accrescimenti di valore delle azioni aventi natura di guadagni aleatori e le attribuzioni di fringe benefits costituenti componenti del reddito di lavoro dipendente, appare logico operare il riferimento proprio a quelle disposizioni del Testo unico che presiedono alla determinazione di tali fringe benefits.

Non possiamo non evidenziare, comunque, che in un mercato borsistico in continua e rapida evoluzione, il dato medio del mese precedente all’offerta potrebbe costituire un riferimento talora scarsamente significativo e tale da creare delle difficoltà operative, soprattutto per le offerte formulate nell’ambito di gruppi internazionali modellate sulla disciplina degli stock option plans statunitensi, i quali assumono comunemente, come riferimento per la determinazione del prezzo di esercizio dell’opzione, il valore delle azioni al giorno dell’offerta.

Peraltro, merita rilevare che questa nuova disciplina potrebbe interessare anche le assegnazioni di azioni poste in essere a partire dalla data di entrata in vigore del provvedimento in commento, ma derivanti da piani di stock option precedentemente deliberati. In particolare, intendiamo riferirci ai piani pregressi relativi a partecipazioni di vecchia emissione (per le azioni di nuova emissione derivanti dagli anzidetti piani, infatti, il problema non dovrebbe porsi, perché, come vedremo nel prossimo paragrafo, per essi dovrebbe rimanere applicabile il più favorevole regime di cui alla previgente lettera g) del comma 2 dell’articolo 48 del Tuir). In relazione a questi piani — proprio perché modellati sulla ricordata prassi internazionale — appare irragionevole richiedere, ora per allora, il rispetto di una condizione che all’epoca non era normativamente prevista. Il punto, quindi, meriterebbe un opportuno intervento di chiarificazione da parte dei competenti organi.

La decorrenza delle nuove disposizioni ed il regime transitorio

Come accennato in premessa, tanto le modifiche apportate all’articolo 48, comma 2, del Tuir, quanto quelle apportate all’articolo 82, comma 5, dello stesso Tuir si applicano a decorrere dal lº gennaio 2000. Conseguentemente, risultano disciplinate dalla nuova normativa dell’articolo 48, in conformità al criterio di cassa che caratterizza la tassazione dei redditi di lavoro dipendente (o le esclusioni dallo stesso), le assegnazioni effettuate a partire da tale data; analogamente, da tale data le operazioni di realizzo delle azioni assegnate ai dipendenti ricadono nell’applicazione del nuovo testo dell’articolo 82, comma 5, del Tuir, il quale, come abbiamo detto, fissa il principio secondo cui deve assumersi, come valore di riferimento per la determinazione del capital gain da cessione, in alternativa al costo, il valore di acquisto delle partecipazioni, solo se esso risulti assoggettato a tassazione.

Peraltro, accogliendo l’invito espresso dalla Commissione parlamentare, il comma 2 dell’articolo 13 del decreto legislativo n. 505 ha previsto un regime transitorio per salvaguardare, attraverso l’applicabilità delle previgenti e più favorevoli disposizioni, anche le assegnazioni di titoli effettuate dopo il lº gennaio 2000, ma sulla base di piani già deliberati a quest’ultima data. In particolare, il comma 2 dell’articolo 13 del decreto n. 505 ha stabilito che le disposizioni di cui alle lettere b), n. 2) e n. 3) del comma 1 dello stesso articolo 13 — vale a dire le disposizioni che modificano l’articolo 48 del Tuir — non si applicano alle assegnazioni di titoli "derivanti dall’esercizio di opzioni attribuite dal 1º gennaio 1998 fino alla data di entrata in vigore" del decreto correttivo.

Al riguardo, osserviamo che, invero, questo regime transitorio non soddisfa pienamente le istanze manifestate dalla Commissione e, comunque, presenta taluni aspetti applicativi controversi.

In primo luogo, merita rilevare che la disciplina transitoria in argomento attiene esclusivamente alle modifiche relative all’articolo 48 del Tuir e, quindi, non riguarda le innovazioni concernenti la tassazione dei capital gains derivanti dalla cessione delle partecipazioni in parola.

In termini più chiari, le innovazioni apportate all’articolo 82 del Tuir si rendono applicabili, in via generale, per tutte le operazioni di cessione poste in essere dal 1º gennaio 2000, a prescindere dalla circostanza che esse attengano a partecipazioni assegnate a partire da tale data e relative a piani deliberati nella vigenza della nuova disciplina, o a piani deliberati nel vigore della disciplina pregressa, o ancora a partecipazioni assegnate entro il 31 dicembre 1999 e ancora in possesso dei dipendenti. Non può non evidenziarsi, al riguardo, che in questo modo vengono ricondotte nella nuova e più penalizzante disciplina di determinazione dei capital gains anche le azioni assegnate precedentemente al 1º gennaio 2000, e non ancora cedute dal dipendente, in ottemperanza a vincoli di temporanea indisponibilità previsti dal piano stesso di assegnazione; vale a dire, proprio le azioni derivanti da scelte negoziali maturate nel vigore della precedente disciplina, per le quali la Commissione richiedeva il mantenimento delle pregresse aspettative di tassazione.

Ma la disciplina transitoria parrebbe non rispondere appieno alle finalità segnalate dalla Commissione anche sotto il limitato profilo della tassazione dei redditi di lavoro dipendente.

Al riguardo, giova distinguere i piani aventi ad oggetto azioni di nuova emissione da quelli aventi ad oggetto, invece, azioni di vecchia emissione: solo per i primi la pregressa disciplina della lettera g) dell’articolo 48 del Tuir dettava effettivamente più favorevoli regole di tassazione; i secondi, invece, risultavano esclusi da ogni agevolazione e non c’è dubbio che, con riguardo ad essi, la nuova disciplina — sia per l’ipotesi di cui alla lettera g) che per l’ipotesi di cui alla lettera g-bis) — si riveli fiscalmente più vantaggiosa.

Sarebbe, quindi, logico ritenere che il mantenimento in vita del regime pregresso, in coerenza con la ratio della disposizione transitoria, valga solo per i piani aventi ad oggetto azioni di nuova emissione. La lettera della norma, tuttavia, su questo punto suscita perplessità che andrebbero opportunamente chiarite dai competenti organi.

Anche per quanto concerne i pregressi piani aventi ad oggetto azioni di nuova emissione non può, peraltro, non rilevarsi come la disciplina transitoria in argomento — sicuramente ad essi riferibile — presenti qualche aspetto di incerta applicazione.

Innanzitutto, va evidenziato che la norma transitoria pone riferimento, come accennato, alle opzioni attribuite fino alla data di entrata in vigore del decreto n. 505, e quindi, in virtù della ordinaria vacatio legis, alle opzioni attribuite fino al 15 gennaio 2000. Viene quindi assunta, a questi fini, una data non omogenea con quella del 1º gennaio 2000, valevole, in linea di principio, per l’applicazione, come abbiamo visto, del nuovo regime.

Ma ciò che invero appare meno condivisibile è il riferimento testuale della norma alle opzioni "attribuite dal 1º gennaio 1998". A tale proposito, non può non evidenziarsi, infatti, che il pregresso e più favorevole regime della lettera g) avrebbe ricompreso — ove avesse continuato ad applicarsi — anche le assegnazioni di azioni di nuova emissione derivanti da decisioni adottate precedentemente al 1º gennaio 1998, o da opzioni attribuite a tale data (per lo meno quelle incedibili); sicchè non si ravvisano plausibili ragioni di ordine tecnico o sistematico che inducano ad escludere la sostanziale ultrattività di tale disposizione anche nei confronti di tali fattispecie. Sul problema è, quindi, auspicabile al più presto un intervento chiarificatore nelle sedi competenti, in considerazione della immediata rilevanza operativa che la fattispecie presenta relativamente alle assegnazioni che si stanno concludendo in questi primi mesi.

 
 
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Aggiornato il: 09 aprile 2000