La sfida delle differenze

di Emilio Baccarini

Vorrei iniziare queste riflessioni con una descrizione paesaggistica di uno scorcio della città di Roma, apparentemente estrinseca, che mi sembra particolarmente pregna di significato e che assegnano a Roma un ruolo, oserei dire profetico, per il prossimo futuro, a partire dal suo passato. Quando si arriva in fondo a via delle Terme di Caracalla, in prossimità del palazzo della FAO, si ha uno spettacolo che ritengo unico per la sua grande suggestione. Sulla sinistra si vede l'obelisco africano di Axun, di fronte i resti del Circo Massimo, sullo sfondo la cupola di S. Pietro, leggermente a destra il bel campanile romanico di santa Maria in Cosmedin, di rito orientale, e ancora più a destra la cupola della Sinagoga. In una posizione non evidente, ma nella direzione nord di questa prospettiva, il cittadino romano colloca la più grande moschea europea. Queste stratificazioni storiche, la compresenza secolare di tradizioni diverse fanno di Roma una sorta di laboratorio in cui si possa imparare a gestire i conflitti per passare appunto dal conflitto, attraverso il confronto, alla convivialità delle differenze. Le poche riflessioni che seguono sono un primo tentativo di cammino in questa direzione.

Le nostre società occidentali di fine secolo e di fine millennio vivono la contraddizione del confronto con la diversità, sono sempre più multietniche, multiculturali, multireligiose, ecc., ma questa pluralità non è ancora un sereno pluralismo piuttosto, frequentemente, conflittualità. La presenza degli stranieri nelle nostre città è spesso il sintomo di un malessere che provoca una risposta etica, l'esigenza di riequilibrare situazioni di profonda ingiustizia o anche il ripensamento delle strutture politiche che delineino una nuova concezione e un nuovo modello di democrazia. Certamente è da ripensare la nozione di 'straniero' in un mondo sempre più unificato e accanto ad essa quella di cittadinanza.

Riconoscere nell'altro sempre e comunque un valore significa mutare il paradigma di riferimento socio-culturale: dalla tolleranza delle differenze, grande conquista politica e antropologica della modernità, ma ancora atteggiamento egocentrato, alla cultura/coltura delle differenze. Il riconoscimento dell'altro come valore ha come proprio presupposto 'ontologico' il bisogno dell'altro da cui ciascuno è costituito e che trova nella relazione motivazionale il proprio statuto fondamentale. Ciò vale dal livello della singolarità, nella differenza dei sessi, al livello socio-politico, come vedremo, nella interdipendenza delle nazioni. L'inter-dipendenza di identità e differenza ci apre a nuove possibilità di dire il senso dell'uomo. L'uomo occidentale nella sua autoaffermazione si è identificato, si è 'stanziato' e nello stanziamento ha trovato il proprio orizzonte di identificazione. Occorre in questa fine di millennio ritrovare una mentalità nomade; disponibilità al mutamento, al superamento di qualsiasi confine territoriale, disponibilità a trascendersi per ritrovare il senso originario dell'uomo che, prima di qualsiasi specificazione determinante, è semplicemente umano.

Nella prospettiva 'mondialistica' ciò significa ritrovare una convivialità delle differenze, sinonimo di interdipendenza della comunità umana nelle sue differenziazioni nazionali. Le singole nazioni non possono più isolarsi in una sorta di autonomia autocratica e di autosufficienza soddisfatta. Oggi abbiamo realizzato un'interdipendenza economica, spesso esercizio di una cattiva interdipendenza. A questo proposito A. Papisca, dell'Università di Padova, uno dei pionieri degli studi di nuovi modelli, suggerisce la distinzione tra interdipendenza-situazione e interdipendenza-valore. Scrive: "L'interdipendenza-situazione, nella sua attuale scomoda configurazione, deve essere considerata come una condizione transitoria, come un insieme di circostanze preliminari sulla via della pacificazione e della solidarietà planetaria"... "L'interdipendenza-situazione, che gli stati più forti e le multinazionali cercano di gestire come 'strategia dell'interdipendenza' o 'interdipendenza deliberata', eccita i peggiori istinti degli stati sovrani nell'esercizio della prassi statualistica; le esigenze della governabilità, della rapidità ed efficacia delle decisioni, dell'interesse nazionale, della sicurezza nazionale prevalgono sull'esigenza della democrazia e della solidarietà internazionale. Interdipendenza planetaria viene così a significare più statualismo, più diplomazia, più egoismo, più razionalismo mercantile, più raffinato sfruttamento delle risorse altrui, diffusione di imperialismo...".

Si può sfuggire a questa deformazione creando un nuovo ordine internazionale democratico, fondato sulla cultura della complessità. Una democrazia planetaria esige la tensione all'unificazione politica, sociale, giuridica, oltre che economica. E questo significa che non può essere tollerata l'ingiustizia verso i popoli più poveri. La coscienza della 'mondialità' quale qui si è appena delineata, mette in discussione questo (dis-)ordine economico per creare veri presupposti di pace. Tutto ciò mette in discussione la stessa modernità e costringe a ripensare il concetto di 'politico' per approdare gradualmente alla internazionalità come cultura dei diritti umani. Scrive ancora Papisca: "La cultura della planetarietà è la cultura dei diritti umani, cioè la consapevolezza di essere, in quanto individui e gruppi associativi, soggetti internazionali anche dal punto di vista del diritto: quindi legittimi anche formalmente a esercitare ruoli transnazionali. Il codice internazionale dei diritti umani si pone alla base della cultura della liberazione."... "La cultura della planetarietà è quindi cultura della convivialità dei membri della famiglia umana... La cultura della convivialità planetaria è, concretamente, esistenzialmente, assidersi tutti alla mensa del patrimonio comune su un piede di pari dignità. La pari dignità, sempre concretamente parlando, significa condivisione di bisogni umani essenziali e il loro soddisfacimento solidaristico, a cominciare dai bisogni basilari di coloro che sono in maggiore necessità".

Il percorso che abbiamo tentato ha coinvolto problematiche molteplici, ma il senso ultimo era di mostrare le possibilità implicite in una logica della differenza. Ora, la logica della differenza intesa come 'grammatica e sintassi del pluralismo' istituisce un'antropologia dialogica in cui ogni io è l'altro dell'altro e la cui etica è l'accoglienza responsabile e benevolente.

Dobbiamo cominciare a pensare in termini di integrazione nel rispetto delle differenze, piuttosto che nel senso di identificazione appropriante. I1 riconoscimento dell'altro come valore implica che ci si impegni in una importante opera di rispetto e quindi di salvaguardia dei diritti di cui ogni uomo è portatore. Il rispetto dei diritti deve avere a proprio fondamento questa affermazione di valore, che significa anche asserire che l'altro, ogni altro, è concretamente ciò che io non sono, ha certe qualità che io non ho. In termini radicali, ciò vuol dire che il nostro essere in società non è dettato da elementi più o meno casuali o banali, bensì indica un bisogno profondo connaturato in ogni uomo. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri uomini per essere veramente se stesso. Non possiamo non essere in relazione. Da quando nasce a quando muore, l'uomo ha bisogno di essere inserito in una rete di relazioni che lo fanno sentire vivo e partecipe. Tagliare la relazione equivale ad annullare l'uomo in ciò che ha di più sacro e di più intimo. «Non è bene che l'uomo sia solo».

Nella dialettica della differenza dei sessi il principio relazionale è basilare. In questo contesto sarebbe chiaramente un controsenso negare nuovamente le differenze. È soltanto se Eva è veramente altra, diversa, irriducibilmente diversa, che Adamo è veramente Adamo, per riprendere un esempio da una tradizione culturale che accomuna gli appartenenti alle religioni del Libro. Fuor di metafora, la relazione è autentica solo a condizione che permanga la separazione tra i soggetti in relazione. In caso contrario non c'è relazione, ma strumentalizzazione.

Credo che sia possibile allargare questo discorso a ogni tipo di relazione interpersonale. Naturalmente ciò significa affermare in maniera radicale il valore che ogni essere umano ha, e che quindi nessuno può essere messo da parte senza sentire ripetere-ora però come rimprovero-«non è bene che l'uomo sia solo». Nel contesto della nostra cultura egocentrica, in cui vige il principio dell'autonomia, bisogna cominciare a riaffermare con forza il principio dell'interdipendenza. A tale scopo dobbiamo mettere in atto un movimento di «decostruzione»-uno smontaggio del nostro abituale modo di pensare, per educarci a pensare a partire dall'altro, per trasformare noi stessi in «persone dialogali». Vedere il mondo, e prima di tutto me stesso e gli altri, a partire dallo sguardo degli altri, è il compito urgente che ci si presenta se vogliamo veramente trasformare la nostra cultura.

Dalla tolleranza alla convivialità



Emilio Baccarini è ricercatore presso il  Dipartimento di Ricerche Filosofiche.