

Ampio stralcio della Relazione di accompagnamento al Decreto legislativo
recante "Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n.
205" approvato dal Consiglio dei ministri venerdì 3 marzo 2000.
OMISSIS
3.2. I DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE
3.2.1. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il
capo II del titolo II contempla tre ulteriori fattispecie delittuose, non
concernenti la dichiarazione.
In attuazione del criterio di cui al n. 2 della lettera a) della norma di
delega, l’articolo 8 punisce con la medesima pena prevista per il delitto di
dichiarazione fraudolenta (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni)
chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o
sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti.
L’autonoma considerazione penalistica della fattispecie trova giustificazione,
per vero, nel rilievo tutto particolare che la condotta incriminata assume nel
quadro delle fenomeni che dell’evasione: fenomeni che che assai di frequente
ruotano su "figure criminali" di spiccata pericolosità, rappresentate
da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul
"mercato" documentazione volta a supportare l’esposizione in
dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come
"cartiere").
Stante, peraltro, l’evidente interconnessione tra l’emissione di falsa
documentazione e l’utilizzazione della stessa al fine di avvalorare
dichiarazioni mendaci — condotte che rappresentano facce opposte della
medesima medaglia — è apparso necessario introdurre opportuni correttivi
volti a evitare che, al di là della diversa strutturazione delle due ipotesi
criminose (l’emissione è punita di per sé, l’utilizzazione solo in quanto
"trasfusa" in una falsa dichiarazione), si determini una troppo
marcata disparità di trattamento sanzionatorio tra emittente ed utilizzatore,
in danno del primo, tale da dare esca a sospetti di violazione del principio di
cui all’articolo 3 della Carta costituzionale.
In tal ottica, poiché dal versante dell’utilizzatore l’impiego di più
fatture o documenti falsi (non importa se emessi dallo stesso o da diversi
soggetti) a supporto di una medesima dichiarazione mendace dà comunque luogo a
unico reato, si è previsto, al comma 2 dell’articolo 8, che anche nei
confronti dell’emittente la formazione di una pluralità di fatture o
documenti falsi nel medesimo periodo d’imposta (non importa se a favore dello
stesso o di diversi soggetti) integri un solo episodio criminoso, anziché tanti
reati quanti sono i documenti emessi (si tratta, in sostanza, di una speciale
ipotesi di cumulo giuridico). Parallelamente, poi, a quanto stabilito per
l’utilizzatore dal comma 3 dell’articolo 2, si è comminata una pena minore
nei confronti dell’emittente (da sei mesi a due anni di reclusione) quando
l’importo complessivo dei falsi documenti da lui formati nell’ambito del
medesimo periodo d’imposta risulti inferiore a lire trecento milioni
(s’intende che quando l’operazione, documentata dalla falsa fattura, sia
solo in parte inesistente, si dovrà tener conto, a tale fine, non dell’intero
importo esposto nel documento, ma della sola porzione non rispondente al vero).
Sotto diverso profilo, l’articolo 9 dello schema esclude, poi, in deroga
all’articolo 110 del Codice penale, la configurabilità del concorso
dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso
dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato
di emissione. Per quanto attiene all’emittente, la previsione mira a rendere
inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi: essendo,
infatti, l’emissione punita autonomamente e "a monte", a prescindere
dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente
possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di
concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in sostanza,
punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente, per quel che riguarda
l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica sottesa
all’articolo 6, innanzi illustrato (retro, § 3.1.5): quella, cioè, di
ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una
indiretta "resurrezione" del "reato prodromico". In difetto
dell’enunciato in rassegna, difatti, il soggetto a favore del quale venga
emessa una fattura o altro documento per operazione inesistente potrebbe essere
considerato, in buona parte dei casi — ancorché egli non si sia
successivamente avvalso della fattura o del documento stesso a supporto di una
dichiarazione inveritiera — come egualmente punibile in veste di compartecipe
(quantomeno morale) nel delitto di emissione, alla cui base sta normalmente un
accordo tra emittente e beneficiario.
In riferimento, poi, al caso in cui tra emittente e utilizzatore si collochi un
"intermediario", il quale funga da tramite per il
"collocamento" o l’ottenimento della falsa fattura, egualmente si è
escluso che tale soggetto possa essere considerato concorrente in entrambi i
reati.
3.2.2. Occultamento o distruzione di documenti contabili. In ossequio al n. 5
della lettera a) della norma di delega, l’articolo 10 dello schema prevede la
fattispecie — corrispondente a quella di cui all’articolo 4, lettera b), del
decreto-legge n. 429 del 1982 — dell’occultamento o distruzione totale o
parziale, a fine di evasione, di documenti o scritture contabili di cui sia
obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei
redditi o del volume di affari.
Proprio il tipo di ostacolo frapposto all’attività di accertamento, cui si
connette la maggior difficoltà di verifica del superamento di prefissati
livelli di evasione, spiega il mantenimento della fattispecie come ipotesi
autonoma rispetto ai delitti in materia di dichiarazione e il mancato
assoggettamento della medesima (per disposizione del legislatore delegante) a
soglie di punibilità. Riguardo alla pena edittale — da sei mesi a cinque anni
di reclusione — si è ritenuto di dover confermare la forbice che
caratterizzava la fattispecie nel vecchio regime: ciò in quanto al disvalore
del mezzo fa riscontro la possibilità che il quantum concreto di evasione,
stante la rimarcata assenza di soglie di punibilità, si attesti, in concreto,
su cifre non particolarmente elevate.
Viene fatto espressamente salvo, comunque, il caso in cui la condotta
costituisca più grave reato: clausola che vale a escludere, in particolare, il
concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale,
sancendo la prevalenza di quest’ultimo.
3.2.3. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Il catalogo delle figure
criminose è completato dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di
imposte, previsto dall’articolo 11 dello schema.
Giova al riguardo premettere e sottolineare che, nella cornice del nuovo
sistema, il mero inadempimento dell’obbligazione pecuniaria avente a oggetto
l’imposta e i relativi accessori — una volta che il contribuente abbia
compiutamente e correttamente assolto il dovere di dichiarazione — non assume
in alcun caso rilevanza penale. Scompare, così, in particolare, il delitto di
omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, previsto
dall’articolo 2 del decreto-legge n. 429 del 1982: figura criminosa che, più
di altre, è stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme
numero di procedimenti penali cui essa, specie nella versione d’origine
(anteriore, cioè, alla modifica operata dall’articolo 3 del decreto legge 16
marzo 1981, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 maggio 1991, n.
154), aveva dato esca.
In linea con le indicazioni della legge delega , la sanzione penale è stata per
converso mantenuta e rafforzata riguardo alle condotte fraudolente — delle
quali l’alienazione simulata costituisce l’esempio paradigmatico — che il
debitore d’imposta ponga in essere su propri o altrui beni al fine di
frustrare la procedura di riscossione coattiva. Rispetto alla previsione
punitiva dell’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall’articolo 15, comma
4, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 — di cui quella in esame
costituisce lo sviluppo — si evidenzia, in particolare, la soppressione del
presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o
verifiche, o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di
inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo: presupposto che
aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente le capacità di presa
dell’incriminazione. Inoltre, la linea della tutela penale è stata
opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la
semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di
riscossione — idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex
ante — e non anche l’effettiva verificazione di tale evento.
Per converso, è stata aumentata a lire cento milioni, in conformità delle
direttrici generali di intervento (supra, § 3.1.2), la soglia di punibilità
riferita all’ammontare complessivo delle imposte, degli interessi e delle
sanzioni amministrative il cui pagamento si intendeva eludere. Correlativamente,
è stato elevato anche il trattamento sanzionatorio, comminando la pena della
reclusione da sei mesi a quattro anni (laddove la norma vigente prevede invece
la reclusione fino a tre anni).
Da ultimo, è stata pure nel frangente inserita, in testa alla formula
descrittiva dell’illecito, la clausola di salvezza del reato più grave,
riferita soprattutto all’ipotesi in cui il fatto risulti riconducibile al
paradigma punitivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale.
LE DISPOSIZIONI
COMUNI
4.1. Le pene accessorie. Il titolo III dello schema raccoglie le disposizioni
comuni, applicabili alla generalità dei reati contemplati dal titolo
precedente.
Dando attuazione alla direttiva di cui alla lettera d) dell’articolo 9 della
legge di delegazione, l’articolo 12 stabilisce le pene accessorie che
conseguono alla condanna per taluno di detti reati. La relativa griglia
corrisponde — al di là del differente ordine di elencazione — a quella già
prefigurata dall’articolo 6 del decreto legge n. 429 del 1982, fatta eccezione
per la pena accessoria, non più riproposta, dell’esclusione dalla borsa degli
agenti di cambio e dei commissionari.
Limitati ritocchi sono stati apportati alla durata delle misure, in una logica
di razionalizzazione complessiva dell’assetto sanzionatorio: in particolare,
è stata aumentata la durata minima e massima dell’interdizione dagli uffici
direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dell’interdizione dai
pubblici uffici, nonché la durata massima dell’interdizione dalle funzioni di
rappresentanza e assistenza in materia tributaria.
A differenza che per le altre pene accessorie, le quali trovano applicazione in
caso di condanna per uno qualsiasi dei delitti contemplati dallo schema, si è
previsto che l’interdizione dai pubblici uffici consegua esclusivamente alla
condanna per i delitti più gravi (dichiarazione fraudolenta e emissione di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), e sempre che non
ricorrano le circostanze attenuanti speciali previste dagli articoli 2, comma 3,
e 8, comma 3. È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione
della pena accessoria in parola — peraltro in ambiti più ristretti rispetto
alla normativa vigente — risulti pienamente giustificata a fronte
dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i
doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus
publicum.
4.2. Le circostanze attenuanti. Gli articoli 13 e 14 dello schema si connettono
all’istruzione impartita dalla lettera e) dell’articolo 9 della legge di
delega, che dà mandato all’esecutivo di prevedere "meccanismi premiali
idonei a favorire il risarcimento del danno".
Al riguardo, si è scartata la soluzione "estrema" — che pure
avrebbe potuto astrattamente ipotizzarsi a fronte della genericità
dell’indicazione del legislatore delegante — di elevare la condotta
risarcitoria a causa estintiva del reato: e ciò sul rilievo che in materia di
criminalità economica, e tributaria in particolare — laddove vengono in
giuoco interessi di natura prettamente patrimoniale — una simile soluzione
finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un
effetto "criminogeno", in quanto consentirebbe ai contribuenti di
"monetizzare" il rischio della responsabilità penale, barattando,
sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con
l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale.
In tale ottica, lo "strumento premiale", incentivante il risarcimento,
è stato quindi individuato nella previsione di circostanze attenuanti speciali
che rispondono, in sostanza, alla medesima ratio di quella comune di cui
all’articolo 62, n. 6), prima parte, del Codice penale. Tenendo conto delle
indicazioni della Commissione giustizia della Camera e della Commissione finanze
del Senato, che hanno lamentato una eccessiva "fragilità"
dell’ipotizzato meccanismo premiale, tali circostanze sono state trasformate
da circostanze a effetto comune — quali erano configurate nello schema
preliminare di decreto — in circostanze a effetto speciale, tali cioè da
determinare una riduzione della pena fino alla metà (anziché nella misura
ordinaria di un terzo), con l’aggiunta, altresì, dell’attitudine a
escludere tout court l’applicabilità delle pene accessorie.
Si è ritenuto peraltro di dover prevedere, quale opportuno correttivo, che
della diminuzione di pena conseguente alle circostanze in parola non si tenga
conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena
pecuniaria ai sensi dell’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689: in
altre parole, alla sostituzione non potrà procedersi se la pena della
reclusione concretamente irrogata scende al di sotto del limite dei tre mesi
(entro il quale la sostituzione è ammessa) solo per effetto dell’applicazione
delle ripetute circostanze. È apparso infatti necessario evitare che, almeno
per quanto attiene alle fattispecie criminose più significative, concernenti la
dichiarazione (il problema si pone, in concreto, soprattutto per la
dichiarazione infedele e per l’omessa dichiarazione), l’adempimento —
comunque tardivo — del debito tributario possa consentire all’imputato,
cumulando la riduzione di pena a esso connessa con quella conseguente ad altre
attenuanti (segnatamente, le attenuanti generiche) e al ricorso a riti
alternativi (giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle
parti), di conseguire per altra via l’accennata "monetizzazione"
della responsabilità penale, con sensibile perdita di efficacia deterrente del
sistema. La soluzione è in linea con il criterio della legge delega, che
rimette alla discrezionalità del legislatore delegato l’individuazione e il
concreto dimensionamento dei "meccanismi premiali", ed è altresì
conforme alla direttiva di cui alla lettera l) dell’articolo 9 della stessa
legge di delegazione, che impone di prefigurare, nella complessiva combinazione
del sistema sanzionatorio penale e amministrativo, "risposte punitive
coerenti e concretamente dissuasive".
L’articolo 13 — costituente la norma applicabile nei casi ordinari —
connette segnatamente l’indicata attenuante all’avvenuta estinzione,
mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei
delitti contestati, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado (limite temporale, questo, che, oltre a risultare in linea con le
previsioni citato articolo 62, n. 6 del Codice penale, mira ad evitare lunghe
sospensioni o rinvii del dibattimento in prossimità della decisione, o comunque
ad istruttoria avanzata, finalizzate a iniziative risarcitorie). Il pagamento
non deve essere, peraltro, necessariamente integrale in rapporto alle pretese
avanzate dal fisco, potendo l’interessato giovarsi degli "istituti
premiali" previsti dalla legislazione tributaria al fine di favorire
l’adempimento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente (accertamento con
adesione, conciliazione giudiziale, rinuncia al_l’impugnazione, ravvedimento
operoso). La formula al riguardo adoperata — estinzione "anche a seguito
delle procedure conciliative o di adesione al_l’accertamento previste dalle
norme tributarie" — è volutamente "aperta", al fine di
consentire l’adattamento automatico del disposto normativo ad eventuali nuovi
istituti di futura introduzione: un richiamo "nominativo" degli
istituti esistenti — pure suggerito dalla Commissione giustizia della Camera
— conferirebbe, per vero, una non auspicabile "rigidità" alla
previsione normativa.
Mette conto segnalare, per altro verso, come la disposizione non riferisca
specificamente il pagamento estintivo al_l’imputato, per modo che il medesimo
giova, ai fini della fruizione dell’attenuante, anche se eseguito da un terzo:
ipotesi suscettiva di verificarsi segnatamente in rapporto a fatti commessi da
amministratori o rappresentanti di società od enti, allorché il versamento
venga effettuato dalla società o dal_l’ente rappresentato, in quanto soggetto
passivo della pretesa tributaria.
Il comma 2 dell’articolo 13 stabilisce, tuttavia, al tempo stesso, che il
pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la
violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili al_l’imputato in
virtù del principio di specialità sancito dall’articolo 19 dello schema (infra,
§ 5.1). La disposizione non intende introdurre una deroga a tale principio —
inammissibile a fronte delle indicazioni della legge delega — né qualificare
in senso risarcitorio le sanzioni amministrative tributarie, in contrasto con le
indicazioni di sistema emergenti dal decreto legislativo n. 472 del 1997, ma
semplicemente utilizzare la sanzione amministrativa quale criterio
"legale" di commisurazione del risarcimento del danno da reato,
ulteriore rispetto al mero pagamento dell’imposta.
Il successivo articolo 14 prende in considerazione un’ipotesi particolare,
nella quale la disposizione dell’articolo 13 risulterebbe logicamente
inapplicabile: quella, cioè, in cui i debiti tributari connessi alle violazioni
per le quali si procede penalmente risultino estinti per prescrizione o
decadenza dall’azione di accertamento (l’evenienza è configurabile a fronte
della diversa calibratura dei relativi termini rispetto a quelli di prescrizione
dei reati). Poiché sarebbe incongruo — e di dubbia conformità al principio
costituzionale di eguaglianza — che in tale frangente resti preclusa
all’imputato la possibilità di fruire dell’attenuante, si è prefigurato
uno speciale ed agile meccanismo inteso alla determinazione della somma dovuta a
titolo di riparazione dell’offesa recata dal reato, le cui cadenze mutuano (ma
in ottica ovviamente del tutto diversa) quelle del_l’istituto del cosiddetto
"patteggiamento allargato", della cui introduzione si discute in sede
di più generale riforma del processo penale.
In particolare, si stabilisce che l’imputato possa chiedere di essere ammesso
a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,
una somma, da lui indicata, a titolo di "equa riparazione"
dell’offesa recata al_l’interesse pubblico tutelato dalla norma violata,
comunque non inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma
del_l’articolo 135 del Codice penale della pena minima prevista per il delitto
contestato. Il riferimento al carattere equitativo della riparazione rende
palese come, pur dovendosi tener conto della gravità dell’offesa,
l’istituto non rappresenti uno strumento surrettizio di
"reviviscenza" del debito tributario prescritto, al cui importo il
versamento non deve, dunque, necessariamente adeguarsi.
Qualora il giudice, sentito il pubblico ministero, ritenga congrua la somma
offerta, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il
pagamento, la cui concreta effettuazione determina l’applicabilità
dell’attenuante. Poiché, peraltro, il pagamento non presuppone in alcun modo
un’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, si è espressamente
previsto che, in caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma versata —
non corrispondente ad alcun debito attuale — debba essergli restituita.
Da ultimo, al fine di assicurare la pronta applicazione delle disposizioni
passate in rassegna — tanto dell’articolo 13 che dell’articolo 14 —
evitando l’instaurazione di prassi difformi in tema di interpello
dell’amministrazione finanziaria con effetti di allungamento dei tempi
processuali, la norma finale di cui all’articolo 22 dello schema demanda ad un
decreto del ministero delle Finanze — da emanare entro sessanta giorni
dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo e privo, per i suoi
contenuti, di carattere regolamentare (essendo piuttosto ascrivibile alla
categoria degli atti generali) — di stabilire le modalità di documentazione
dell’avvenuta estinzione dei debiti tributari rilevanti ai fini
dell’applicazione dell’attenuante e di versamento delle somme dovute a
titolo di riparazione dell’offesa.
4.3. Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie. Non
punibilità nei casi di adeguamento al parere del comitato per l’applicazione
delle norme antielusive. Gli articoli 15 e 16 dettano speciali disposizioni
attinenti alla disciplina dell’errore di diritto.
L’articolo 15 riprende la disposizione in tema di violazioni dipendenti da
interpretazione delle norme tributarie già dettata dall’articolo 1, comma 2,
dello schema preliminare (e che trova il suo precedente nell’articolo 8 del
decreto-legge n. 429 del 1982), modificandone i contenuti sulla base dei
suggerimenti della Commissione giustizia del Senato. L’enunciato normativo
viene anzitutto allineato a quello dell’articolo 6, comma 2, del decreto
legislativo n. 472 del 1997: si prevede, cioè, che non diano luogo a fatti
punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie
dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro
ambito di applicazione.
In secondo luogo, poi, viene inserita la clausola di riserva "al di fuori
dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo
comma, del Codice penale", intesa a chiarire che la disposizione è
destinata ad operare in ambito distinto ed ulteriore rispetto alla generale
regola codicistica in tema di errore su legge extrapenale, e cioè nei casi in
cui le norme tributarie vengono a partecipare della natura di legge penale, in
quanto integrative del precetto sanzionato.
L’articolo 16 dello schema attua il criterio direttivo di cui alla lettera f)
della norma di delega, stabilendo che non dia luogo a fatto punibile a norma del
decreto delegato la condotta di chi, avvalendosi della speciale procedura
disciplinata dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n.
413, si sia uniformato ai pareri espressi dal ministero delle Finanze o dal
Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive in base alle
citate disposizioni, ovvero abbia compiuto le operazioni esposte nell’istanza
sulla quale si è formato il silenzio-assenso.
Come è noto, il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme
antielusive — istituito dal comma 1 dello stesso articolo 21 della legge n.
413 del 1991 — è organo competente ad esprimere pareri su richiesta del
contribuente, dopo un preventivo interpello dell’amministrazione finanziaria
(al cui avviso il contribuente stesso non intenda adeguarsi), in ordine a casi
concreti nei quali possa farsi questione dell’applicazione di norme tributarie
specificamente indicate dalla legge (articoli 37, comma 3, e 37-bis del decreto
del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 74 del
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 10
della legge 30 dicembre 1990, n. 408). Esso è tenuto a pronunciarsi entro
sessanta giorni dalla richiesta o, al più, entro ulteriori sessanta giorni dal
ricevimento di una formale diffida, decorsi i quali la mancata pronuncia
equivale ad assenso.
La previsione della non punibilità di chi si sia adeguato al parere
dell’organo consultivo — manifestato anche nella forma del silenzio-assenso
— si connette ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la nota
sentenza 24 marzo 1988, n. 364 e risponde alla medesima logica di fondo delle
speciali disposizioni in tema di non punibilità delle valutazioni di cui
all’articolo 7, in precedenza illustrate (retro, § 3.2.1): si tratta, cioè,
di un criterio legale di esclusione del dolo di evasione richiesto per la
configurabilità delle diverse ipotesi criminose.
Ancorché la legge delega faccia espresso riferimento al solo parere del
Comitato consultivo, si è ritenuto — in accoglimento della richiesta
formulata dalla Commissioni parlamentari — di dover estendere la previsione di
non punibilità anche all’ipotesi in cui il contribuente si adegui al parere
preventivo espresso dall’amministrazione finanziaria, evitando così di adire
il Comitato, non essendovi ragione per un trattamento diversificato della
fattispecie.
L’ambito di operatività della previsione ripete, naturalmente, i confini,
alquanto circoscritti, delle competenze del Comitato consultivo (che, come
accennato, si esplicano in rapporto alle sole materie specificamente indicate
dalla legge). Sebbene astrattamente auspicabile nell’ottica di consentire ai
contribuenti un preventivo trasparente rapporto con l’amministrazione
finanziaria, non appare praticabile nella presente sede l’estensione della
disposizione — pure richiesta dalla Commissione giustizia della Camera — a
tutti indistintamente i casi di adeguamento dell’interessato alle indicazioni
fornite dall’amministrazione finanziaria: estensione che esula,
all’evidenza, dai limiti della delega nella contingenza attuata, connettendosi
a riforme tributarie ancora in itinere in tema di ampliamento delle facoltà di
"interpello" (quale l’introduzione dello "statuto del
contribuente").
Giova tuttavia ribadire e sottolineare — in risposta alle preoccupazioni delle
quali la Camera si è fatta portavoce — che, nelle ipotesi di mancata
sottoposizione del caso al parere del Comitato (anche perché esorbitante dai
limiti delle sue attribuzioni), resta comunque pienamente salva la possibilità
che la condotta del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni
consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi di imposta, vada
ricondotta al paradigma di quella che è tradizionalmente qualificata come
semplice "elusione di imposta", quale categoria concettualmente
contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale. In
altre parole, la disposizione di cui all’articolo 16 è unicamente di favore
per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire,
"a rovescio", ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica
delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione
dell’organo consultivo.
4.4. Prescrizione. Per quanto attiene alla prescrizione, la legge delega
impartisce l’istruzione di uniformare la relativa disciplina a quella
generale, facendo salve, tuttavia, eventuali deroghe "rese opportune dalla
particolarità della materia tributaria" articolo 9, comma 2, lettera g).
Attualmente, come è noto, l’articolo 9 del decreto legge n. 429 del 1982
enuncia regole derogatorie circa la prescrizione dei reati in materia di imposte
sui redditi e sul valore aggiunto tanto sul versante dei termini prescrizionali,
da esso modulati in senso fortemente "atipico"; quanto su quello degli
atti interruttivi, al cui catalogo viene aggiunta la "constatazione"
delle violazioni.
Sul primo fronte, il presente schema prefigura l’integrale abbandono del
regime speciale, rendendo così applicabili senza eccezioni alle nuove ipotesi
criminose le disposizioni generali sui termini di prescrizione di cui
all’articolo 157 del codice penale.
Di contro, è sembrato opportuno conservare, in correlazione all’iter tipico
dell’accertamento delle infrazioni in campo tributario, la previsione di atti
interruttivi ulteriori rispetto a quelli elencati dall’articolo 160 del Codice
penale: atti che sono stati peraltro più puntualmente identificati nel
"verbale di constatazione" e nell’"atto di accertamento"
delle violazioni. La nuova formulazione vale, invero, a risolvere in senso
formale e più garantista i dubbi interpretativi originati dal concetto di
"constatazione", cui è riferimento nella norma vigente —
particolarmente sul punto dell’attitudine a comprendere qualsiasi attività
accertativa degli uffici finanziari o della polizia tributaria a prescindere
dalla verbalizzazione dei relativi risultati — evitando che possa attribuirsi
efficacia interruttiva ad atti ed attività non aventi rilievo tipico.
Quanto all’atto di accertamento, alla produzione dell’effetto interruttivo
è peraltro sufficiente la semplice adozione, non essendo richiesta la notifica.
4.5. COMPETENZA PER TERRITORIO
L’articolo 18 dello schema detta regole specifiche in ordine alla competenza
per territorio.
In proposito, il criterio direttivo della legge delega — "individuare la
competenza per territorio sulla base del luogo in cui il reato è stato
commesso, ovvero, ove ciò non fosse possibile, del luogo in cui il reato è
stato accertato" articolo 9, comma 2, lettera h) — prelude alla
trasformazione del criterio del luogo di accertamento, da regola generale ed
esclusiva di determinazione del foro competente (qual è attualmente: articolo
11, secondo comma, del decreto legge n. 429 del 1982), a regola sussidiaria,
destinata ad operare unicamente allorché non possa trovare applicazione il
criterio principale del luogo di commissione.
In puntuale ossequio a tale direttiva, il comma 1 dell’articolo in esame
esordisce, dunque, stabilendo che quando (e solo quando) la competenza per
territorio in ordine ai reati previsti dal decreto non possa determinarsi sulla
base delle disposizioni generali di cui all’articolo 8 del Codice di procedura
penale (che individuano, in rapporto alle diverse categorie e forme di
manifestazione dei reati, il luogo di commissione dell’illecito), la
competenza stessa si radichi presso il giudice del luogo di accertamento,
escludendo così l’applicazione delle regole suppletive di cui all’articolo
9 del medesimo codice.
I successivi commi 2 e 3 dettano disposizioni specifiche, intese a risolvere in
via normativa i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in
ordine a determinate ipotesi di reato, le quali si giustificano sulla base della
generale delega legislativa al coordinamento conferita dall’articolo 16, comma
1, lettera b), della legge delega.
Relativamente ai delitti in materia di dichiarazione, tali problemi si
connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica
attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal
quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore
dell’illecito di "scegliersi"il giudice competente con il semplice
accorgimento di incaricare della trasmissione stessa un soggetto abilitato che
operi nel luogo ritenuto più conveniente; mentre, ove si abbia riguardo al
luogo in cui i dati confluiscono, porterebbe all’inaccettabile risultato di
concentrare la competenza per tutti i reati presso il tribunale di Roma, stante
la gestione centralizzata del materiale informatico. A fronte di ciò, si è
dunque stabilito che i reati in questione debbano considerarsi consumati nel
luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salva l’applicabilità
del criterio suppletivo del luogo dell’accertamento laddove detto domicilio
risulti ubicato all’estero.
Il comma 3 ha per converso di mira la fattispecie, prevista dall’articolo 8,
comma 2, dello schema, dell’emissione di più fatture o documenti per
operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso
periodo d’imposta: ipotesi che — per le ragioni a suo tempo lumeggiate
(retro, § 3.2.1) — è stata configurata come integrativa di un unico reato.
Stante la particolare strutturazione dell’ipotesi criminosa, nella quale
confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico
criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile,
in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più
precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali).
Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di
emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo:
soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le
questioni di competenza, specie nel caso — tutt’altro che infrequente — di
scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di
contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei
singoli documenti, presso il quale ha sede l’ufficio del pubblico ministero
che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro
previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale: criterio che
ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dagli articoli 9, comma
3, e 10, comma 2, del medesimo codice.
Il pericolo — paventato dalla Commissione giustizia della Camera — che il
sistema adottato possa consentire alla persona sottoposta alle indagini di
"scegliersi"il giudice attraverso "confessioni mirate",
volte ad "incanalare"le indagini presso un determinato ufficio di
procura piuttosto che un altro, non è parso tale da giustificare una revisione
della scelta. In primo luogo, infatti, l’ipotetica confessione, onde poter
sortire il temuto effetto, dovrebbe intervenire in una fase assolutamente
prodromica, precedente l’iscrizione della notitia criminis nell’apposito
registro. In secondo luogo, poi, tale iscrizione non basterebbe ancora, di per sé
sola, a radicare la competenza, occorrendo che sia effettuata dall’ufficio del
pubblico ministero di uno dei luoghi in cui le fatture o documenti per
operazioni inesistenti sono stati realmente emessi (particolare, questo, che
preserva il valore della "naturalità"del giudice). In terzo luogo e
da ultimo, deve rilevarsi come le citate disposizioni degli articoli 9, comma 3,
e 10, comma 2, del codice di procedura penale, dalle quali il criterio è
mutuato, non abbiano dato luogo, nella pratica applicativa, a problemi del
genere di quelli evidenziati nel parere.
RAPPORTI CON IL SISTEMA SANZIONATORI AMMINISTRATIVO E TRA PROCEDIMENTI
5.1. IL PRINCIPIO DI SPECIALITÀ.
Il titolo IV dello schema reca disposizioni intese a regolare i rapporti tra il
nuovo sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo, nonché fra il
procedimento penale, il procedimento amministrativo di accertamento ed il
processo tributario.
Le coordinate nell’ambito delle quale si muove l’intervento sono segnate dai
criteri di delega che impongono, per un verso, l’applicazione del principio di
specialità nel caso di convergenza di norme sanzionatorie eterogenee (penali ed
amministrative) su un medesimo fatto lettera i) dell’articolo 9; e, per
l’altro, di coordinare i due sistemi "in modo da assicurare risposte
coerenti e concretamente dissuasive" lettera l).
Sulla base di tali istruzioni parlamentari, il comma 1 del_l’articolo 19 dello
schema — ribaltando la regola del cumulo, oggi sancita dall’articolo 10 del
decreto legge n. 429 del 1982, ed allineando il sistema sanzionatorio tributario
al principio generale di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n.
689 — stabilisce che quando uno stesso fatto è punito da una delle norme
incriminatrici del decreto delegato e da una disposizione che prevede sanzioni
amministrative, si applichi la sola disposizione speciale. Essendo il principio
di specialità una regola-cardine dell’ordinamento (vedi anche l’articolo 15
del Codice penale), non è sembrato potersi e doversi dar seguito all’invito
della Commissione giustizia della Camera a specificare le "modalità di
applicazione del principio" stesso.
All’affermazione del principio di specialità non deve peraltro seguire —
stante il ricordato criterio di delega di cui alla lettera l) — una perdita di
deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su questo versante si
connettono, per vero, all’eventualità che, in determinati frangenti, il
potenziale autore d’una violazione tributaria possa considerare maggiormente
temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di elevato ammontare (quale
normalmente sono quelle tributarie, ragguagliate a percentuali o multipli
dell’evasione) e che verrà d’altro canto indefettibilmente applicata,
piuttosto che una sanzione penale, fortemente afflittiva bensì in astratto, ma
la cui esecuzione è suscettiva di venir evitata, in concreto, con
l’ottenimento della sospensione condizionale della pena: donde, in definitiva,
un possibile pungolo al compimento dei fatti più gravi di evasione (collocati,
cioè, al di sopra della soglia di punibilità), in luogo di quelli più lievi.
Siffatto timore appare pregnante, in verità, soprattutto in riferimento ai
fatti commessi nell’ambito di società o altri enti — quali saranno, in
buona parte dei casi, quelli puniti con pene criminali dal presente decreto,
stante il livello delle soglie di punibilità — a fronte della possibilità di
sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare
sostanziale dell’interesse (la società o l’ente, per l’appunto),
riversando la responsabilità penale su meri prestanome.
Quale opportuno correttivo, si è dunque previsto, al comma 2 dell’articolo
19, che quando pure il principio di specialità porti ad escludere
l’applicabilità delle sanzioni amministrative nei confronti della persona
fisica autrice della violazione, permanga tuttavia la responsabilità per tali
sanzioni dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto
legislativo n. 472 del 1997, che non siano, a lor volta, s’intende, persone
fisiche penalmente responsabili in veste di concorrenti nel reato. La
disposizione richiamata stabilisce, invero, come è noto, che nei casi in cui
una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo
è commessa dal dipendente o dal rappresentante negoziale di una persona fisica
nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato, ovvero dal dipendente o
dal rappresentante o dall’amministratore di società, associazione od ente,
nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società,
l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della
violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla
sanzione irrogata.
Si tratta, per vero, d’una soluzione che appare, in sé, rispondente ad una
logica "di sistema". Questa consiste, in effetti, nell’evitare che
il medesimo fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto (una volta
come illecito amministrativo e l’altra come illecito penale), mantenendo,
tuttavia, la possibilità di una punizione divaricata rispetto a soggetti
diversi (ad esempio: amministratore, da un lato, e società amministrata,
dall’altro). In tal senso, non sono apparse dunque fondate le perplessità
manifestate dalla Commissione giustizia della Camera circa la compatibilità
dell’enunciata regola con il principio di specialità, affermato dalla legge
delega.
D’altro canto, sebbene l’obbligazione dei soggetti indicati dal citato
articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997 sia qualificata
come "solidale"rispetto a quella dell’autore della violazione, lo
stesso decreto legislativo già contempla la possibilità che detti soggetti
rispondano della sanzione amministrativa nonostante l’inapplicabilità della
medesima all’autore. Ciò avviene, in particolare, nel caso di morte di
quest’ultimo: ancorché, infatti, l’obbligazione al pagamento della sanzione
non si trasmetta agli eredi (articolo 8 del decreto legislativo n. 472 del
1997), la responsabilità dei soggetti di che trattasi permane, pure quando la
morte sia avvenuta prima dell’irrogazione della sanzione stessa (articolo 11,
comma 7, del decreto).
5.2. RAPPORTI TRA PROCEDIMENTO PENALE E PROCESSO TRIBUTARIO.
Il tema dei rapporti tra procedimento penale e processo tributario assume una
rilevanza tutta particolare nella cornice del nuovo sistema, a fronte del
generale spostamento "a valle"della linea di intervento punitivo e
dell’introduzione di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare
dell’imposta evasa, con conseguente devoluzione al giudice penale di compiti
di verifica spesso integralmente sovrapponibili a quelli del giudice tributario.
Al riguardo, si è peraltro decisamente scartata qualsiasi soluzione che
postulasse l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità tra procedimenti
nell’uno o nell’altro senso (pregiudiziale tributaria al processo penale o
pregiudiziale penale al processo tributario): e ciò per un duplice ordine di
ragioni. Innanzitutto, per l’inaccettabile dilatazione dei tempi di intervento
della decisione che ne seguirebbe, e che in fatto preluderebbe — come ha in
particolare insegnato l’esperienza della "pregiudiziale tributaria",
già contemplata dall’articolo 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929, n.
4 e successivamente abbandonata dal decreto legge n. 429 del 1982 tra il
generale plauso — ad un drastico illanguidimento dell’efficacia del sistema
sanzionatorio. In secondo luogo, poi, per le diverse regole probatorie valevoli
nei due processi, non esportabili sic et simpliciter dall’uno all’altro
senza che ne derivino effetti penalizzati per l’imputato o per
l’amministrazione finanziaria.
In sostanziale continuum con il panorama normativo vigente, si è pertanto
affermato l’opposto principio dell’autonomia reciproca dei due processi (o
del "doppio binario"), segnatamente escludendo — sulla falsariga
dell’articolo 12, primo comma, prima parte, del decreto legge n. 429 del 1982
— che il processo tributario possa essere sospeso per la pendenza del
procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento dipende la relativa definizione (articolo 20 dello schema): regola,
questa, estesa — al fine di evitare ogni possibile dubbio — anche al
preliminare procedimento amministrativo di accertamento delle violazioni
tributarie. Quanto alla regola inversa — id est, all’impossibilità di
sospensione del processo penale per la pendenza di quello tributario — essa
discende dalle regole generali del codice di procedura penale (articoli 3 e
479).
Non si sono dettate, del pari, disposizioni particolari sull’efficacia del
giudicato penale nel processo tributario, del tipo di quella già prevista
dall’articolo 12, primo comma, seconda parte, del decreto legge n. 429 del
1982, e peraltro ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità tacitamente
abrogata dal nuovo codice di rito. Troveranno quindi applicazione le
disposizioni ordinarie, ed in particolare l’articolo 654 di detto codice, che
esclude l’efficacia "esterna"del giudicato penale allorché la legge
civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.
Nella cornice degli accolti principi di specialità (retro, § 5.1) e di
autonomia, si sono introdotte, per converso, speciali regole procedurali intese
ad evitare che le intersezioni dei due sistemi provochino comunque un
rallentamento dei tempi di applicazione delle sanzioni. Occorre considerare, per
vero, che l’appartenenza d’una data violazione all’area dell’illecito
penale, piuttosto che a quella dell’illecito amministrativo, è in funzione di
elementi (superamento di soglie, dolo specifico di evasione, ecc.) la cui
sussistenza, anche a fronte delle allegazioni difensive dell’imputato,
potrebbe ovviamente rimanere esclusa all’esito del procedimento penale (questo
potrebbe concludersi, ad esempio, con l’accertamento che la contestata
omissione della dichiarazione dei redditi sussiste bensì, ma non è punibile
come reato perché al di sotto della soglia di evasione o non qualificata da
dolo). In tale situazione, se di fronte a violazioni ritenute integrative di
reato l’amministrazione finanziaria dovesse senz’altro sospendere il
procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative (in quanto
inapplicabili sulla base del principio di specialità, ex articolo 19, comma 1,
dello schema), salvo poi a riavviarlo in caso di assoluzione o proscioglimento
dell’imputato con sentenza definitiva, si aprirebbe, in coda al processo
penale — al di là della possibile scadenza, medio tempore, dei termini di
decadenza o di prescrizione — una nuova fase suscettiva di sviluppi in sede
contenziosa.
Ad evitare ciò, l’articolo 21 dello schema prefigura un meccanismo che
consente all’amministrazione finanziaria di determinare subito le sanzioni
amministrative astrattamente applicabili per le violazioni fatte oggetto di
notizia di reato: sanzioni la cui concreta eseguibilità nei confronti dei
soggetti ritenuti penalmente responsabili resta comunque soggetta alla
condizione sospensiva che essi vengano assolti o prosciolti in via definitiva
con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In tal modo, fermo
restando il principio di unicità della sanzione (nella specie, solo
amministrativa), viene salvaguardata — conformemente al dettato della citata
lettera l) della norma di delega — la capacità di pronta risposta e, dunque,
l’efficacia dissuasiva del sistema.
Il comma 3 dello stesso articolo 21 fornisce, da ultimo, un opportuno
chiarimento circa l’operatività dell’indicato meccanismo nei casi in cui ci
si trovi di fronte a più violazioni tributarie che, in base al disposto
dell’articolo 12 del decreto legislativo n. 472 del 1997, debbono essere
colpite con sanzione amministrativa unica in quanto in concorso formale o
continuazione tra loro. Allorché, in particolare, solo alcune di dette
violazioni risultino penalmente rilevanti, l’ufficio competente procederà
comunque all’irrogazione di un’unica sanzione per tutte, secondo il disposto
del comma 1 dell’articolo 21: ma di tale sanzione sarà eseguibile nei
confronti dell’imputato — sino a quando il procedimento penale non si
concluda con l’assoluzione o il proscioglimento per la riconosciuta
irrilevanza penale del fatto — solo la parte che sarebbe stata applicabile in
rapporto alle violazioni considerate ab origine prive di riflessi penali.
LE DISPOSIZIONI DI COORDINAMENTO E FINALI
A chiusura dello schema, il titolo V detta le disposizioni di coordinamento e
finali, le quali trovano la loro generale fonte di legittimazione nel criterio
di cui all’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.
Posto che dell’articolo 22 — connesso alle neointrodotte circostanze
attenuanti legate al risarcimento del danno — si è già detto a suo luogo
(retro, § 4.2), l’articolo 23 novella l’articolo 63, primo comma, secondo
periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e
l’articolo 33, terzo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, in tema di trasmissione agli uffici
finanziari degli atti di indagine svolti in sede penale relativamente a reati
tributari. L’attuale formulazione delle norme novellate — in base alla quale
tale trasmissione può aversi solo "previa autorizzazione dell’autorità
giudiziaria in relazione alle norme che disciplinano il segreto" — è
stata per vero interpretata nel senso che l’autorizzazione stessa possa
intervenire solo quando sia cessato il segreto investigativo in base alle norme
del codice di procedura penale: prospettiva nella quale, peraltro, le
disposizioni in questione non svolgono alcuna utile funzione, rendendo priva di
ratio la stessa previsione di un provvedimento autorizzatorio. Valendosi
del_l’accennata delega al coordinamento, in correlazione all’enunciato
principio di reciproca autonomia del processo penale e del procedimento
amministrativo di accertamento (retro, § 5.2) — e tanto si rimarca in
relazione all’invito della Commissione giustizia della Camera ad una ulteriore
valutazione dell’ancoraggio della norma in rassegna ai criteri di delega —
viene chiarito ora, per converso, che l’autorizzazione de qua può essere
rilasciata dall’autorità giudiziaria anche in deroga alle generali
disposizioni sul segreto di cui all’articolo 329 del Codice di procedura
penale. In sostanza, nel concedere o negare la trasmissione, l’autorità
giudiziaria potrà compiere, caso per caso, una valutazione comparativa
dell’interesse a non diffondere comunque ante diem la conoscenza di atti che
possono risultare cruciali per lo svolgimento delle indagini e quello
contrapposto dell’amministrazione finanziaria ad avere pronta notizia di
acquisizioni investigative suscettive di portare all’avvio di procedure di
recupero di imposte o di applicazione di sanzioni.
L’articolo 24 sostituisce con una sanzione amministrativa pecuniaria la
sanzione penale attualmente comminata dall’articolo 2 della legge 26 gennaio
1983, n. 18 per le condotte di manomissione dei registratori di cassa. Va
rilevato, in proposito, come la qualificazione penalistica di tali condotte non
trovi più giustificazione nel nuovo sistema, trattandosi di violazioni "prodromiche"
ad una dichiarazione mendace; pur tuttavia, non potrebbe procedersi
al_l’abrogazione pura e semplice della norma incriminatrice, in quanto —
diversamente che per altre ipotesi di reato — le violazioni in questione
rimarrebbero sfornite di qualsiasi sanzione, anche sul piano amministrativo
(assetto, questo, evidentemente inopportuno, trattandosi di comportamenti
trasgressivi comunque di rilievo). L’ammontare della sanzione introdotta (da
due milioni a quindici milioni di lire) è stato parametrato tenendo conto
dell’importo delle sanzioni comminate dal decreto legislativo 18 dicembre
1997, n. 471 per infrazioni di omologo disvalore.
L’articolo 25 reca le abrogazioni, che investono, conformemente al dettato del
comma 1 dell’articolo 9 della legge delega, l’intero titolo I del decreto
legge n. 429 del 1982 e le altre norme vigenti incompatibili con la nuova
disciplina. Al riguardo, si è sancita l’abrogazione espressa — oltre che
delle disposizioni relative a fattispecie od istituti diversamente disciplinati
dallo schema (quali l’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente
della Repubblica n. 602 del 1973, in tema di sottrazione fraudolenta alla
riscossione delle imposte, o l’articolo 6, comma 1, del decreto legge 31
dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio
1997, n. 30, in tema di risarcimento del danno nei reati tributari) — anche di
un complesso di norme incriminatrici che, sulla falsariga del decreto-legge n.
429 del 1982, e talora con esplicito richiamo alle relative disposizioni,
sanzionavano penalmente violazioni "prodromiche" ad una falsa
dichiarazione, con intenti anticipatori della tutela: modello, questo, da
considerare incompatibile con il nuovo assetto, a fronte di quanto innanzi
ampiamente lumeggiato.
Tra le norme incriminatrici abrogate non figura quella di cui all’articolo 2,
comma 26, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con
modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17: in forza dell’articolo 6,
comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 1999 tale disposizione deve essere
infatti oggetto di semplice depenalizzazione (depenalizzazione in fatto disposta
dall’articolo 27 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507).
Aderendo alle indicazioni delle Commissioni parlamentari — che hanno ventilato
possibili vizi di costituzionalità delle soluzioni proposte, soprattutto sul
piano dell’eccesso di delega, a fronte dell’abolizione del principio di
ultrattività delle norme penali tributarie, imposta dall’articolo 6, comma 1,
lettera e), della legge n. 205 del 1999 ed attuata dall’articolo 24, comma 1,
del citato decreto legislativo n. 507 del 1999 — sono state soppresse le
disposizioni transitorie contenute nel_l’originario articolo 25 dello schema
preliminare di decreto, che miravano ad individuare in modo puntuale, mediante
speciali "criteri di raccordo" tra vecchie e nuove fattispecie, le
norme incriminatrici applicabili ai fatti commessi anteriormente all’entrata
in vigore della nuova disciplina. Tale compito resterà pertanto affidato
all’interprete, nel rispetto dei generali principi di cui all’articolo 2 del
Codice penale.
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