Risposte fornite dal ministero delle Finanze ai quesiti dei partecipanti a Telefisco 2000, la nona conferenza via satellite del Sole-24 Ore, che si è svolta martedì scorso da 27 città.

LAVORO DIPENDENTE

Il prestito aziendale tiene conto del Tus

L’articolo 13 del Dlgs 505/99 ha, tra l’altro, modificato l’articolo 48, comma 4, lettera b), del Tuir stabilendo che, ai fini della determinazione del valore convenzionale dei prestiti ai dipendenti, si deve fare riferimento (a decorrere dal 1° gennaio 2000) al tasso ufficiale di sconto ("tasso ufficiale di riferimento") in vigore al termine di ciascun anno. Premesso che le nuove regole dovrebbero applicarsi anche ai prestiti concessi in anni precedenti al 2000, si chiede come debba essere calcolato il valore convenzionale del benefit durante i periodi di paga dell’anno 2000. È ipotizzabile assumere in via provvisoria il tasso in vigore al 31 dicembre 1999, effettuando gli opportuni aggiustamenti in sede di conguaglio di fine 2000 (e così via per i periodi d’imposta successivi)? In caso di risposta affermativa, ove avvenga la cessazione del rapporto di lavoro in corso d’anno, per il conguaglio di fine rapporto non si deve fare alcun aggiustamento ovvero si deve assumere il tasso ufficiale di sconto più recente (e quindi ipoteticamente diverso da quello vigente alla chiusura dell’anno precedente)?

Inoltre, l’articolo 13, comma 1, lettera b), numero 4) del Dlgs 505/1999 ha modificato l’articolo 48, comma 4, lettera b), del Tuir. Il primo periodo, nel testo attuale, recita: "in caso di concessione di prestiti si assume il 50% della differenza tra l’importo interessi calcolato al tasso ufficiale di sconto vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi". La commissione dei Trenta aveva, molto più opportunamente, proposto di determinare il fringe benefit in base al tasso ufficiale di riferimento rilevante nel periodo di pagamento degli interessi.

La scelta del legislatore comporta però una serie di problemi pratici nei casi in cui: il pagamento degli interessi — che è il momento rilevante ai fini dell’applicazione della ritenuta — non coincida con la fine del periodo d’imposta; il rapporto di lavoro dipendente cessi prima della chiusura del periodo d’imposta.

Risposta
L’articolo 13, comma 1, lettera b), n. 4), del Dlgs 23 dicembre 1999, n. 505, modificando il comma 4, lettera b), dell’articolo 48 del Tuir, prevede che, ai fini della tassazione del compenso in natura derivante dai prestiti erogati ai lavoratori dipendenti, debba essere effettuato il confronto tra gli interessi calcolati al Tus in vigore al termine di ciascun anno e gli interessi calcolati al tasso applicato sugli stessi. Si ricorda che, sulla base del testo normativo vigente prima delle modifiche apportate dal provvedimento, si doveva fare riferimento al tasso ufficiale di sconto in vigore alla data di stipula del prestito quale parametro fisso di riferimento.

Si ricorda, altresì, che il momento di imputazione del compenso in natura e di applicazione della ritenuta alla fonte è quello del pagamento delle singole rate del prestito come stabilite dal relativo piano di ammortamento.

La nuova disposizione si rende applicabile con riferimento alle rate del prestito che scadono dal 1° gennaio 2000, anche se relative a contratti stipulati anteriormente a tale data purché successivi al 31 dicembre 1996.

Per quanto riguarda le modalità di applicazione del prelievo alla fonte dell’imposta sul compenso in natura, l’articolo 23 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, stabilisce che la ritenuta alla fonte deve essere operata sull’ammontare complessivo di tutte le somme e i valori corrisposti in ciascun periodo di paga. A tal fine il sostituto d’imposta, per l’applicazione della ritenuta alla fonte nei singoli periodi di paga, deve tener conto necessariamente del Tus vigente alla fine del periodo d’imposta precedente, salvo effettuare il conguaglio di fine anno tenendo conto del Tus vigente al termine del periodo d’imposta.

In caso di cessazione del rapporto di lavoro, il sostituto d’imposta nell’effettuare le prescritte operazioni di conguaglio deve tener conto del Tus vigente alla data della cessazione stessa.

Per le ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro non coincida con l’estinzione del prestito resta fermo quanto già illustrato con la circolare 326/E del 1997.

Un "bonus" dal 2001 per lavoro all’estero

L’articolo 15 del Dlgs 23 dicembre 1999, n. 505, prevede che, a partire dal 2001, i datori di lavoro avranno diritto a un credito d’imposta per i dipendenti che prestano il lavoro all’estero in via continuativa ed esclusiva, di ammontare corrispondente alle ritenute gravanti sul reddito erogato ai dipendenti. A tale riguardo si pongono i seguenti interrogativi:

a) si chiede se nel computo del beneficio fiscale spettante si debba tenere conto della generalità delle trattenute, vale a dire sia le ritenute operate a titolo di Irpef, sia quelle per addizionali locali (regionale, comunale e provinciale, ove istituita);

b) dal momento che l’entità del beneficio è commisurata al prelievo sul reddito di lavoro dipendente, si chiede se il credito per le imposte pagate all’estero debba essere portato o meno in riduzione delle ritenute ai fini del computo del credito spettante;

c) la norma agevolativa prevede l’esenzione del credito d’imposta da imposte sul reddito e la sua irrilevanza sul calcolo proporzionale di deducibilità degli interessi passivi e delle spese generali nonché il suo utilizzo — senza limiti di tempo — in compensazione cosiddetta "orizzontale" con imposte, ritenute e contributi. Per quanto concerne l’Irap, dal momento che il costo del personale dipendente è indeducibile dalla base imponibile dell’imposta, anche se il lavoro è prestato in territorio estero, si chiede se in applicazione del principio di correlazione contenuto nell’articolo 11, comma 3, del Dlgs 446/97 (come sostituito dal Dlgs 506/99), il contributo fiscale riconosciuto dal decreto debba considerarsi escluso anche dall’imposta regionale.

L’articolo 15 del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505, prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2001, è riconosciuto un credito d’imposta a favore degli imprenditori individuali, delle società e degli enti che utilizzano lavoratori dipendenti che prestano la loro attività all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto. Il credito d’imposta è attribuito per un importo corrispondente "all’ammontare delle ritenute gravanti sul relativo reddito di lavoro dipendente".

Ciò posto, in merito al quesito contraddistinto dalla lettera a), si rileva che la disposizione in esame ha disciplinato il credito d’imposta spettante in relazione alle sole ritenute Irpef che il datore di lavoro è tenuto a operare sulle retribuzioni corrisposte nei vari periodi di paga. Si ritiene, pertanto, che il credito d’imposta non competa per le trattenute operate a titolo di addizionali all’Irpef. Queste ultime, infatti, sono trattenute dal sostituto d’imposta in rate a partire dal periodo di paga successivo a quello in cui sono effettuate le operazioni di conguaglio di fine anno, ovvero in unica soluzione nel periodo di paga in cui sono svolte le operazioni di conguaglio in caso di cessazione del rapporto di lavoro in corso d’anno. Tali modalità di prelievo delle addizionali all’Irpef non sono quindi compatibili con l’attribuzione di un credito d’imposta correlato all’ammontare delle ritenute gravanti sulle retribuzioni corrisposte negli ordinari periodi di paga.

Relativamente al quesito contraddistinto dalla lettera b), s’intende chiarire che l’entità del credito d’imposta che compete al datore di lavoro non deve essere influenzata dal credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero. Tale ultimo credito d’imposta, infatti, è attribuito al singolo contribuente che all’atto della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui le imposte estere sono state pagate a titolo definitivo usufruirà dell’apposita detrazione dall’imposta netta.

Si ritiene, infine, che il credito d’imposta non concorra alla determinazione della base imponibile ai fini Irap, in quanto si tratta di contributi riferiti a componenti di costo indeducibili ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive.

L’addizionale Irpef si affida ai conguagli

L’articolo 50, comma 4, del Dlgs 446/97, come modificato dal Dlgs 506/99, stabilisce che in caso di cessazione del rapporto di lavoro in corso d’anno l’addizionale regionale (e, quindi anche quella comunale) all’Irpef deve essere trattenuta in un’unica soluzione. Qualora la interruzione avvenga nel 2000, oltre ai tributi di competenza dell’anno, devono essere prelevate in un’unica soluzione anche le rate residuali delle addizionali del 1999 in scadenza nei periodi di paga successivi?

Inoltre, se durante i periodi di paga in cui è in corso la rateizzazione delle addizionali si verifichi l’incapienza della busta paga, si chiede se valgano le regole di cui all’articolo 23, comma 1, del Dpr 600/73, secondo le quali il sostituito è tenuto a versare al sostituto l’importo corrispondente all’ammontare della ritenuta.

Infine, nel caso di aspettativa non retribuita (e situazioni similari), il sostituto d’imposta deve comportarsi secondo le regole previste nell’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro ovvero di incapienza della retribuzione?

Risposta
I problemi illustrati, in mancanza di una specifica disciplina, trovano soluzione nei principi generali in materia di determinazione, prelievo e versamento delle addizionali Irpef. Pertanto, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il sostituto è tenuto a trattenere, in un’unica soluzione, nel periodo di paga in cui sono effettuate le operazioni di conguaglio, anche le rate non ancora scadute relative all’addizionale del periodo d’imposta precedente.

In caso d’incapienza delle retribuzioni, anche per effetto di periodi di aspettativa non retribuita, il sostituto deve prelevare l’importo non ancora trattenuto dalle retribuzioni immediatamente successive, operando, in sostanza, una riduzione del numero delle rate. Entro il mese di dicembre, il sostituto deve, comunque, versare all’Erario l’importo delle addizionali Irpef, determinato all’atto delle operazioni di conguaglio di fine anno, ancorché tale importo non sia stato integralmente trattenuto per incapienza delle retribuzioni.

Il prelievo tra cassa e competenza

Lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri del 13 gennaio scorso prevede (articolo 3) un innalzamento dell’aliquota di addizionale regionale di 0,4 punti percentuali con effetto dal 2000, ma rinvia la corrispondente riduzione delle aliquote Irpef al 2001. Quindi, in seguito all’approvazione del provvedimento, si avrà un aumento del prelievo complessivo Irpef (aliquota ordinaria più addizionale regionale) dello 0,40% nel 2000 e una riduzione di uguale misura nel 2001: è corretta questa interpretazione?

L’interpretazione è corretta se si ragiona in termini di competenza. Infatti, il comma 1 dell’articolo 3 dello schema di decreto legislativo prevede un aumento dello 0,4% dell’addizionale regionale all’Irpef a decorrere dal 2000, mentre il comma 2 dell’articolo 3 dispone che, dal 2001, le aliquote Irpef di cui all’articolo 11, comma 1, del Tuir sono ridotte di 0,4 punti percentuali. Ragionando in termini di cassa, invece, per i percettori di redditi di lavoro dipendente e assimilati, il cui rapporto di lavoro non cessi nel corso del 2000, non si avrà un aumento complessivo del prelievo, in considerazione del fatto che tanto la trattenuta relativa all’addizionale per il 2000 quanto la ritenuta Irpef per l’anno d’imposta 2001 saranno operate nel corso del 2001.

CONTABILITÀ

Le regole sugli interessi nella cessione dei crediti

Le società di credito al consumo contabilizzano i finanziamenti comprensivi sia del capitale maturato sia degli interessi che matureranno fino alla scadenza del prestito (esempio: 1000 di capitale + 150 di interessi a scadere). Gli interessi a scadere vengono riscontati alla data di chiusura dell’esercizio (esempio: Risconti passivi 150).

In caso di cessione dei crediti (cartolarizzazione) si ritiene che sia corretto stornare i risconti passivi dal valore dei crediti al fine di esporre in contabilità solo il valore capitale residuo del prestito? Il valore residuo sarà confrontato con il prezzo di cessione del medesimo per il calcolo della plusvalenza o della minusvalenza di cessione, che concorrerà alla formazione del reddito imponibile dell’esercizio in cui avverrà la cartolarizzazione dei crediti.

La soluzione prospettata di stornare il risconto passivo per l’ammontare degli interessi ancora da maturare dal conto acceso al credito appare corretta se si considera che, secondo la modalità di contabilizzazione adottata, gli interessi accedono direttamente al credito. Il risconto passivo, infatti, non potrebbe restare iscritto nel bilancio della cedente dopo la cartolarizzazione.

Le sanzioni dell’Unione europea non sono deducibili dal reddito

Sono deducibili le sanzioni pecuniarie irrogate dalla Ue per la violazione degli articoli 85 e 86 del Trattato di Roma in tema di concorrenza oppure dall’autorità italiana antitrust?

Le sanzioni pecuniarie irrogate dalla Ue o da altri organismi non sono deducibili dal reddito d’impresa in quanto si tratta di oneri non inerenti all’attività d’impresa. L’irrogazione della sanzione è infatti una conseguenza del comportamento illecito tenuto dal contribuente.

La scissione e le riserve da rivalutazione monetaria

In caso di scissione, le riserve di rivalutazione monetaria devono essere trasferite alle beneficiarie in proporzione ai loro patrimoni netti oppure devono seguire i beni che hanno formato oggetti di rivalutazione?

Con riferimento alle riserve da rivalutazione il ministero delle Finanze ha già avuto modo di chiarire che, in conformità a quanto disposto dall’articolo 123-bis, comma 9, del Tuir, occorre distinguere a seconda che i beni rivalutati siano ancora esistenti all’atto della scissione, ovvero siano stati ceduti anteriormente a tale operazione.

Nel primo caso, la riserva di rivalutazione deve essere ricostituita nel bilancio della società beneficiaria in base al principio secondo cui la riserva segue il bene. Nel secondo caso, invece, non operando più il "collegamento" tra bene e riserva, quest’ultima dovrà essere ricostituita nei bilanci delle singole società nate dalla scissione in proporzione delle rispettive quote di patrimonio netto contabile.

I criteri per la ripartizione del costo delle azioni

I soci della società scissa ricevono le azioni dalla beneficiaria: quale criterio deve essere adottato per ripartire il costo originario delle azioni della società scissa tra le vecchie azioni della società scissa e le nuove azioni della beneficiaria?

La disposizione contenuta nell’articolo 82, comma 5, del Tuir, ai fini della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni e delle attività finanziarie indicate nelle lettere c), c-bis) e c-ter) dell’articolo 81 dello stesso Testo unico, prevede che la plusvalenza (o minusvalenza) deve essere determinata sottraendo dal "corrispettivo percepito" ovvero dalla "somma o il valore dei beni rimborsati" il "costo o il valore di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione".

Pertanto, il valore finale da assumere a tal fine si identifica con il corrispettivo effettivamente percepito nel periodo d’imposta a seguito della cessione delle partecipazioni. Relativamente, invece, al costo di acquisto (valore iniziale), è necessario considerare la circostanza che, nell’esempio formulato, le partecipazioni azionarie sono state acquisite a seguito di una scissione societaria.

Come noto, per effetto dell’operazione straordinaria di scissione, ai sensi di quanto disposto dal comma 3 dell’articolo 123 bis del Tuir, il cambio delle partecipazioni originarie dell’ente scisso con quelle dell’ente beneficiario non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o di minusvalenze né conseguimento di ricavi in capo ai soci della società scissa, fatta salva l’applicazione del comma 3 dell’articolo 44 del Tuir con riferimento alla tassazione dei redditi di capitale per le somme ricevute dai soci in caso di conguaglio. Tale disposizione è finalizzata a sottoporre a imposizione l’incremento di valore in capo ai soci al verificarsi di fattispecie distinte da quelle connesse all’operazione che li genera. Infatti, al momento della scissione va attribuita a ciascuna partecipazione ricevuta in cambio ai soci della società scissa un valore fiscalmente uguale a quello della partecipazione originaria.

In altre parole, in virtù dell’esposto principio di neutralità fiscale della scissione, l’assegnazione di azioni o di titoli rappresentativi del capitale della società beneficiaria o acquirente ad un socio della società conferente o acquistata, in cambio di titoli rappresentativi del capitale sociale di quest’ultima società, non comporta, di per se stessa, alcuna imposizione sul reddito.

In caso di scissione, ai soci della società scissa verranno assegnate le azioni — in proporzione alla partecipazione posseduta — delle società beneficiarie dell’apporto.

Il criterio da seguire appare quello di ripartizione del costo originario in proporzione al valore netto contabile del patrimonio trasferito alle beneficiarie e di quello eventualmente rimasto nella scissa.

Posto una scissione parziale in cui la società A trasferisce parte del suo patrimonio nella società B, e posto p = costo originario della partecipazione, Pna = patrimonio netto della società scissa ante scissione, Pnb = patrimonio netto della società B post scissione, Pna = patrimonio netto della società A post scissione, le azioni di B da attribuire ai soci saranno date da: p x Pnb/Pna; le azioni di A da attribuire ai soci saranno date da: p x Pna/Pna.

VISTO PESANTE

La responsabilità del certificatore tributario

Cosa si intende con la locuzione "diretto controllo e responsabilità" del certificatore di cui all’articolo 24 del Dm 31 maggio 1999, n.164?

L’articolo 24, comma 1, del Dm 31 maggio 1999, n.164, prevede che i certificatori rilascino la certificazione tributaria se hanno predisposto le dichiarazioni e tenuto le relative scritture contabili.

In base al comma 2 dello stesso articolo 24, le dichiarazioni e le scritture contabili si intendono predisposte e tenute dai certificatori anche quando sono predisposte e tenute: direttamente dallo stesso contribuente; da una società di servizi di cui uno o più certificatori posseggono la maggioranza assoluta del capitale sociale; da un Caf-imprese.

Le attività di predisposizione delle dichiarazioni e di tenuta delle scritture contabili devono peraltro essere effettuate sotto il diretto controllo e la responsabilità del certificatore.

La norma presuppone, quindi, che il certificatore mantenga comunque il controllo di tali attività assumendone le responsabilità come se le avesse svolte direttamente.

Non esiste un "tetto" per i visti del periodo d’imposta ’99

Esiste un tetto massimo di certificazioni tributarie che ogni singolo professionista può rilasciare?

Il decreto 29 dicembre 1999 del ministro delle Finanze non individua un numero massimo delle certificazioni tributarie che ciascun certificatore può rilasciare con riferimento alle dichiarazioni relative al periodo d’imposta 1999.

Ma il rilascio della certificazione non è un obbligo di legge

Nel caso in cui dal controllo delle voci emerga un risultato negativo il professionista deve rilasciare la certificazione con la valutazione negativa oppure non deve rilasciare alcuna la certificazione?

Tenuto conto che il certificatore non è obbligato a rilasciare la certificazione richiesta, si deve ritenere che la stessa sarà rilasciata solo se i risultati del controllo avranno evidenziato la corretta applicazione delle norme relative alle componenti oggetto della certificazione.

Non è previsto un registro per l’elenco dei contribuenti

Il certificatore deve tenere un apposito registro su cui annotare l’elenco dei contribuenti per i quali ha rilasciato la certificazione tributaria?

Risposta

No.

Sul visto la decisione spetta al professionista

Il professionista che ha tenuto le scritture contabili del contribuente, è obbligato al rilascio della certificazione tributaria, su richiesta del contribuente?

Su richiesta del contribuente il professionista abilitato non è obbligato al rilascio della certificazione tributaria che rientra sempre nella discrezionalità del professionista stesso.

Contano i risultati del controllo

La certificazione può essere rilasciata anche quando la non corretta applicazione della normativa tributaria ha comportato per il contribuente un maggiore esborso, e quindi complessivamente nessun danno per il Fisco?

Tenuto conto che il certificatore non è obbligato a rilasciare la certificazione richiesta, si deve ritenere che la stessa sarà rilasciata solo se i risultati del controllo avranno evidenziato la corretta applicazione delle norme relative alle componenti oggetto della certificazione.

SANZIONI

Per il quadro "W" vale il decreto legislativo 471/97


Dopo la riforma del regime sanzionatorio e, soprattutto, dopo la scomparsa nelle istruzioni al quadro W di specifici riferimenti al regime sanzionatorio, si è consolidato il convincimento che sia applicabile l’articolo 8 del Dlgs 471/1997 e che le sanzioni di cui all’articolo 5 del Dl 167/1990 debbano considerarsi implicitamente abrogate. È necessario che il ministero delle Finanze chiarisca la propria opinione in proposito.

Il Dlgs 18 dicembre 1997, n. 471, ha modificato la disciplina delle sanzioni tributarie non penali applicabili in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, disponendo, peraltro, all’articolo 16, comma 2, l’abrogazione delle disposizioni in contrasto con il provvedimento stesso.

Pertanto, si ritiene che le sanzioni applicabili alle violazioni inerenti all’obbligo di compilazione del modulo RW, specificamente fissate dall’articolo 5 del Dl 28 giugno 1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, debbano considerarsi abrogate.

 

 
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Aggiornato il: 11 marzo 2000