La sfida delle differenze
di Emilio Baccarini
Le nostre società occidentali
di fine secolo e di fine millennio vivono la
contraddizione del confronto con la diversità, sono sempre più
multietniche, multiculturali, multireligiose, ecc., ma questa pluralità non
è ancora un sereno pluralismo piuttosto, frequentemente, conflittualità.
La presenza degli stranieri nelle nostre città è spesso il sintomo di un
malessere che provoca una risposta etica, l'esigenza di riequilibrare situazioni di
profonda ingiustizia o anche il ripensamento delle strutture politiche che delineino
una nuova concezione e un nuovo modello di democrazia. Certamente è da
ripensare la nozione di 'straniero' in un mondo sempre più unificato e accanto
ad essa quella di cittadinanza.
Riconoscere nell'altro sempre e
comunque un valore significa mutare il paradigma di
riferimento socio-culturale: dalla tolleranza delle differenze, grande conquista
politica e antropologica della modernità, ma ancora atteggiamento egocentrato,
alla cultura/coltura delle differenze. Il riconoscimento dell'altro come valore ha
come proprio presupposto 'ontologico' il bisogno dell'altro da cui ciascuno è
costituito e che trova nella relazione motivazionale il proprio statuto fondamentale.
Ciò vale dal livello della singolarità, nella differenza dei sessi, al
livello socio-politico, come vedremo, nella interdipendenza delle nazioni.
L'inter-dipendenza di identità e differenza ci apre a nuove possibilità
di dire il senso dell'uomo. L'uomo occidentale nella sua autoaffermazione si è
identificato, si è 'stanziato' e nello stanziamento ha trovato il proprio
orizzonte di identificazione. Occorre in questa fine di millennio ritrovare una
mentalità nomade; disponibilità al mutamento, al superamento di
qualsiasi confine territoriale, disponibilità a trascendersi per ritrovare il
senso originario dell'uomo che, prima di qualsiasi specificazione determinante,
è semplicemente umano.
Nella prospettiva 'mondialistica'
ciò significa ritrovare una
convivialità delle differenze, sinonimo di interdipendenza della
comunità umana nelle sue differenziazioni nazionali. Le singole nazioni non
possono più isolarsi in una sorta di autonomia autocratica e di autosufficienza
soddisfatta. Oggi abbiamo realizzato un'interdipendenza economica, spesso esercizio di
una cattiva interdipendenza. A questo proposito A. Papisca, dell'Università di
Padova, uno dei pionieri degli studi di nuovi modelli, suggerisce la distinzione tra
interdipendenza-situazione e interdipendenza-valore. Scrive:
"L'interdipendenza-situazione, nella sua attuale scomoda configurazione, deve
essere considerata come una condizione transitoria, come un insieme di circostanze
preliminari sulla via della pacificazione e della solidarietà
planetaria"... "L'interdipendenza-situazione, che gli stati più forti
e le multinazionali cercano di gestire come 'strategia dell'interdipendenza' o
'interdipendenza deliberata', eccita i peggiori istinti degli stati sovrani
nell'esercizio della prassi statualistica; le esigenze della governabilità,
della rapidità ed efficacia delle decisioni, dell'interesse nazionale, della
sicurezza nazionale prevalgono sull'esigenza della democrazia e della
solidarietà internazionale. Interdipendenza planetaria viene così a
significare più statualismo, più diplomazia, più egoismo,
più razionalismo mercantile, più raffinato sfruttamento delle risorse
altrui, diffusione di imperialismo...".
Si può sfuggire a questa
deformazione creando un nuovo ordine
internazionale democratico, fondato sulla cultura della complessità. Una
democrazia planetaria esige la tensione all'unificazione politica, sociale, giuridica,
oltre che economica. E questo significa che non può essere tollerata
l'ingiustizia verso i popoli più poveri. La coscienza della 'mondialità'
quale qui si è appena delineata, mette in discussione questo (dis-)ordine
economico per creare veri presupposti di pace. Tutto ciò mette in discussione
la stessa modernità e costringe a ripensare il concetto di 'politico' per
approdare gradualmente alla internazionalità come cultura dei diritti umani.
Scrive ancora Papisca: "La cultura della planetarietà è la cultura
dei diritti umani, cioè la consapevolezza di essere, in quanto individui e
gruppi associativi, soggetti internazionali anche dal punto di vista del diritto:
quindi legittimi anche formalmente a esercitare ruoli transnazionali. Il codice
internazionale dei diritti umani si pone alla base della cultura della
liberazione."... "La cultura della planetarietà è quindi
cultura della convivialità dei membri della famiglia umana... La cultura della
convivialità planetaria è, concretamente, esistenzialmente, assidersi
tutti alla mensa del patrimonio comune su un piede di pari dignità. La pari
dignità, sempre concretamente parlando, significa condivisione di bisogni umani
essenziali e il loro soddisfacimento solidaristico, a cominciare dai bisogni basilari
di coloro che sono in maggiore necessità".
Il percorso che abbiamo tentato ha
coinvolto problematiche molteplici, ma il senso
ultimo era di mostrare le possibilità implicite in una logica della differenza.
Ora, la logica della differenza intesa come 'grammatica e sintassi del pluralismo'
istituisce un'antropologia dialogica in cui ogni io è l'altro dell'altro e la
cui etica è l'accoglienza responsabile e benevolente.
Dobbiamo cominciare a pensare in
termini di integrazione nel rispetto delle
differenze, piuttosto che nel senso di identificazione appropriante. I1 riconoscimento
dell'altro come valore implica che ci si impegni in una importante opera di rispetto e
quindi di salvaguardia dei diritti di cui ogni uomo è portatore. Il rispetto
dei diritti deve avere a proprio fondamento questa affermazione di valore, che
significa anche asserire che l'altro, ogni altro, è concretamente ciò
che io non sono, ha certe qualità che io non ho. In termini radicali,
ciò vuol dire che il nostro essere in società non è dettato da
elementi più o meno casuali o banali, bensì indica un bisogno profondo
connaturato in ogni uomo. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri uomini per essere
veramente se stesso. Non possiamo non essere in relazione. Da quando nasce a quando
muore, l'uomo ha bisogno di essere inserito in una rete di relazioni che lo fanno
sentire vivo e partecipe. Tagliare la relazione equivale ad annullare l'uomo in
ciò che ha di più sacro e di più intimo. «Non è bene
che l'uomo sia solo».
Nella dialettica della differenza
dei sessi il principio relazionale è
basilare. In questo contesto sarebbe chiaramente un controsenso negare nuovamente le
differenze. È soltanto se Eva è veramente altra, diversa,
irriducibilmente diversa, che Adamo è veramente Adamo, per riprendere un
esempio da una tradizione culturale che accomuna gli appartenenti alle religioni del
Libro. Fuor di metafora, la relazione è autentica solo a condizione che
permanga la separazione tra i soggetti in relazione. In caso contrario non c'è
relazione, ma strumentalizzazione.
Credo che sia possibile allargare
questo discorso a ogni tipo di relazione
interpersonale. Naturalmente ciò significa affermare in maniera radicale il
valore che ogni essere umano ha, e che quindi nessuno può essere messo da parte
senza sentire ripetere-ora però come rimprovero-«non è bene che
l'uomo sia solo». Nel contesto della nostra cultura egocentrica, in cui vige il
principio dell'autonomia, bisogna cominciare a riaffermare con forza il principio
dell'interdipendenza. A tale scopo dobbiamo mettere in atto un movimento di
«decostruzione»-uno smontaggio del nostro abituale modo di pensare, per
educarci a pensare a partire dall'altro, per trasformare noi stessi in «persone
dialogali». Vedere il mondo, e prima di tutto me stesso e gli altri, a partire
dallo sguardo degli altri, è il compito urgente che ci si presenta se vogliamo
veramente trasformare la nostra cultura.
Dalla tolleranza alla convivialità
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