Ampio stralcio della Relazione di accompagnamento al Decreto legislativo recante "Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205" approvato dal Consiglio dei ministri venerdì 3 marzo 2000.

OMISSIS

3.2. I DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE

3.2.1. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il capo II del titolo II contempla tre ulteriori fattispecie delittuose, non concernenti la dichiarazione.

In attuazione del criterio di cui al n. 2 della lettera a) della norma di delega, l’articolo 8 punisce con la medesima pena prevista per il delitto di dichiarazione fraudolenta (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

L’autonoma considerazione penalistica della fattispecie trova giustificazione, per vero, nel rilievo tutto particolare che la condotta incriminata assume nel quadro delle fenomeni che dell’evasione: fenomeni che che assai di frequente ruotano su "figure criminali" di spiccata pericolosità, rappresentate da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul "mercato" documentazione volta a supportare l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come "cartiere").

Stante, peraltro, l’evidente interconnessione tra l’emissione di falsa documentazione e l’utilizzazione della stessa al fine di avvalorare dichiarazioni mendaci — condotte che rappresentano facce opposte della medesima medaglia — è apparso necessario introdurre opportuni correttivi volti a evitare che, al di là della diversa strutturazione delle due ipotesi criminose (l’emissione è punita di per sé, l’utilizzazione solo in quanto "trasfusa" in una falsa dichiarazione), si determini una troppo marcata disparità di trattamento sanzionatorio tra emittente ed utilizzatore, in danno del primo, tale da dare esca a sospetti di violazione del principio di cui all’articolo 3 della Carta costituzionale.

In tal ottica, poiché dal versante dell’utilizzatore l’impiego di più fatture o documenti falsi (non importa se emessi dallo stesso o da diversi soggetti) a supporto di una medesima dichiarazione mendace dà comunque luogo a unico reato, si è previsto, al comma 2 dell’articolo 8, che anche nei confronti dell’emittente la formazione di una pluralità di fatture o documenti falsi nel medesimo periodo d’imposta (non importa se a favore dello stesso o di diversi soggetti) integri un solo episodio criminoso, anziché tanti reati quanti sono i documenti emessi (si tratta, in sostanza, di una speciale ipotesi di cumulo giuridico). Parallelamente, poi, a quanto stabilito per l’utilizzatore dal comma 3 dell’articolo 2, si è comminata una pena minore nei confronti dell’emittente (da sei mesi a due anni di reclusione) quando l’importo complessivo dei falsi documenti da lui formati nell’ambito del medesimo periodo d’imposta risulti inferiore a lire trecento milioni (s’intende che quando l’operazione, documentata dalla falsa fattura, sia solo in parte inesistente, si dovrà tener conto, a tale fine, non dell’intero importo esposto nel documento, ma della sola porzione non rispondente al vero).

Sotto diverso profilo, l’articolo 9 dello schema esclude, poi, in deroga all’articolo 110 del Codice penale, la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione. Per quanto attiene all’emittente, la previsione mira a rendere inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi: essendo, infatti, l’emissione punita autonomamente e "a monte", a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in sostanza, punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente, per quel che riguarda l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica sottesa all’articolo 6, innanzi illustrato (retro, § 3.1.5): quella, cioè, di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una indiretta "resurrezione" del "reato prodromico". In difetto dell’enunciato in rassegna, difatti, il soggetto a favore del quale venga emessa una fattura o altro documento per operazione inesistente potrebbe essere considerato, in buona parte dei casi — ancorché egli non si sia successivamente avvalso della fattura o del documento stesso a supporto di una dichiarazione inveritiera — come egualmente punibile in veste di compartecipe (quantomeno morale) nel delitto di emissione, alla cui base sta normalmente un accordo tra emittente e beneficiario.

In riferimento, poi, al caso in cui tra emittente e utilizzatore si collochi un "intermediario", il quale funga da tramite per il "collocamento" o l’ottenimento della falsa fattura, egualmente si è escluso che tale soggetto possa essere considerato concorrente in entrambi i reati.

3.2.2. Occultamento o distruzione di documenti contabili. In ossequio al n. 5 della lettera a) della norma di delega, l’articolo 10 dello schema prevede la fattispecie — corrispondente a quella di cui all’articolo 4, lettera b), del decreto-legge n. 429 del 1982 — dell’occultamento o distruzione totale o parziale, a fine di evasione, di documenti o scritture contabili di cui sia obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

Proprio il tipo di ostacolo frapposto all’attività di accertamento, cui si connette la maggior difficoltà di verifica del superamento di prefissati livelli di evasione, spiega il mantenimento della fattispecie come ipotesi autonoma rispetto ai delitti in materia di dichiarazione e il mancato assoggettamento della medesima (per disposizione del legislatore delegante) a soglie di punibilità. Riguardo alla pena edittale — da sei mesi a cinque anni di reclusione — si è ritenuto di dover confermare la forbice che caratterizzava la fattispecie nel vecchio regime: ciò in quanto al disvalore del mezzo fa riscontro la possibilità che il quantum concreto di evasione, stante la rimarcata assenza di soglie di punibilità, si attesti, in concreto, su cifre non particolarmente elevate.

Viene fatto espressamente salvo, comunque, il caso in cui la condotta costituisca più grave reato: clausola che vale a escludere, in particolare, il concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale, sancendo la prevalenza di quest’ultimo.

3.2.3. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Il catalogo delle figure criminose è completato dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’articolo 11 dello schema.

Giova al riguardo premettere e sottolineare che, nella cornice del nuovo sistema, il mero inadempimento dell’obbligazione pecuniaria avente a oggetto l’imposta e i relativi accessori — una volta che il contribuente abbia compiutamente e correttamente assolto il dovere di dichiarazione — non assume in alcun caso rilevanza penale. Scompare, così, in particolare, il delitto di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, previsto dall’articolo 2 del decreto-legge n. 429 del 1982: figura criminosa che, più di altre, è stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme numero di procedimenti penali cui essa, specie nella versione d’origine (anteriore, cioè, alla modifica operata dall’articolo 3 del decreto legge 16 marzo 1981, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 maggio 1991, n. 154), aveva dato esca.

In linea con le indicazioni della legge delega , la sanzione penale è stata per converso mantenuta e rafforzata riguardo alle condotte fraudolente — delle quali l’alienazione simulata costituisce l’esempio paradigmatico — che il debitore d’imposta ponga in essere su propri o altrui beni al fine di frustrare la procedura di riscossione coattiva. Rispetto alla previsione punitiva dell’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall’articolo 15, comma 4, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 — di cui quella in esame costituisce lo sviluppo — si evidenzia, in particolare, la soppressione del presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo: presupposto che aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente le capacità di presa dell’incriminazione. Inoltre, la linea della tutela penale è stata opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione — idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex ante — e non anche l’effettiva verificazione di tale evento.

Per converso, è stata aumentata a lire cento milioni, in conformità delle direttrici generali di intervento (supra, § 3.1.2), la soglia di punibilità riferita all’ammontare complessivo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni amministrative il cui pagamento si intendeva eludere. Correlativamente, è stato elevato anche il trattamento sanzionatorio, comminando la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni (laddove la norma vigente prevede invece la reclusione fino a tre anni).

Da ultimo, è stata pure nel frangente inserita, in testa alla formula descrittiva dell’illecito, la clausola di salvezza del reato più grave, riferita soprattutto all’ipotesi in cui il fatto risulti riconducibile al paradigma punitivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale.

LE DISPOSIZIONI

COMUNI

4.1. Le pene accessorie. Il titolo III dello schema raccoglie le disposizioni comuni, applicabili alla generalità dei reati contemplati dal titolo precedente.

Dando attuazione alla direttiva di cui alla lettera d) dell’articolo 9 della legge di delegazione, l’articolo 12 stabilisce le pene accessorie che conseguono alla condanna per taluno di detti reati. La relativa griglia corrisponde — al di là del differente ordine di elencazione — a quella già prefigurata dall’articolo 6 del decreto legge n. 429 del 1982, fatta eccezione per la pena accessoria, non più riproposta, dell’esclusione dalla borsa degli agenti di cambio e dei commissionari.

Limitati ritocchi sono stati apportati alla durata delle misure, in una logica di razionalizzazione complessiva dell’assetto sanzionatorio: in particolare, è stata aumentata la durata minima e massima dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dell’interdizione dai pubblici uffici, nonché la durata massima dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria.

A differenza che per le altre pene accessorie, le quali trovano applicazione in caso di condanna per uno qualsiasi dei delitti contemplati dallo schema, si è previsto che l’interdizione dai pubblici uffici consegua esclusivamente alla condanna per i delitti più gravi (dichiarazione fraudolenta e emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), e sempre che non ricorrano le circostanze attenuanti speciali previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 3. È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione della pena accessoria in parola — peraltro in ambiti più ristretti rispetto alla normativa vigente — risulti pienamente giustificata a fronte dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum.

4.2. Le circostanze attenuanti. Gli articoli 13 e 14 dello schema si connettono all’istruzione impartita dalla lettera e) dell’articolo 9 della legge di delega, che dà mandato all’esecutivo di prevedere "meccanismi premiali idonei a favorire il risarcimento del danno".

Al riguardo, si è scartata la soluzione "estrema" — che pure avrebbe potuto astrattamente ipotizzarsi a fronte della genericità dell’indicazione del legislatore delegante — di elevare la condotta risarcitoria a causa estintiva del reato: e ciò sul rilievo che in materia di criminalità economica, e tributaria in particolare — laddove vengono in giuoco interessi di natura prettamente patrimoniale — una simile soluzione finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un effetto "criminogeno", in quanto consentirebbe ai contribuenti di "monetizzare" il rischio della responsabilità penale, barattando, sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale.

In tale ottica, lo "strumento premiale", incentivante il risarcimento, è stato quindi individuato nella previsione di circostanze attenuanti speciali che rispondono, in sostanza, alla medesima ratio di quella comune di cui all’articolo 62, n. 6), prima parte, del Codice penale. Tenendo conto delle indicazioni della Commissione giustizia della Camera e della Commissione finanze del Senato, che hanno lamentato una eccessiva "fragilità" dell’ipotizzato meccanismo premiale, tali circostanze sono state trasformate da circostanze a effetto comune — quali erano configurate nello schema preliminare di decreto — in circostanze a effetto speciale, tali cioè da determinare una riduzione della pena fino alla metà (anziché nella misura ordinaria di un terzo), con l’aggiunta, altresì, dell’attitudine a escludere tout court l’applicabilità delle pene accessorie.

Si è ritenuto peraltro di dover prevedere, quale opportuno correttivo, che della diminuzione di pena conseguente alle circostanze in parola non si tenga conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria ai sensi dell’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689: in altre parole, alla sostituzione non potrà procedersi se la pena della reclusione concretamente irrogata scende al di sotto del limite dei tre mesi (entro il quale la sostituzione è ammessa) solo per effetto dell’applicazione delle ripetute circostanze. È apparso infatti necessario evitare che, almeno per quanto attiene alle fattispecie criminose più significative, concernenti la dichiarazione (il problema si pone, in concreto, soprattutto per la dichiarazione infedele e per l’omessa dichiarazione), l’adempimento — comunque tardivo — del debito tributario possa consentire all’imputato, cumulando la riduzione di pena a esso connessa con quella conseguente ad altre attenuanti (segnatamente, le attenuanti generiche) e al ricorso a riti alternativi (giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti), di conseguire per altra via l’accennata "monetizzazione" della responsabilità penale, con sensibile perdita di efficacia deterrente del sistema. La soluzione è in linea con il criterio della legge delega, che rimette alla discrezionalità del legislatore delegato l’individuazione e il concreto dimensionamento dei "meccanismi premiali", ed è altresì conforme alla direttiva di cui alla lettera l) dell’articolo 9 della stessa legge di delegazione, che impone di prefigurare, nella complessiva combinazione del sistema sanzionatorio penale e amministrativo, "risposte punitive coerenti e concretamente dissuasive".

L’articolo 13 — costituente la norma applicabile nei casi ordinari — connette segnatamente l’indicata attenuante all’avvenuta estinzione, mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti contestati, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (limite temporale, questo, che, oltre a risultare in linea con le previsioni citato articolo 62, n. 6 del Codice penale, mira ad evitare lunghe sospensioni o rinvii del dibattimento in prossimità della decisione, o comunque ad istruttoria avanzata, finalizzate a iniziative risarcitorie). Il pagamento non deve essere, peraltro, necessariamente integrale in rapporto alle pretese avanzate dal fisco, potendo l’interessato giovarsi degli "istituti premiali" previsti dalla legislazione tributaria al fine di favorire l’adempimento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, rinuncia al_l’impugnazione, ravvedimento operoso). La formula al riguardo adoperata — estinzione "anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione al_l’accertamento previste dalle norme tributarie" — è volutamente "aperta", al fine di consentire l’adattamento automatico del disposto normativo ad eventuali nuovi istituti di futura introduzione: un richiamo "nominativo" degli istituti esistenti — pure suggerito dalla Commissione giustizia della Camera — conferirebbe, per vero, una non auspicabile "rigidità" alla previsione normativa.

Mette conto segnalare, per altro verso, come la disposizione non riferisca specificamente il pagamento estintivo al_l’imputato, per modo che il medesimo giova, ai fini della fruizione dell’attenuante, anche se eseguito da un terzo: ipotesi suscettiva di verificarsi segnatamente in rapporto a fatti commessi da amministratori o rappresentanti di società od enti, allorché il versamento venga effettuato dalla società o dal_l’ente rappresentato, in quanto soggetto passivo della pretesa tributaria.

Il comma 2 dell’articolo 13 stabilisce, tuttavia, al tempo stesso, che il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili al_l’imputato in virtù del principio di specialità sancito dall’articolo 19 dello schema (infra, § 5.1). La disposizione non intende introdurre una deroga a tale principio — inammissibile a fronte delle indicazioni della legge delega — né qualificare in senso risarcitorio le sanzioni amministrative tributarie, in contrasto con le indicazioni di sistema emergenti dal decreto legislativo n. 472 del 1997, ma semplicemente utilizzare la sanzione amministrativa quale criterio "legale" di commisurazione del risarcimento del danno da reato, ulteriore rispetto al mero pagamento dell’imposta.

Il successivo articolo 14 prende in considerazione un’ipotesi particolare, nella quale la disposizione dell’articolo 13 risulterebbe logicamente inapplicabile: quella, cioè, in cui i debiti tributari connessi alle violazioni per le quali si procede penalmente risultino estinti per prescrizione o decadenza dall’azione di accertamento (l’evenienza è configurabile a fronte della diversa calibratura dei relativi termini rispetto a quelli di prescrizione dei reati). Poiché sarebbe incongruo — e di dubbia conformità al principio costituzionale di eguaglianza — che in tale frangente resti preclusa all’imputato la possibilità di fruire dell’attenuante, si è prefigurato uno speciale ed agile meccanismo inteso alla determinazione della somma dovuta a titolo di riparazione dell’offesa recata dal reato, le cui cadenze mutuano (ma in ottica ovviamente del tutto diversa) quelle del_l’istituto del cosiddetto "patteggiamento allargato", della cui introduzione si discute in sede di più generale riforma del processo penale.

In particolare, si stabilisce che l’imputato possa chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo di "equa riparazione" dell’offesa recata al_l’interesse pubblico tutelato dalla norma violata, comunque non inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma del_l’articolo 135 del Codice penale della pena minima prevista per il delitto contestato. Il riferimento al carattere equitativo della riparazione rende palese come, pur dovendosi tener conto della gravità dell’offesa, l’istituto non rappresenti uno strumento surrettizio di "reviviscenza" del debito tributario prescritto, al cui importo il versamento non deve, dunque, necessariamente adeguarsi.

Qualora il giudice, sentito il pubblico ministero, ritenga congrua la somma offerta, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il pagamento, la cui concreta effettuazione determina l’applicabilità dell’attenuante. Poiché, peraltro, il pagamento non presuppone in alcun modo un’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, si è espressamente previsto che, in caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma versata — non corrispondente ad alcun debito attuale — debba essergli restituita.

Da ultimo, al fine di assicurare la pronta applicazione delle disposizioni passate in rassegna — tanto dell’articolo 13 che dell’articolo 14 — evitando l’instaurazione di prassi difformi in tema di interpello dell’amministrazione finanziaria con effetti di allungamento dei tempi processuali, la norma finale di cui all’articolo 22 dello schema demanda ad un decreto del ministero delle Finanze — da emanare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo e privo, per i suoi contenuti, di carattere regolamentare (essendo piuttosto ascrivibile alla categoria degli atti generali) — di stabilire le modalità di documentazione dell’avvenuta estinzione dei debiti tributari rilevanti ai fini dell’applicazione dell’attenuante e di versamento delle somme dovute a titolo di riparazione dell’offesa.

4.3. Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie. Non punibilità nei casi di adeguamento al parere del comitato per l’applicazione delle norme antielusive. Gli articoli 15 e 16 dettano speciali disposizioni attinenti alla disciplina dell’errore di diritto.

L’articolo 15 riprende la disposizione in tema di violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie già dettata dall’articolo 1, comma 2, dello schema preliminare (e che trova il suo precedente nell’articolo 8 del decreto-legge n. 429 del 1982), modificandone i contenuti sulla base dei suggerimenti della Commissione giustizia del Senato. L’enunciato normativo viene anzitutto allineato a quello dell’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997: si prevede, cioè, che non diano luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione.

In secondo luogo, poi, viene inserita la clausola di riserva "al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del Codice penale", intesa a chiarire che la disposizione è destinata ad operare in ambito distinto ed ulteriore rispetto alla generale regola codicistica in tema di errore su legge extrapenale, e cioè nei casi in cui le norme tributarie vengono a partecipare della natura di legge penale, in quanto integrative del precetto sanzionato.

L’articolo 16 dello schema attua il criterio direttivo di cui alla lettera f) della norma di delega, stabilendo che non dia luogo a fatto punibile a norma del decreto delegato la condotta di chi, avvalendosi della speciale procedura disciplinata dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si sia uniformato ai pareri espressi dal ministero delle Finanze o dal Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive in base alle citate disposizioni, ovvero abbia compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso.

Come è noto, il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive — istituito dal comma 1 dello stesso articolo 21 della legge n. 413 del 1991 — è organo competente ad esprimere pareri su richiesta del contribuente, dopo un preventivo interpello dell’amministrazione finanziaria (al cui avviso il contribuente stesso non intenda adeguarsi), in ordine a casi concreti nei quali possa farsi questione dell’applicazione di norme tributarie specificamente indicate dalla legge (articoli 37, comma 3, e 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 10 della legge 30 dicembre 1990, n. 408). Esso è tenuto a pronunciarsi entro sessanta giorni dalla richiesta o, al più, entro ulteriori sessanta giorni dal ricevimento di una formale diffida, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale ad assenso.

La previsione della non punibilità di chi si sia adeguato al parere dell’organo consultivo — manifestato anche nella forma del silenzio-assenso — si connette ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 24 marzo 1988, n. 364 e risponde alla medesima logica di fondo delle speciali disposizioni in tema di non punibilità delle valutazioni di cui all’articolo 7, in precedenza illustrate (retro, § 3.2.1): si tratta, cioè, di un criterio legale di esclusione del dolo di evasione richiesto per la configurabilità delle diverse ipotesi criminose.

Ancorché la legge delega faccia espresso riferimento al solo parere del Comitato consultivo, si è ritenuto — in accoglimento della richiesta formulata dalla Commissioni parlamentari — di dover estendere la previsione di non punibilità anche all’ipotesi in cui il contribuente si adegui al parere preventivo espresso dall’amministrazione finanziaria, evitando così di adire il Comitato, non essendovi ragione per un trattamento diversificato della fattispecie.

L’ambito di operatività della previsione ripete, naturalmente, i confini, alquanto circoscritti, delle competenze del Comitato consultivo (che, come accennato, si esplicano in rapporto alle sole materie specificamente indicate dalla legge). Sebbene astrattamente auspicabile nell’ottica di consentire ai contribuenti un preventivo trasparente rapporto con l’amministrazione finanziaria, non appare praticabile nella presente sede l’estensione della disposizione — pure richiesta dalla Commissione giustizia della Camera — a tutti indistintamente i casi di adeguamento dell’interessato alle indicazioni fornite dall’amministrazione finanziaria: estensione che esula, all’evidenza, dai limiti della delega nella contingenza attuata, connettendosi a riforme tributarie ancora in itinere in tema di ampliamento delle facoltà di "interpello" (quale l’introduzione dello "statuto del contribuente").

Giova tuttavia ribadire e sottolineare — in risposta alle preoccupazioni delle quali la Camera si è fatta portavoce — che, nelle ipotesi di mancata sottoposizione del caso al parere del Comitato (anche perché esorbitante dai limiti delle sue attribuzioni), resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi di imposta, vada ricondotta al paradigma di quella che è tradizionalmente qualificata come semplice "elusione di imposta", quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale. In altre parole, la disposizione di cui all’articolo 16 è unicamente di favore per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, "a rovescio", ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo.

4.4. Prescrizione. Per quanto attiene alla prescrizione, la legge delega impartisce l’istruzione di uniformare la relativa disciplina a quella generale, facendo salve, tuttavia, eventuali deroghe "rese opportune dalla particolarità della materia tributaria" articolo 9, comma 2, lettera g). Attualmente, come è noto, l’articolo 9 del decreto legge n. 429 del 1982 enuncia regole derogatorie circa la prescrizione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto tanto sul versante dei termini prescrizionali, da esso modulati in senso fortemente "atipico"; quanto su quello degli atti interruttivi, al cui catalogo viene aggiunta la "constatazione" delle violazioni.

Sul primo fronte, il presente schema prefigura l’integrale abbandono del regime speciale, rendendo così applicabili senza eccezioni alle nuove ipotesi criminose le disposizioni generali sui termini di prescrizione di cui all’articolo 157 del codice penale.

Di contro, è sembrato opportuno conservare, in correlazione all’iter tipico dell’accertamento delle infrazioni in campo tributario, la previsione di atti interruttivi ulteriori rispetto a quelli elencati dall’articolo 160 del Codice penale: atti che sono stati peraltro più puntualmente identificati nel "verbale di constatazione" e nell’"atto di accertamento" delle violazioni. La nuova formulazione vale, invero, a risolvere in senso formale e più garantista i dubbi interpretativi originati dal concetto di "constatazione", cui è riferimento nella norma vigente — particolarmente sul punto dell’attitudine a comprendere qualsiasi attività accertativa degli uffici finanziari o della polizia tributaria a prescindere dalla verbalizzazione dei relativi risultati — evitando che possa attribuirsi efficacia interruttiva ad atti ed attività non aventi rilievo tipico.

Quanto all’atto di accertamento, alla produzione dell’effetto interruttivo è peraltro sufficiente la semplice adozione, non essendo richiesta la notifica.

4.5. COMPETENZA PER TERRITORIO

L’articolo 18 dello schema detta regole specifiche in ordine alla competenza per territorio.

In proposito, il criterio direttivo della legge delega — "individuare la competenza per territorio sulla base del luogo in cui il reato è stato commesso, ovvero, ove ciò non fosse possibile, del luogo in cui il reato è stato accertato" articolo 9, comma 2, lettera h) — prelude alla trasformazione del criterio del luogo di accertamento, da regola generale ed esclusiva di determinazione del foro competente (qual è attualmente: articolo 11, secondo comma, del decreto legge n. 429 del 1982), a regola sussidiaria, destinata ad operare unicamente allorché non possa trovare applicazione il criterio principale del luogo di commissione.

In puntuale ossequio a tale direttiva, il comma 1 dell’articolo in esame esordisce, dunque, stabilendo che quando (e solo quando) la competenza per territorio in ordine ai reati previsti dal decreto non possa determinarsi sulla base delle disposizioni generali di cui all’articolo 8 del Codice di procedura penale (che individuano, in rapporto alle diverse categorie e forme di manifestazione dei reati, il luogo di commissione dell’illecito), la competenza stessa si radichi presso il giudice del luogo di accertamento, escludendo così l’applicazione delle regole suppletive di cui all’articolo 9 del medesimo codice.

I successivi commi 2 e 3 dettano disposizioni specifiche, intese a risolvere in via normativa i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in ordine a determinate ipotesi di reato, le quali si giustificano sulla base della generale delega legislativa al coordinamento conferita dall’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.

Relativamente ai delitti in materia di dichiarazione, tali problemi si connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore dell’illecito di "scegliersi"il giudice competente con il semplice accorgimento di incaricare della trasmissione stessa un soggetto abilitato che operi nel luogo ritenuto più conveniente; mentre, ove si abbia riguardo al luogo in cui i dati confluiscono, porterebbe all’inaccettabile risultato di concentrare la competenza per tutti i reati presso il tribunale di Roma, stante la gestione centralizzata del materiale informatico. A fronte di ciò, si è dunque stabilito che i reati in questione debbano considerarsi consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salva l’applicabilità del criterio suppletivo del luogo dell’accertamento laddove detto domicilio risulti ubicato all’estero.

Il comma 3 ha per converso di mira la fattispecie, prevista dall’articolo 8, comma 2, dello schema, dell’emissione di più fatture o documenti per operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso periodo d’imposta: ipotesi che — per le ragioni a suo tempo lumeggiate (retro, § 3.2.1) — è stata configurata come integrativa di un unico reato. Stante la particolare strutturazione dell’ipotesi criminosa, nella quale confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile, in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali). Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo: soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le questioni di competenza, specie nel caso — tutt’altro che infrequente — di scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei singoli documenti, presso il quale ha sede l’ufficio del pubblico ministero che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale: criterio che ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dagli articoli 9, comma 3, e 10, comma 2, del medesimo codice.

Il pericolo — paventato dalla Commissione giustizia della Camera — che il sistema adottato possa consentire alla persona sottoposta alle indagini di "scegliersi"il giudice attraverso "confessioni mirate", volte ad "incanalare"le indagini presso un determinato ufficio di procura piuttosto che un altro, non è parso tale da giustificare una revisione della scelta. In primo luogo, infatti, l’ipotetica confessione, onde poter sortire il temuto effetto, dovrebbe intervenire in una fase assolutamente prodromica, precedente l’iscrizione della notitia criminis nell’apposito registro. In secondo luogo, poi, tale iscrizione non basterebbe ancora, di per sé sola, a radicare la competenza, occorrendo che sia effettuata dall’ufficio del pubblico ministero di uno dei luoghi in cui le fatture o documenti per operazioni inesistenti sono stati realmente emessi (particolare, questo, che preserva il valore della "naturalità"del giudice). In terzo luogo e da ultimo, deve rilevarsi come le citate disposizioni degli articoli 9, comma 3, e 10, comma 2, del codice di procedura penale, dalle quali il criterio è mutuato, non abbiano dato luogo, nella pratica applicativa, a problemi del genere di quelli evidenziati nel parere.

RAPPORTI CON IL SISTEMA SANZIONATORI AMMINISTRATIVO E TRA PROCEDIMENTI

5.1. IL PRINCIPIO DI SPECIALITÀ.

Il titolo IV dello schema reca disposizioni intese a regolare i rapporti tra il nuovo sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo, nonché fra il procedimento penale, il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario.

Le coordinate nell’ambito delle quale si muove l’intervento sono segnate dai criteri di delega che impongono, per un verso, l’applicazione del principio di specialità nel caso di convergenza di norme sanzionatorie eterogenee (penali ed amministrative) su un medesimo fatto lettera i) dell’articolo 9; e, per l’altro, di coordinare i due sistemi "in modo da assicurare risposte coerenti e concretamente dissuasive" lettera l).

Sulla base di tali istruzioni parlamentari, il comma 1 del_l’articolo 19 dello schema — ribaltando la regola del cumulo, oggi sancita dall’articolo 10 del decreto legge n. 429 del 1982, ed allineando il sistema sanzionatorio tributario al principio generale di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 — stabilisce che quando uno stesso fatto è punito da una delle norme incriminatrici del decreto delegato e da una disposizione che prevede sanzioni amministrative, si applichi la sola disposizione speciale. Essendo il principio di specialità una regola-cardine dell’ordinamento (vedi anche l’articolo 15 del Codice penale), non è sembrato potersi e doversi dar seguito all’invito della Commissione giustizia della Camera a specificare le "modalità di applicazione del principio" stesso.

All’affermazione del principio di specialità non deve peraltro seguire — stante il ricordato criterio di delega di cui alla lettera l) — una perdita di deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su questo versante si connettono, per vero, all’eventualità che, in determinati frangenti, il potenziale autore d’una violazione tributaria possa considerare maggiormente temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di elevato ammontare (quale normalmente sono quelle tributarie, ragguagliate a percentuali o multipli dell’evasione) e che verrà d’altro canto indefettibilmente applicata, piuttosto che una sanzione penale, fortemente afflittiva bensì in astratto, ma la cui esecuzione è suscettiva di venir evitata, in concreto, con l’ottenimento della sospensione condizionale della pena: donde, in definitiva, un possibile pungolo al compimento dei fatti più gravi di evasione (collocati, cioè, al di sopra della soglia di punibilità), in luogo di quelli più lievi. Siffatto timore appare pregnante, in verità, soprattutto in riferimento ai fatti commessi nell’ambito di società o altri enti — quali saranno, in buona parte dei casi, quelli puniti con pene criminali dal presente decreto, stante il livello delle soglie di punibilità — a fronte della possibilità di sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare sostanziale dell’interesse (la società o l’ente, per l’appunto), riversando la responsabilità penale su meri prestanome.

Quale opportuno correttivo, si è dunque previsto, al comma 2 dell’articolo 19, che quando pure il principio di specialità porti ad escludere l’applicabilità delle sanzioni amministrative nei confronti della persona fisica autrice della violazione, permanga tuttavia la responsabilità per tali sanzioni dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997, che non siano, a lor volta, s’intende, persone fisiche penalmente responsabili in veste di concorrenti nel reato. La disposizione richiamata stabilisce, invero, come è noto, che nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato, ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore di società, associazione od ente, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata.

Si tratta, per vero, d’una soluzione che appare, in sé, rispondente ad una logica "di sistema". Questa consiste, in effetti, nell’evitare che il medesimo fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto (una volta come illecito amministrativo e l’altra come illecito penale), mantenendo, tuttavia, la possibilità di una punizione divaricata rispetto a soggetti diversi (ad esempio: amministratore, da un lato, e società amministrata, dall’altro). In tal senso, non sono apparse dunque fondate le perplessità manifestate dalla Commissione giustizia della Camera circa la compatibilità dell’enunciata regola con il principio di specialità, affermato dalla legge delega.

D’altro canto, sebbene l’obbligazione dei soggetti indicati dal citato articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997 sia qualificata come "solidale"rispetto a quella dell’autore della violazione, lo stesso decreto legislativo già contempla la possibilità che detti soggetti rispondano della sanzione amministrativa nonostante l’inapplicabilità della medesima all’autore. Ciò avviene, in particolare, nel caso di morte di quest’ultimo: ancorché, infatti, l’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmetta agli eredi (articolo 8 del decreto legislativo n. 472 del 1997), la responsabilità dei soggetti di che trattasi permane, pure quando la morte sia avvenuta prima dell’irrogazione della sanzione stessa (articolo 11, comma 7, del decreto).

5.2. RAPPORTI TRA PROCEDIMENTO PENALE E PROCESSO TRIBUTARIO.

Il tema dei rapporti tra procedimento penale e processo tributario assume una rilevanza tutta particolare nella cornice del nuovo sistema, a fronte del generale spostamento "a valle"della linea di intervento punitivo e dell’introduzione di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare dell’imposta evasa, con conseguente devoluzione al giudice penale di compiti di verifica spesso integralmente sovrapponibili a quelli del giudice tributario.

Al riguardo, si è peraltro decisamente scartata qualsiasi soluzione che postulasse l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità tra procedimenti nell’uno o nell’altro senso (pregiudiziale tributaria al processo penale o pregiudiziale penale al processo tributario): e ciò per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, per l’inaccettabile dilatazione dei tempi di intervento della decisione che ne seguirebbe, e che in fatto preluderebbe — come ha in particolare insegnato l’esperienza della "pregiudiziale tributaria", già contemplata dall’articolo 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4 e successivamente abbandonata dal decreto legge n. 429 del 1982 tra il generale plauso — ad un drastico illanguidimento dell’efficacia del sistema sanzionatorio. In secondo luogo, poi, per le diverse regole probatorie valevoli nei due processi, non esportabili sic et simpliciter dall’uno all’altro senza che ne derivino effetti penalizzati per l’imputato o per l’amministrazione finanziaria.

In sostanziale continuum con il panorama normativo vigente, si è pertanto affermato l’opposto principio dell’autonomia reciproca dei due processi (o del "doppio binario"), segnatamente escludendo — sulla falsariga dell’articolo 12, primo comma, prima parte, del decreto legge n. 429 del 1982 — che il processo tributario possa essere sospeso per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione (articolo 20 dello schema): regola, questa, estesa — al fine di evitare ogni possibile dubbio — anche al preliminare procedimento amministrativo di accertamento delle violazioni tributarie. Quanto alla regola inversa — id est, all’impossibilità di sospensione del processo penale per la pendenza di quello tributario — essa discende dalle regole generali del codice di procedura penale (articoli 3 e 479).

Non si sono dettate, del pari, disposizioni particolari sull’efficacia del giudicato penale nel processo tributario, del tipo di quella già prevista dall’articolo 12, primo comma, seconda parte, del decreto legge n. 429 del 1982, e peraltro ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità tacitamente abrogata dal nuovo codice di rito. Troveranno quindi applicazione le disposizioni ordinarie, ed in particolare l’articolo 654 di detto codice, che esclude l’efficacia "esterna"del giudicato penale allorché la legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.

Nella cornice degli accolti principi di specialità (retro, § 5.1) e di autonomia, si sono introdotte, per converso, speciali regole procedurali intese ad evitare che le intersezioni dei due sistemi provochino comunque un rallentamento dei tempi di applicazione delle sanzioni. Occorre considerare, per vero, che l’appartenenza d’una data violazione all’area dell’illecito penale, piuttosto che a quella dell’illecito amministrativo, è in funzione di elementi (superamento di soglie, dolo specifico di evasione, ecc.) la cui sussistenza, anche a fronte delle allegazioni difensive dell’imputato, potrebbe ovviamente rimanere esclusa all’esito del procedimento penale (questo potrebbe concludersi, ad esempio, con l’accertamento che la contestata omissione della dichiarazione dei redditi sussiste bensì, ma non è punibile come reato perché al di sotto della soglia di evasione o non qualificata da dolo). In tale situazione, se di fronte a violazioni ritenute integrative di reato l’amministrazione finanziaria dovesse senz’altro sospendere il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative (in quanto inapplicabili sulla base del principio di specialità, ex articolo 19, comma 1, dello schema), salvo poi a riavviarlo in caso di assoluzione o proscioglimento dell’imputato con sentenza definitiva, si aprirebbe, in coda al processo penale — al di là della possibile scadenza, medio tempore, dei termini di decadenza o di prescrizione — una nuova fase suscettiva di sviluppi in sede contenziosa.

Ad evitare ciò, l’articolo 21 dello schema prefigura un meccanismo che consente all’amministrazione finanziaria di determinare subito le sanzioni amministrative astrattamente applicabili per le violazioni fatte oggetto di notizia di reato: sanzioni la cui concreta eseguibilità nei confronti dei soggetti ritenuti penalmente responsabili resta comunque soggetta alla condizione sospensiva che essi vengano assolti o prosciolti in via definitiva con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In tal modo, fermo restando il principio di unicità della sanzione (nella specie, solo amministrativa), viene salvaguardata — conformemente al dettato della citata lettera l) della norma di delega — la capacità di pronta risposta e, dunque, l’efficacia dissuasiva del sistema.

Il comma 3 dello stesso articolo 21 fornisce, da ultimo, un opportuno chiarimento circa l’operatività dell’indicato meccanismo nei casi in cui ci si trovi di fronte a più violazioni tributarie che, in base al disposto dell’articolo 12 del decreto legislativo n. 472 del 1997, debbono essere colpite con sanzione amministrativa unica in quanto in concorso formale o continuazione tra loro. Allorché, in particolare, solo alcune di dette violazioni risultino penalmente rilevanti, l’ufficio competente procederà comunque all’irrogazione di un’unica sanzione per tutte, secondo il disposto del comma 1 dell’articolo 21: ma di tale sanzione sarà eseguibile nei confronti dell’imputato — sino a quando il procedimento penale non si concluda con l’assoluzione o il proscioglimento per la riconosciuta irrilevanza penale del fatto — solo la parte che sarebbe stata applicabile in rapporto alle violazioni considerate ab origine prive di riflessi penali.

LE DISPOSIZIONI DI COORDINAMENTO E FINALI

A chiusura dello schema, il titolo V detta le disposizioni di coordinamento e finali, le quali trovano la loro generale fonte di legittimazione nel criterio di cui all’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.

Posto che dell’articolo 22 — connesso alle neointrodotte circostanze attenuanti legate al risarcimento del danno — si è già detto a suo luogo (retro, § 4.2), l’articolo 23 novella l’articolo 63, primo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e l’articolo 33, terzo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, in tema di trasmissione agli uffici finanziari degli atti di indagine svolti in sede penale relativamente a reati tributari. L’attuale formulazione delle norme novellate — in base alla quale tale trasmissione può aversi solo "previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria in relazione alle norme che disciplinano il segreto" — è stata per vero interpretata nel senso che l’autorizzazione stessa possa intervenire solo quando sia cessato il segreto investigativo in base alle norme del codice di procedura penale: prospettiva nella quale, peraltro, le disposizioni in questione non svolgono alcuna utile funzione, rendendo priva di ratio la stessa previsione di un provvedimento autorizzatorio. Valendosi del_l’accennata delega al coordinamento, in correlazione all’enunciato principio di reciproca autonomia del processo penale e del procedimento amministrativo di accertamento (retro, § 5.2) — e tanto si rimarca in relazione all’invito della Commissione giustizia della Camera ad una ulteriore valutazione dell’ancoraggio della norma in rassegna ai criteri di delega — viene chiarito ora, per converso, che l’autorizzazione de qua può essere rilasciata dall’autorità giudiziaria anche in deroga alle generali disposizioni sul segreto di cui all’articolo 329 del Codice di procedura penale. In sostanza, nel concedere o negare la trasmissione, l’autorità giudiziaria potrà compiere, caso per caso, una valutazione comparativa dell’interesse a non diffondere comunque ante diem la conoscenza di atti che possono risultare cruciali per lo svolgimento delle indagini e quello contrapposto dell’amministrazione finanziaria ad avere pronta notizia di acquisizioni investigative suscettive di portare all’avvio di procedure di recupero di imposte o di applicazione di sanzioni.

L’articolo 24 sostituisce con una sanzione amministrativa pecuniaria la sanzione penale attualmente comminata dall’articolo 2 della legge 26 gennaio 1983, n. 18 per le condotte di manomissione dei registratori di cassa. Va rilevato, in proposito, come la qualificazione penalistica di tali condotte non trovi più giustificazione nel nuovo sistema, trattandosi di violazioni "prodromiche" ad una dichiarazione mendace; pur tuttavia, non potrebbe procedersi al_l’abrogazione pura e semplice della norma incriminatrice, in quanto — diversamente che per altre ipotesi di reato — le violazioni in questione rimarrebbero sfornite di qualsiasi sanzione, anche sul piano amministrativo (assetto, questo, evidentemente inopportuno, trattandosi di comportamenti trasgressivi comunque di rilievo). L’ammontare della sanzione introdotta (da due milioni a quindici milioni di lire) è stato parametrato tenendo conto dell’importo delle sanzioni comminate dal decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 per infrazioni di omologo disvalore.

L’articolo 25 reca le abrogazioni, che investono, conformemente al dettato del comma 1 dell’articolo 9 della legge delega, l’intero titolo I del decreto legge n. 429 del 1982 e le altre norme vigenti incompatibili con la nuova disciplina. Al riguardo, si è sancita l’abrogazione espressa — oltre che delle disposizioni relative a fattispecie od istituti diversamente disciplinati dallo schema (quali l’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, in tema di sottrazione fraudolenta alla riscossione delle imposte, o l’articolo 6, comma 1, del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, in tema di risarcimento del danno nei reati tributari) — anche di un complesso di norme incriminatrici che, sulla falsariga del decreto-legge n. 429 del 1982, e talora con esplicito richiamo alle relative disposizioni, sanzionavano penalmente violazioni "prodromiche" ad una falsa dichiarazione, con intenti anticipatori della tutela: modello, questo, da considerare incompatibile con il nuovo assetto, a fronte di quanto innanzi ampiamente lumeggiato.

Tra le norme incriminatrici abrogate non figura quella di cui all’articolo 2, comma 26, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17: in forza dell’articolo 6, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 1999 tale disposizione deve essere infatti oggetto di semplice depenalizzazione (depenalizzazione in fatto disposta dall’articolo 27 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507).

Aderendo alle indicazioni delle Commissioni parlamentari — che hanno ventilato possibili vizi di costituzionalità delle soluzioni proposte, soprattutto sul piano dell’eccesso di delega, a fronte dell’abolizione del principio di ultrattività delle norme penali tributarie, imposta dall’articolo 6, comma 1, lettera e), della legge n. 205 del 1999 ed attuata dall’articolo 24, comma 1, del citato decreto legislativo n. 507 del 1999 — sono state soppresse le disposizioni transitorie contenute nel_l’originario articolo 25 dello schema preliminare di decreto, che miravano ad individuare in modo puntuale, mediante speciali "criteri di raccordo" tra vecchie e nuove fattispecie, le norme incriminatrici applicabili ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina. Tale compito resterà pertanto affidato all’interprete, nel rispetto dei generali principi di cui all’articolo 2 del Codice penale.

 
 
Inviare a Claudio Carpentieri un messaggio di posta elettronica contenente domande o commenti su questo sito Web.
Copyright © 1999 Claudio Carpentieri
Aggiornato il: 19 marzo 2000