
Circolare
Assonime 10 maggio 2000, n. 34
"
Imposta
regionale sulle attività produttive dopo le modifiche introdotte dal decreto
legislativo 506/99"
Viene omesso il paragrafo n. 6, relativo alla
compilazione del modello IQ di dichiarazione IRAP.
Modifiche alla disciplina di determinazione della base imponibile:
considerazioni generali
1.1. Numerose e di varia natura sono le integrazioni e le correzioni apportate
dal citato Dlgs n. 506 del 1999 al Dlgs n. 446 del 1997. Tralasciando in
questa sede di dare conto delle modifiche che hanno interessato il Titolo III
del decreto (concernente le disposizioni sul «Riordino della disciplina dei
tributi locali»), va detto che l’intervento in materia di Irap ha avuto ad
oggetto, essenzialmente, le regole di determinazione della base imponibile
delle imprese in genere e la disciplina di applicazione dell’imposta
regionale per il cosiddetto «comparto pubblico».
Per quanto riguarda tale secondo filone d’intervento, ci limitiamo
semplicemente a ricordare che, oltre a una più puntuale definizione dei
soggetti passivi "pubblici" — ora individuati attraverso il
richiamo agli organi dello Stato e alle Amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29
(concernente norme in materia di pubblico impiego) — il Dlgs n. 506 ha
introdotto importanti modifiche in materia di aliquota.
In particolare, il comma 2 dell’articolo 16 del citato Dlgs n. 446 prevede
ora, in luogo delle diverse misure del prelievo per scaglioni e per tipologia
di emolumenti erogati, un’unica aliquota dell’8,5 per cento applicabile
indistintamente su tutti gli emolumenti e senza massimali. La nuova misura del
prelievo si è resa applicabile a partire dal 1º gennaio 2000 e riguarda, è
il caso di precisare, esclusivamente il valore della produzione derivante
dall’esercizio delle attività istituzionali, determinabile in base al
cosiddetto "sistema retributivo". Pertanto, qualora siano svolte
anche attività commerciali e venga esercitata l’opzione per
l’applicazione delle regole ordinarie, sulla quota di valore della
produzione ad esse imputabile continuerà ad applicarsi l’aliquota del 4,25
per cento; analogamente, in caso di esercizio di attività agricola nei limiti
dell’articolo 29 del Tuir, si renderà applicabile, sulla quota di base
imponibile a essa riferibile, l’aliquota ridotta del 1,9 per cento.
Concentrando lo sguardo sulle modifiche che hanno interessato le regole di
determinazione della base imponibile delle imprese, occorre preliminarmente
rilevare che solo alcune di esse rivestono portata sostanziale, determinando,
così, la tassazione di componenti positivi precedentemente esclusi ovvero la
deducibilità di componenti negativi prima irrilevanti o, per converso, la
indeducibilità di componenti negativi prima ammessi in deduzione.
Assumono tale valenza le disposizioni recate dal nuovo articolo 11-bis con le
quali, da un lato, è stata disposta l’attrazione nella base imponibile dei
ricavi di origine "fiscale" derivanti dalla destinazione dei beni di
magazzino a finalità estranee all’esercizio d’impresa o dalla loro
assegnazione ai soci e, dall’altro, è stata sancita la irrilevanza agli
effetti dell’Irap anche delle liberalità ammesse in deduzione ai fini delle
imposte sui redditi. Si tratta di norme, per così dire, di chiusura, volte
cioè ad affermare l’applicazione del prelievo, coerentemente con il
presupposto impositivo, anche nel caso in cui i beni oggetto dell’attività
non siano, per scelta dell’imprenditore, destinati al mercato e a rendere
irrilevante qualunque destinazione "improduttiva" del patrimonio
d’impresa. Analoga portata sostanziale assume, inoltre, la previsione
inserita nell’articolo 6 con la quale viene riconosciuta, con specifico
riguardo alle banche e agli altri enti finanziari, la deducibilità dalla base
imponibile degli accantonamenti ai fondi per rischi su crediti. In questo
caso, la modifica risponde all’opportunità di eliminare, in presenza di
componenti rilevanti per entrambe le discipline impositive, quali quelli
concernenti le vicende dei crediti alla clientela, possibili disarmonie nella
determinazione del valore della produzione assoggettabile ad Irap e del
reddito d’impresa assoggettabile ad Irpeg.
Tutte le altre modifiche introdotte dal Dlgs n. 506 del 1999 rispondono,
invece, all’esigenza di un riassetto formale della disciplina di
determinazione del valore della produzione delle imprese; ciò, nel duplice
intento di attuare un miglior coordinamento sistematico fra le varie
disposizioni e di consolidare nel testo di legge alcune delle soluzioni di
maggior rilievo adottate in via interpretativa dell’Amministrazione
finanziaria.
In particolare, ciò si è tradotto nella completa riformulazione
dell’articolo 5, che si occupa della determinazione del valore della
produzione netta delle imprese industriali e commerciali, e nella suddivisione
dell’articolo 11, relativo alle «disposizioni comuni», in due articoli
distinti: l’articolo 11, in versione riformulata, dedicato, per l’appunto,
alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione
netta» e l’articolo 11-bis — articolo, come accennato, di nuova
istituzione — dedicato alle «Variazioni fiscali del valore della produzione
netta».
Nel loro complesso, le apportate modifiche conferiscono maggior chiarezza e
organicità alla disciplina impositiva. Va, tuttavia, subito evidenziato che
il provvedimento in esame non ha accolto cambiamenti nei meccanismi di
determinazione della base imponibile che pure erano stati auspicati,
soprattutto in fuzione di una maggior semplificazione della disciplina, anche
dalla stessa Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma
tributaria. Ciò sembra imputabile non a una scelta del legislatore di
disattendere tali richieste, quanto piuttosto alla constatata impossibilità,
stanti i limiti posti dal richiamato articolo 17, comma 3, della legge n. 662
del 1997, di operare interventi correttivi ed integrativi non in linea con gli
originari principi e criteri direttivi di delega.
È importante ricordare che le problematiche concernenti l’applicazione del
tributo nei confronti delle società di capitali e delle imprese in genere
sono derivate principalmente, se non esclusivamente, dalla originaria scelta
della legge di delega di individuare gli elementi positivi e negativi
rilevanti ai fini del tributo attraverso il diretto riferimento a specifiche
voci di conto economico ritenute espressive del valore della produzione
"corrente". Di qui, la necessità di utilizzare, per la
"selezione" di tali elementi, i criteri di classificazione valevoli
per le rappresentazioni di bilancio.
In considerazione di tale diretta influenza delle appostazioni contabili sul
regime impositivo — vale a dire, del fatto che dalla collocazione di un
determinato componente in una o in altra voce del conto economico potesse
dipendere l’esistenza stessa della base imponibile e della correlata capacità
contributiva — il legislatore aveva avvertito la necessità di fissare, con
l’apposita previsione recata dal comma 2 del previgente articolo 11, la
regola per cui «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, le
componenti positive e negative sono accertate in ragione della loro
classificazione secondo corretti principi contabili». Ed è sulla base di
tale previsione che lo stesso ministero delle Finanze ha ritenuto opportuno
fare, a questi fini, specifico riferimento ai criteri di classificazione dei
costi e dei ricavi indicati nel documento integrativo al Principio contabile
n. 12 del Consiglio nazionale dei ragioneri e dottori commercialisti.
Senonché, in sede di concreta applicazione della disciplina impositiva,
l’automatica assunzione delle classificazioni di bilancio ha fatto emergere
alcuni effetti non pienamente compatibili con il presupposto impositivo e
anche idonei a generare fenomeni di cosiddetto «terzo binario» (concernenti,
cioè, divergenze tra valori fiscali ai fini Irap e valori fiscali ai fini
Irpeg); ponendo, così, in evidenza l’aspetto di maggior criticità insito
nella originaria scelta operata dal legislatore. Si ricordereranno, a questo
proposito, le problematiche relative, ad esempio, al trattamento delle
sopravvenienze in genere e delle rivalutazioni "straordinarie" dei
beni di magazzino che, in quanto classificabili in voci di conto economico non
rilevanti ai fini Irap, avrebbero dato luogo a possibili salti o duplicazioni
d’imposta. Ed è opportuno sottolineare come tale ordine di problemi non
nascesse, evidentemente, da una presunta "non correttezza" di tali
appostazioni contabili, ma, più semplicemente, dalla circostanza che, dovendo
le classificazioni di bilancio rispondere ad altre finalità rappresentative,
non sempre le stesse possono risultare coerenti con la determinazione della
base imponibile Irap e, quindi, con il "ruolo" ad esse assegnato in
tale specifico ambito della disciplina fiscale.
Da tali problematiche sono scaturiti interventi correttivi volti ad attrarre
nella formazione della base imponibile anche voci correttamente classificate
nel conto economico al di fuori delle entrate e delle spese correnti e,
tuttavia, in vario modo correlate al «valore della produzione», considerato
l’aggregato rilevante ai fini della determinazione del prelievo impositivo.
È restato però sullo sfondo il tratto peculiare della originaria
impostazione legislativa: la circostanza, cioè, che, in linea generale,
l’assunzione delle voci rappresentative delle entrate e spese
"correnti" e la distinzione di esse dalle restanti voci non
concorrenti alla formazione della base imponibile del tributo dipende pur
sempre da criteri classificatori non definiti dal legislatore fiscale, ma
rimessi alla disciplina civilistica e contabile del bilancio.
In tale delineato contesto, occorre inquadrare l’intervento che sullo
specifico punto ha operato il Dlgs n. 506. Intendiamo riferirci, in
particolare, alla modifica che ha riguardato proprio la disposizione contenuta
nel richiamato comma 2 del previgente articolo 11, di cui, per ragioni
espositive, è opportuno anticipare l’esame.
Nella sua originaria versione, si è visto, la norma poneva riferimento alla
classificazione dei componenti positivi e negativi «... secondo corretti
principi contabili». A seguito della modifica operata dal Dlgs n. 506, la
norma — ora collocata nel comma 4 del riformulato articolo 11 — prevede,
invece, che «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, i
componenti positivi e negativi sono accertati in ragione della loro corretta
classificazione».
Nella relazione di accompagnamento si osserva che con tale modifica si è
inteso chiarire che i principi contabili cui le parti del rapporto tributario
devono far riferimento sono quelli astrattamente idonei ad
"informare" una corretta redazione del bilancio. Da più parti,
peraltro, sono state avanzate perplessità su questa modifica, nel timore che
la stessa potrebbe privare la disciplina dell’Irap di riferimenti obiettivi
— quali quelli desumibili, specificamente, dal citato documento integrativo
del principio contabile nazionale n. 12 — idonei a dare certezze nel
delicato tema delle classificazioni.
In effetti, i principi elaborati dal Consiglio nazionale dei ragionieri e dei
dottori commercialisti hanno da sempre fornito un valido supporto per la
determinazione del reddito d’impresa; a maggior ragione questa funzione essi
esplicano, per ovvi motivi, nella identificazione della base imponibile del
tributo regionale, in considerazione della rilevanza che gli stessi rivestono
nella redazione del bilancio. È chiaro, tuttavia, che ad essi non può essere
assegnata valenza normativa, neanche di fonte secondaria. Ed è in questo
senso che, probabilmente, vanno intese le indicazioni poste dal decreto
legislativo in esame. Al riguardo, giova rilevare ancora una volta, la base
imponibile dell’Irap trae diretta origine, per espressa scelta del
legislatore delegante, dalle classificazioni di bilancio, alle quali deve,
pertanto, adeguarsi; nella «subiecta materia», dunque, il valore dei
principi contabili redatti dagli organi professionali non può essere diverso
da quello che essi assumono per la redazione del bilancio stesso. In questo
senso, evidentemente, la disciplina dell’Irap non potrebbe interferire sul
rapporto di tali principi con il bilancio né tantomeno modificarlo, ma solo
assumerlo agli effetti dell’applicazione del tributo così come esso si
esplica nell’ambito della disciplina civilistica. Il problema in
discussione, dunque, attiene alla struttura di fondo dell’Irap, alla sua
colleganza con il bilancio e in particolare con talune voci del conto
economico espressamente indicate dalla norma, le quali vanno individuate
applicando — e, quindi, non alterando — i "corretti" criteri che
presiedono alla redazione del bilancio stesso.
Venendo a profili più strettamente operativi, osserviamo che comunque
l’intervento normativo non ha prodotto mutamenti rilevanti del quadro di
riferimento. Va anzi osservato che il problema stesso delle classificazioni è
venuto sensibilmente ad attenuarsi, oltre che per effetto delle modifiche
apportate dai precedenti interventi correttivi, proprio in virtù delle altre
innovazioni introdotte dal decreto in commento. Riguardo, infatti, alle
imprese industriali e commerciali, per le quali questo tema è particolarmente
avvertito, la riformulazione dell’articolo 5 del Dlgs n. 446 elimina alcune
incertezze sulla identificazione delle voci del conto economico da assumere
nel valore della produzione. Fermo restando, inoltre, che i principi contabili
espressi dai dottori commercialisti e dai ragionieri, se pur non aventi
valenza normativa, costituiscono un ausilio interpretativo e applicativo della
disciplina codicistica del bilancio di comune accettazione e come tale,
quindi, oggettivamente utilizzabile tanto dai contribuenti che
dall’Amministrazione finanziaria. Del resto, non può essere privo di
significato il fatto che molte delle interpretazioni fornite dal ministero
delle Finanze in questa prima fase di applicazione del tributo —
interpretazioni che hanno, poi, ispirato i vari interventi correttivi,
compreso come vedremo anche quello in esame — sono state adottate proprio in
relazione alle indicazioni classificatorie delle poste del conto economico
contenute, come detto, nel documento integrativo del citato principio
contabile n. 12.
Determinazione del
valore della produzione delle imprese industriali e commerciali in genere
2.1. Come si è già avuto modo di rilevare, delle modifiche apportate dal
richiamato Dlgs n. 506 del 1999 alla disciplina di determinazione della base
imponibile delle società di capitali e delle imprese in genere solo alcune
assumono reale portata innovativa. La riformulazione delle disposizioni
contenute negli articoli 5 e 11 del Dlgs n. 446 del 1997 rende, peraltro,
opportuno procedere a un riesame completo del quadro normativo, al fine di
evidenziare anche le disposizioni che pur essendo di nuova introduzione
risultano tuttavia conformi a soluzioni già desumibili, ancorché in via
interpretativa, nel precedente assetto. Va osservato, infatti, che ai fini
della decorrenza, l’articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 506 in esame non opera
alcuna distinzione tra disposizioni innovative e non, limitandosi
semplicemente a stabilire che tutte le modificazioni — ad eccezione di
quelle riguardanti la fissazione della misura dell’aliquota per il comparto
pubblico, operanti, come detto, a partire dal 1º gennaio 2000 — si
applicano dal periodo d’imposta «...in corso alla data di emanazione...»
del provvedimento; data che, sembra il caso di precisare, coincide con quella
della firma del decreto legislativo da parte del Presidente della Repubblica,
apposta, nella specie, il giorno 30 dicembre 1999.
2.2. Per quanto riguarda l’articolo 5 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente
l’individuazione delle componenti contabili rilevanti ai fini del valore
della produzione delle imprese industriali e commerciali, le modifiche
consistono nella riformulazione del comma 1 e nella soppressione del comma 2.
Per effetto di tale intervento, dunque, la norma risulta ora composta da un
Unico comma il quale dispone che per i suddetti soggetti «... la base
imponibile è determinata dalla differenza tra la somma delle voci
classificabili nel valore della produzione di cui alla lettera a),
dell’articolo 2425 del codice civile e la somma di quelle classificabili nei
costi della produzione di cui alla lettera b) del medesimo comma, ad
esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente».
La trascritta formula normativa si differenzia rispetto a quella previgente
essenzialmente per tre aspetti: per il riferimento, nell’individuazione dei
componenti negativi rilevanti ai fini della determinazione della base
imponibile, a tutti i costi della produzione classificabili nella lettera b)
del citato comma 1 dell’articolo 2425 del codice civile e non più, quindi,
a specifiche voci tassativamente elencate; per l’esclusione esplicita, dal
novero di tali componenti, dei costi relativi al «fattore lavoro», prima
affermata, invece, in forma implicita attraverso la non inclusione della voce
B9 nell’elenco tassativo contenuto nella precedente versione della norma;
infine, per la previsione dell’esclusione delle perdite su crediti che, si
ricorderà, era in precedenza contenuta fra le disposizioni comuni
dell’articolo 11.
In linea generale, la finalità dell’intervento è di rendere più agevole,
soprattutto sotto il profilo metodologico, la individuazione del valore della
produzione netta. Nella precedente formulazione la norma imponeva, come
accennato, di considerare algebricamente oltre a tutte le voci della lettera
a) del conto economico, solo alcune delle voci della lettera b) appositamente
individuate dalla norma stessa; comportando, quindi, per gli operatori la
necessità di affrontare varie questioni interpretative sulla portata della
esclusione di talune voci ovvero dell’inclusione di talune altre e sulla
esatta classificazione dei componenti economici all’interno delle une e
delle altre. È chiaro, dunque, che l’assunzione, nella nuova formulazione,
di tutte le voci di conto economico relative alla lettera b), elimina sotto
questo profilo ogni questione. Ciò non significa, però, che sia stata
operata una sostanziale modifica della determinazione della base imponibile;
la disposizione, come la stessa relazione chiarisce, non ha questi effetti se
non per alcuni aspetti limitati e di sistema che esamineremo in dettaglio nei
prossimi paragrafi. Infatti, la riconducibilità, in linea generale, nel
valore della produzione degli stessi componenti negativi che fino ad oggi
hanno assunto rilievo a questi fini, è assicurata per altra via: ad opera,
innanzitutto, della prescrizione, contenuta nel medesimo articolo 5, secondo
cui non concorrono, comunque, nel valore della produzione le perdite su
crediti e le spese per il personale dipendente e, inoltre, dell’applicazione
del principio di fondo contenuto nel nuovo articolo 11-bis — peraltro,
recepito dal preesistente articolo 11 — secondo cui i componenti tratti
dalla contabilità per formare il valore della produzione vanno rideterminati
apportando ad essi «le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai
fini delle imposte sui redditi».
Quanto alla prevista irrilevanza delle perdite su crediti e delle spese del
personale, è questa evidentemente una previsione di carattere sostanziale che
ha il fine di escludere "tout court" — in coerenza con una scelta
di fondo già assunta nei precedenti provvedimenti — i componenti negativi
di siffatta natura quali che siano le modalità con cui essi risultino
imputati nel conto economico; e cioè — come si legge nella stessa relazione
accompagnatoria — sia che la loro imputazione avvenga attraverso voci che
esprimono la definitività delle perdite e delle spese stesse sia che, a
maggior ragione, venga realizzata per il tramite di altre poste meramente
valutative della loro sussistenza, quali l’accantonamento a fondi o lo
stanziamento di svalutazioni.
In merito, poi, alla rideterminazione delle voci della lettera B del conto
economico con i criteri valevoli ai fini delle imposte sul reddito, è noto
che questi criteri si fondano sul principio di negare rilevanza, in linea
generale, agli accantonamenti e alle svalutazioni con eccezione di talune
poste espressamente individuate dalla stessa norma ed entro limiti
appositamente stabiliti. Questo assetto, si ricorda, già per effetto del Dlgs
n. 137 del 1998 era stato recepito anche nella disciplina dell’Irap. Sicché,
è apparso opportuno intervenire sull’articolo 5 nella parte in cui
escludeva indiscriminatamente tutti i fondi e le svalutazioni dal concorso
alla formazione della base imponibile; esclusione — chiarisce la relazione
— superflua ed in un certo senso fuorviante, dato che nell’articolo 11,
così come riformulato dallo stesso Dlgs n. 137 del 1998, la materia veniva
riconsiderata nell’ottica — come detto — della disciplina delle imposte
sui redditi.
Resta da aggiungere, a completamento dell’illustrazione dell’intervento
operato dal Dlgs n. 506, che la disposizione in precedenza contenuta nella
lettera a) dell’articolo 11 — volta ad attrarre in ambito Irap «...i
componenti positivi e negativi, conseguiti o sostenuti in periodi d’imposta
anteriori a quello in corso alla data di entrata in vigore...» dell’imposta
regionale e «... la cui imputazione sia stata rinviata in applicazione delle
norme del predetto testo Unico...» — è stata espunta dalla disciplina
"a regime" contenuta nel Dlgs n. 446 e inserita, in coerenza con il
suo carattere meramente transitorio, nel comma 2 dell’articolo 1 dello
stesso decreto correttivo n. 506 in esame.
2.3.Dalle considerazioni che precedono, emerge dunque che la riformulazione
dell’articolo 5 non determina conseguenze sostanziali in ordine al
trattamento dei costi classificabili nelle voci della lettera b) del conto
economico non menzionate nella precedente versione della norma: si tratta, è
il caso di ricordare, delle altre svalutazioni delle immobilizzazioni (di cui
alla lettera c della voce B10), delle svalutazioni dei crediti compresi
nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide (di cui alla lettera d
della stessa voce B10) e, inoltre, di tutti gli accantonamenti per rischi e
oneri (di cui alle voci B12 e B13).
Non sembra superfluo riverificare in concreto tale affermazione di principio
in relazione a ciascuna delle suindicate voci, anche al fine di porre in
evidenza alcune ulteriori implicazioni sistematiche del nuovo assetto
normativo.
Partendo dalla prima delle voci di costo in considerazione, vale a dire dalle
altre svalutazioni delle immobilizzazioni classificabili nella voce B10,
lettera c) del conto economico, non dovrebbero sussistere dubbi sulla
invarianza di trattamento, posto che con riferimento ai beni strumentali
materiali e immateriali la disciplina del reddito d’impresa non ammette, in
via di principio, rettifiche di valore diverse da quelle deducibili a titolo
di ammortamento secondo le disposizioni dettate agli articoli 68 e 69 del Tuir
e normalmente classificabili nelle precedenti lettera a) e b) della stessa
voce B10 del conto economico.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, ancorché il discorso risulti più
articolato, in riferimento agli accantonamenti per rischi e oneri e alle
svalutazioni dei crediti del circolante (e delle disponibilità liquide).
Invero, proprio con riguardo agli accantonamenti per rischi e oneri —
escluso, sulla base del richiamato principio generale, che possano risultare
rilevanti ai fini dell’Irap accantonamenti diversi da quelli ammessi in
deduzione ai fini dell’Irpeg (o dell’Irpef) — occorre ricordare che già
nel previgente assetto normativo era stata espressamente sancita la
deducibilità anche ai fini dell’Irap di alcuni accantonamenti previsti dal
Tuir nella determinazione del reddito d’impresa. Si trattava, in
particolare: degli accantonamenti relativi alle indennità per la cessazione
dei rapporti di agenzia (di cui all’articolo 70, comma 3, del Tuir), degli
accantonamenti effettuati a fronte delle spese per lavori ciclici di
manutenzione e revisione delle navi e aeromobili (di cui all’articolo 73,
comma 1), degli accantonamenti effettuati dalle imprese concessionarie della
costruzione ed esercizio di opere pubbliche a fronte delle spese di ripristino
o sostituzione dei beni gratuitamente devolvibili (di cui al comma 2 dello
stesso articolo 73) e, infine, degli accantonamenti per oneri derivanti da
operazioni a premio e da concorsi a premio (di cui al comma 3 del citato
articolo 73 del Tuir). Per questi accantonamenti, dunque, nulla cambia; se non
la circostanza che la loro rilevanza agli effetti dell’Irap non è più
sancita da una norma "ad hoc" — il comma 1-bis del previgente
articolo 11, ora soppresso in ragione della superfluità, nel nuovo contesto
normativo, del suo contenuto — ma discende direttamente dal combinato
disposto degli articoli 5 e 11-bis.
Il problema, quindi, che la nuova formulazione dell’articolo 5 viene a
porre, potrebbe riguardare in definitiva solo gli altri accantonamenti ammessi
in deduzione dal reddito d’impresa. Senonché, per quanto attiene,
anzitutto, agli accantonamenti al fondo rischi su crediti di cui
all’articolo 71 del Tuir, deve ritenersi che la conferma della loro
irrilevanza anche nel nuovo assetto normativo discenda implicitamente dalla
esclusione, sancita come si è visto dallo stesso articolo5, delle perdite su
crediti dal novero dei componenti negativi del conto economico rilevanti ai
fini dell’Irap. A questo riguardo, nella relazione di accompagnamento al
Dlgs n. 506 viene, infatti, ribadito che la scelta di negare rilevanza alle
perdite su crediti assume «… portata sostanziale, nel senso che tali
perdite — in considerazione del fatto che esse rappresentano un fenomeno
successivo alla produzione — non partecipano alla formazione della base
imponibile vuoi se imputate al conto economico in via meramente estimativa
attraverso accantonamenti o svalutazioni dei crediti (voci B10, lettera d) e
B12), vuoi se ivi rilevate a seguito di realizzi definitivi (voce B14)». Tale
impostazione — che, è il caso di sottolineare, trova conferma nelle
istruzioni ai quadri IQ — appare in effetti coerente: una volta esclusa la
rilevanza delle perdite subite a titolo definitivo sarebbe, infatti, illogico
sul piano sostanziale ammettere la deducibilità delle perdite meramente
probabili, quale che siano le modalità di rappresentazione contabile adottate
(fondo o svalutazione diretta). Ciò rilevato, è noto che la scelta di fondo
di trattare le vicende dei crediti del circolante alla stregua di vicende non
idonee ad influenzare la determinazione della base imponibile, ha formato
oggetto di rilievi critici anche da parte della Commissione parlamentare
consultiva in materia di riforma tributaria. Comunque, riterremmo che
l’irrilevanza delle perdite su crediti non dovrebbe interferire, stante la
mancanza di un’esplicita previsione in tal senso, con la deducibilità dei
premi assicurativi pagati dall’impresa in relazione a crediti assicurati; si
tratterebbe, infatti, di costi relativi all’acquisizione di un servizio
classificabili in una voce di conto economico diversa da quelle destinate a
ospitare le perdite definitive o semplicemente stimate dei crediti stessi.
Ugualmente esclusi dai componenti negativi rilevanti ai fini dell’Irap
devono ritenersi anche gli altri accantonamenti che pure sono ammessi in
deduzione ai fini delle imposte sui redditi. In particolare, l’esclusione
degli accantonamenti al fondo oscillazione cambi, di cui all’articolo72 del
Tuir, deriva dal fatto che si è in presenza di un costo che secondo i criteri
di classificazione adottati dagli stessi principi contabili nazionali non
sarebbe neanche iscrivibile nella voce B12 del conto economico, bensì nella
voce C16 fra gli altri oneri finanziari e, quindi, non inerente alla
determinazione del valore della produzione.
Considerazioni analoghe conducono, senz’altro, ad escludere la rilevanza
agli effetti dell’Irap anche degli accantonamenti relativi alle indennità
di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente , di cui
all’articolo70, comma 1, del Tuir. Infatti, ai fini della individuazione
delle spese per il personale dipendente, escluse dal nuovo testo
dell’articolo5 dai componenti negativi deducibili, il successivo articolo11,
come vedremo, opera espresso riferimento ai «costi relativi al personale,
classificabili nell’articolo 2425, primo comma, lettera B), numeri 9 e 14»,
fra i quali rientrano, secondo l’impostazione dei principi contabili
nazionali, i suddetti accantonamenti (in particolare, classificabili nelle
lettera c) e d) della voce B9).
2.4. Chiarito, dunque, che dall’avvenuto ampliamento delle voci di costo
potenzialmente rilevanti ai fini dell’Irap non discendono, in via di
principio, conseguenze sostanziali, è il caso, tuttavia, di evidenziare che
il nuovo assetto normativo ha il pregio di eliminare alcuni dubbi
interpretativi sorti in precedenza per il trattamento di specifici elementi di
costo proprio in ragione dei loro criteri di classificabilità.
Intendiamo riferirci, in particolare, alle problematiche concernenti il
trattamento agli effetti dell’Irap degli ammortamenti relativi ai beni
strumentali ricompresi nei contratti di affitto o usufrutto d’azienda.
Si ricorderà, in proposito, che nella circolare n. 141/E del 1998 (cfr. il
par. 3.2.1.3.3.) il ministero delle finanze, muovendo dall’asserita
classificabilità — secondo i criteri indicati dal richiamato documento
integrativo dei principi contabili nazionali — degli ammortamenti relativi
ai cespiti dell’azienda condotta in affitto o in usufrutto nella voce B13
del conto economico, ritenne di non poter riconoscere tali costi in deduzione
dall’Irap.
Nella nostra circolare n. 52 del 1998 (cfr. il par. 3.10), avemmo modo di
esprimere alcune perplessità sulla fondatezza dell’affermazione
ministeriale; tanto da ipotizzare la possibilità che il ministero intendesse,
in effetti, riferirsi, più precisamente, ai fondi costituiti dal conduttore
(affittuario-usufruttuario) per il rinnovo, in corso di contratto, dei cespiti
aziendali ovvero per l’effettuazione di opere di manutenzione straordinaria.
D’altra parte, ove riferita agli ammortamenti in senso tecnico — che, in
quanto tali, sono idonei ad abbattere il costo fiscale dei cespiti cui si
correlano — la soluzione ministeriale sul punto sarebbe risultata
inconciliabile con la regola di carattere generale, introdotta dal Dlgs n. 176
del 1999 con effetto già per il periodo d’imposta 1998, secondo cui a
prescindere dalla collocazione nel conto economico concorrono comunque a
formare il valore della produzione gli oneri (e i proventi) correlati a
componenti positivi o negativi rilevanti ai fini del valore della produzione
di periodi d’imposta precedenti o successivi. Invero, anche muovendo dal
presupposto, tutt’altro che pacifico, della classificabilità degli
ammortamenti in questione nella voce B13 anziché nella voce B10, gli stessi
avrebbero dovuto ugualmente rilevare ai fini dell’Irap proprio perché «collegati»
al costo fiscale dei beni assunti in carico dal conduttore
(affittuario-usufruttuario) e, quindi, correlati a eventuali componenti
imponibili (plusvalenze o minusvalenze) che tali beni possono generare.
Comunque, il nuovo assetto normativo elimina, ove ve ne fosse bisogno, ogni
residua incertezza sulla questione. In ragione, tuttavia, dell’importanza
che il tema riveste, sia agli effetti delle rappresentazioni di bilancio sia
agli effetti della disciplina fiscale in genere, riteniamo opportuno, di
seguito, esprimere più compiutamente il nostro pensiero.
Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare che la regola posta
dall’articolo 67, comma 9, del Tuir, la quale individua nel conduttore
(usufruttuario o affittuario) l’imprenditore abilitato a dedurre gli
ammortamenti, non sottende finalità, per così dire, agevolative; essa,
piuttosto, fissa un criterio per adeguare la determinazione del reddito
imponibile all’utile economico effettivo dell’impresa condotta in affitto
(o in usufrutto); ciò, nel presupposto che lo stanziamento delle quote di
ammortamento nelle scritture contabili del conduttore sia una diretta
conseguenza della natura e degli effetti civilistici del contratto. Riprova ne
è che l’articolo 14, comma 2, del Dpr 4 febbraio 1988, n. 42, recante
disposizioni correttive e di coordinamento del Tuir, stabilisce espressamente
che la ricordata regola non si applica «… nei casi di deroga convenzionale
alle norme dell’articolo2561 del codice civile, concernenti l’obbligo di
conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili».
Ciò premesso, occorre riconoscere che sotto il profilo civilistico il tema
dell’iscrizione di questi beni nell’impresa del conduttore e del loro
ammortamento ha, da sempre, generato incertezze. In ossequio, infatti, ad una
meccanica applicazione del principio tradizionale, secondo cui non potrebbero
trovare rappresentazione nello stato patrimoniale i beni che non sono di
proprietà dell’imprenditore — e che quindi non sono avocabili dai
creditori in occasione di un suo eventuale fallimento — la prassi contabile
si è indirizzata nel senso di provvedere all’iscrizione di tali cespiti nei
conti d’ordine del bilancio dell’impresa dell’affittuario o
usufruttuario. Al contrario, la migliore dottrina civilistica, cui riteniamo
di dover aderire, afferma che anche tali beni vanno iscritti nel patrimonio
dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario proprio in virtù dei
poteri-doveri contrattuali che questi assume; poteri-doveri che (ove,
beninteso, non derogati dalle parti) trascendono quelli di un normale
usufrutto o affitto di singoli beni, esplicandosi — come accennato —
nell’assunzione da parte del conduttore della posizione di gestore
dell’azienda nell’interesse e nelle veci del proprietario e, quindi,
nell’assunzione di analogo dominio sui singoli cespiti per mantenere
l’efficienza produttiva della azienda stessa, quale «universitas».
D’altra parte, nessuno dubita che l’usufruttuario (o affittuario) può e
deve disporre, ad esempio, delle merci al fine di realizzare i correlati
ricavi e che, pertanto, per misurare esattamente l’utile deve contrapporre
ai ricavi i costi di tali merci iscrivendole fra i propri cespiti aziendali.
Così come non suscita incertezze il fatto che fra tali cespiti vadano
iscritti i beni immessi nell’azienda dallo stesso conduttore tanto in
sostituzione delle scorte cedute quanto delle immobilizzazioni dismesse. In
quest’ottica, anche l’iscrizione nel patrimonio aziendale — come taluni
propongono — solo dei beni sostituiti e il mantenimento nei conti d’ordine
di quelli originari ancora presenti nella azienda «affittata» (o concessa in
usufrutto) suscita notevoli riserve. E’ pacifico, infatti, in giurisprudenza
e in dottrina civile, che, salvo patto contrario, sui beni sostituiti si
instauri fin dal momento dell’acquisto l’identica situazione giuridica
esistente sui beni originari successivamente dismessi: e cioè, il diritto di
proprietà del locatore (o la nuda proprietà del concedente in caso di
usufrutto) e il potere-dovere gestorio dell’affittuario o usufruttuario.
Quindi, la descritta impostazione contabile finirebbe per rappresentare i
componenti di un’unica azienda, e per di più sottoposti alla medesima
situazione giuridica, parte nello stato patrimoniale e parte nei conti
d’ordine del bilancio dell’affittuario (o usufruttuario).
In definitiva, l’iscrizione degli uni e degli altri nella contabilità
dell’imprenditore-conduttore (o usufruttuario) verrebbe a realizzare la
rappresentazione omogenea e coerente di un patrimonio avente, per il tempo
contrattuale, identica natura e destinazione: un patrimonio, cioè,
disponibile per l’affittuario (usufruttuario) e, viceversa, indisponibile
per il proprietario ma che, al contempo, esprime un debito di restituzione del
primo nei confronti del secondo al termine del rapporto.
Sott’altro profilo, e in via più generale, non può non osservarsi che per
la corretta determinazione degli utili di gestione occorre necessariamente
detrarre gli ammortamenti conseguenti al deperimento e al logorio degli
elementi aziendali: è questo un principio che ha assunto carattere normativo
generale per tutti gli imprenditori che esercitino l’attività mediante
aziende in proprietà, in virtù dell’applicazione delle norme sui bilanci
delle società per azioni e che — secondo la migliore dottrina — deve
conseguire analoga forza normativa anche in relazione alle ipotesi di
usufrutto o affitto d’azienda, posto che anche in tali ambiti contrattuali i
beni aziendali vanno computati alla fine del rapporto concessorio nello stato
anche di logorio in cui si trovano per misurare i debiti e i crediti reciproci
fra le parti. In conclusione, l’ammortamento, quale tipico strumento di
conservazione dell’integrità del patrimonio aziendale e di individuazione,
per differenza, degli accrescimenti costituenti utili effettivi, è un
principio portante del bilancio dell’impresa e tanto più essenziale, nel
rapporto di affitto o usufrutto di azienda, in quanto dà conto con criteri di
competenza durante lo svolgimento del rapporto concessorio, degli obblighi di
restituzione facenti capo all’usufruttuario o affittuario.
Ovviamente, è utile ribadire, l’ammortamento non compete
all’usufruttuario o affittuario dell’azienda quando le parti hanno
derogato all’obbligo di mantenere in efficienza i beni ammortizzabili; di
conseguenza, non spettando ai fini civilistici, esso non può trovare
riconoscimento — come già accennato — neanche ai fini tributari, giusta
la citata disposizione dell’articolo14, comma 2, del Dpr n. 42 del 1988. Al
riguardo, è appena il caso di segnalare che la volontà delle parti va
ricostruita in base a tutti gli elementi contrattuali. Non sarebbe, ad
esempio, di per sé sufficiente, perché l’ammortamento spetti
all’usufruttuario o affittuario, che questi abbia assunto esclusivamente
l’onere della manutenzione dei cespiti aziendali, essendo una tale
incombenza insita naturalmente nel rapporto concessorio. Occorre acclarare,
invece, che i poteri-doveri gestori siano stati trasferiti in misura piena
all’usufruttuario o affittuario: in particolare, sia stato trasferito a tale
soggetto il potere-dovere di decidere anche la cessione o la sostituzione dei
cespiti in parola nell’interesse più generale della conservazione
dell’integrità del patrimonio aziendale nel suo insieme e,
conseguentemente, il rischio del deterioramento tecnico-fisico dei cespiti
stessi, cui si correla, per l’appunto, lo stanziamento dell’ammortamento.
Per motivi di completezza, giova accennare infine anche ad un altro profilo
del contratto di affitto o usufrutto di azienda, parallelo alle tematiche fin
qui esaminate.
Intendiamo riferirci al fatto che, secondo la dottrina civilistica, le
scritture contabili relative alla azienda gestita dovrebbero essere redatte
dall’usufruttuario o affittuario conformemente all’inventario di consegna
dell’azienda nel quale i beni aziendali dovrebbero essere rilevati, ai fini
civilistici, al loro valore attuale al momento della consegna stessa (e non ai
costi storici dell’imprenditore-concedente): ciò, in funzione
dell’esecuzione in futuro degli obblighi di restituzione assunti
dall’affittuario o usufruttuario per la conclusione del rapporto.
Ai fini fiscali, viceversa, la norma sancisce, come è noto, il principio di
continuità dei valori dei beni assunti con quelli esistenti presso
l’impresa del concedente (cfr. citato articolo14 del Dpr 42 del 1988). Vi è,
quindi, una non perfetta coincidenza fra questi regimi che suscita taluni
inconvenienti. Manca, in altri termini, nella disciplina fiscale la possibilità
di rilevare per competenza l’intero ammontare del debito di valore che
l’imprenditore-concessionario viene ad assumere con l’instaurazione del
rapporto di affitto o di usufrutto e conseguentemente di correlare il relativo
maggior onere ai redditi prodotti nel periodo di svolgimento del rapporto
medesimo. Stante il delineato assetto normativo, sembrerebbe logico che queste
differenze assumano rilievo fiscale per l’affittuario o l’usufruttuario a
chiusura della relazione contrattuale, analogamente agli eventuali conguagli
attivi e passivi che le parti regolino in denaro ai sensi del più volte
citato articolo2561 del codice civile.
Determinazione del valore della produzione delle banche e degli altri
soggetti finanziari.
3.1. L’articolo 6 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente la determinazione
del valore della produzione delle banche e degli altri soggetti finanziari è
stato interessato da tre modifiche. A finalità di mero coordinamento formale
risponde l’eliminazione, nel comma 1-bis della norma, delle parole «, comma
1,»; talché, il citato comma 1-bis, che riguarda specificamente il regime
delle c.d. «holdings industriali», rinvia ora semplicemente ai criteri del
precedente articolo5 (essendo detto articolo ormai composto, come si è visto,
di un unico comma).
Carattere sostanziale assume, invece, la modifica recata alla lettera n) del
comma 1 dell’articolo in oggetto, che ha integrato l’elenco dei componenti
negativi ammessi in deduzione, includendovi anche gli «accantonamenti per
rischi su crediti, compresi quelli per interessi di mora».
La modifica, si è già avuto modo di osservare, non è ispirata da intenti
agevolativi, ma dall’esigenza di eliminare una causa di disallineamento fra
base imponibile Irap e base imponibile Irpeg. Ed invero, come evidenziato
nella citata relazione al decreto correttivo in esame, per le banche e gli
altri soggetti finanziari cui si applica il comma 1 dell’articolo6, «… le
perdite su crediti sono una componente rilevante ai fini Irap, così come
rilevanti sono le svalutazioni su crediti che costituiscono un’imputazione
anticipata ed estimativa di tali perdite …»; conseguentemente, prosegue la
relazione, «il mancato riconoscimento degli accantonamenti ai fondi rischi
(che hanno natura estimativa analoga alle svalutazioni) costituiva un fenomeno
di «terzo binario» rispetto alle risultanze contabili e alla determinazione
dell’imponibile ai fini della determinazione del reddito privo di
giustificazioni …».
Il riconoscimento in deduzione degli accantonamenti della specie, produce
effetti — come già ricordato — a decorrere dal periodo d’imposta in
corso al 30 dicembre 1999, oggetto, di regola, della presente dichiarazione.
All’uopo, nella sezione seconda del quadro IQ del modello unico delle società
di capitali e degli enti equiparati è stato previsto l’inserimento di un
nuovo rigo IQ27 nel quale, appunto, dovrà essere data indicazione degli
accantonamenti della specie operati in bilancio e della quota deducibile.
Naturalmente, è appena il caso di accennare, in coerenza con le finalità
della modifica e nel rispetto, del resto, del principio generale cui si è
fatto cenno in precedenza a commento delle modifiche all’articolo 5, gli
accantonamenti ai fondi rischi su crediti si renderanno deducibili agli
effetti dell’Irap negli stessi limiti e alle stesse condizioni previste ai
fini della determinazione del reddito d’impresa e, in particolare, secondo
le regole dettate dall’articolo 71, commi da 3 a 6, del Tuir.
Proprio tenendo presenti le soluzioni che si rendono applicabili ai fini del
reddito d’impresa, vanno risolti i problemi di ordine transitorio che
possono prospettarsi con riferimento al periodo d’imposta oggetto della
presente dichiarazione in caso di utilizzo, per la copertura di perdite o
svalutazioni, di fondi stanziati in periodi precedenti. Problemi, peraltro,
non dissimili nella sostanza da quelli che possono essersi già verificati
nella dichiarazione dello scorso anno relativamente al primo periodo di
applicazione dell’Irap (1998).
Con riguardo, anzitutto, alle perdite e svalutazioni relative ai crediti in
linea capitale, nell’ipotesi più semplice in cui il fondo rischi esistente
in bilancio all’inizio del periodo d’imposta oggetto della presente
dichiarazione sia stato alimentato esclusivamente con accantonamenti operati
nel periodo d’imposta precedente (1998), non si pongono problemi circa il
riconoscimento per via extra-contabile di tali perdite e svalutazioni, in
quanto coperte con un fondo «tassato», vale a dire non dedotto agli effetti
dell’Irap. Naturalmente, nel caso delle svalutazioni, resta ferma la
deducibilità immediata dell’importo rientrante nel limite dello 0,50 per
cento dell’ammontare complessivo dei valore dei crediti iscritto in bilancio
e la deducibilità dell’eccedenza per quote costanti nei successivi sette
esercizi.
Non può escludersi, peraltro, che il fondo esistente in bilancio all’inizio
del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione risulti, in tutto
o in parte, essere stato costituito anche con quote di accantonamento dedotte
sotto la vigenza della soppressa imposta locale sui redditi (nel periodo
d’imposta 1997 e/o precedenti). In questa ipotesi, tenendo presente che
secondo l’orientamento già manifestato dal ministero delle Finanze nelle
istruzioni ai modelli di dichiarazione Irap degli anni scorsi — e confermato
anche in quelle di quest’anno — le vicende del fondo costituito sotto la
vigenza dell’Ilor assumono rilievo, senza soluzione di continuità, anche in
ambito Irap, le perdite e le svalutazioni in questione si renderanno
deducibili solo per la parte che ecceda la quota del fondo dedotto agli
effetti dell’Ilor; ciò, in linea con un tradizionale orientamento
dell’Amministrazione finanziaria in materia di reddito d’impresa, secondo
cui l’utilizzo di un fondo costituito in parte da accantonamenti dedotti e
in parte da accantonamenti «tassati» deve intendersi prioritariamente
riferito alla parte dedotta.
Considerazioni di ordine analogo possono valere agli effetti del trattamento
delle vicende riguardanti i fondi rischi su crediti per interessi di mora; nel
senso, cioè, che anche a tali effetti dovrebbero valere le stesse regole che
si applicano ai fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi per
interessi di mora dedotti solo in parte in sede fiscale. In proposito, è
opportuno ricordare che secondo la disciplina del comma 6 del citato articolo
71 del Tuir — e anche alla luce delle istruzioni dettate dal ministero delle
Finanze a corredo dell’apposito «Prospetto dei crediti» della
dichiarazione dei redditi — ai fini della determinazione delle perdite su
crediti per interessi di mora occorre porre riferimento al valore di detti
crediti risultanti in bilancio incrementato dell’importo delle svalutazioni
eventualmente non dedotto; le perdite così determinate, anche agli effetti
dell’Irap, saranno, quindi, deducibili per la parte eccedente il fondo
rischi su crediti per interessi di mora dedotto ai fini Ilor negli esercizi
precedenti al 1998.
È il caso di aggiungere che, sempre sulla base delle regole applicabili ai
fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi in parte dedotti e in
parte tassati, dovrebbero essere risolte le problematiche relative
all’eventuale recupero a tassazione dei fondi rischi in questione eccedenti,
rispettivamente, il 5 per cento del valore di bilancio dei crediti in linea
capitale e l’importo complessivo dei crediti per interessi di mora iscritti
in bilancio (al lordo, in tal caso, delle svalutazioni non dedotte).
Naturalmente, sulle questioni sopraevidenziate sarebbe opportuno un esplicito
pronunciamento da parte del ministero delle Finanze.
3.2. L’altra modifica riguardante l’articolo 6 consiste nell’aggiunta
del nuovo comma 5-bis con il quale viene previsto che per le banche e gli
altri enti finanziari «...concorrono altresì alla determinazione della base
imponibile gli accantonamenti per la cessazione dei rapporti di agenzia».
Tale integrazione, viene precisato nella citata relazione di accompagnamento,
«...costituisce un mero adeguamento tecnico...» da porre in relazione «...con
la soppressione del comma 1-ter dell’attuale articolo 11».
È il caso di ricordare, peraltro, che nel precedente assetto normativo il
soppresso comma 1-ter dell’articolo 11 garantiva ai soggetti dell’articolo
6 in commento anche la deducibilità degli accantonamenti per operazioni e
concorsi a premio. Proprio in ragione della evidenziata portata del nuovo
comma 5-bis, dunque, deve ritenersi frutto semplicemente di un difetto di
coordinamento la mancata riproposizione anche nel nuovo contesto normativo
della previsione di deducibilità dei suddetti accantonamenti. Opportunamente,
peraltro, le istruzioni ministeriali al modello di dichiarazione, considerano
fra gli accantonamenti da indicare nel rigo IQ30 anche gli accantonamenti
relativi alle operazioni e concorsi a premio. È, comunque, auspicabile che a
tale lacuna sia posto rimedio anche con uno specifico intervento in sede
legislativa.
Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione
contabile e variazioni fiscali
4.1. L’intervento operato dal decreto correttivo in esame sul testo
dell’articolo 11 del Dlgs n. 446 del 1997 è certamente quello che riveste
maggior rilievo non solo sul piano sostanziale ma anche sul piano sistematico.
In particolare, per effetto della modifica recata dall’articolo 1, comma 1,
lettera h) del citato Dlgs n. 506, il contenuto del precedente articolo 11,
recante le disposizioni comuni - vale a dire, applicabili in via di principio
a tutte le categorie di soggetti passivi - risulta ora collocato in due
distinti articoli di legge: lo stesso articolo 11 in versione riformulata,
intitolato alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della
produzione netta», e il nuovo articolo 11-bis, intitolato alle «Variazioni
fiscali del valore della produzione netta».
Il descritto riassetto — la cui portata si esplica essenzialmente nei
confronti dei soggetti che determinano la base imponibile ai sensi degli
articoli 5, 6 e 7 — risponde all’esigenza, evidenziata nella richiamata
relazione di accompagnamento al decreto correttivo, di suddividere le regole
dettate «... ad integrazione degli articoli precedenti, per individuare le
poste del conto economico che rilevano ai fini del valore della produzione...»
da quelle dettate «...per operare le variazioni fiscali alle poste in
parola...».
In sostanza, è stato riprodotto lo schema normativo che l’articolo 52 del
Tuir pone nel fissare il passaggio dal risultato del conto economico al
reddito d’impresa attraverso le variazioni fiscali delle poste contabili.
Con analoga sequenza, infatti, dapprima l’articolo 11 individua, ai fini
dell’Irap, le voci contabili rilevanti per la formazione del valore della
produzione — voci che non coincidono, si è visto, con l’intero conto
economico assunto agli effetti delle imposte sui redditi — e poi
l’articolo 11-bis stabilisce le variazioni fiscali da apportare a tali voci.
Pur considerando che molte delle disposizioni previgenti risultano fedelmente
ripetute nel riformulato articolo 11 e nel nuovo articolo 11-bis, l’attuata
risistemazione determina di per sé importanti conseguenze sul piano
interpretativo. Essa, infatti, non solo rende più agevole l’individuazione
delle regole applicabili nelle due distinte fasi della procedura di
determinazione della base imponibile, ma, in via di principio, dovrebbe anche
impedire di attribuire alle singole regole significati non strettamente
coerenti con lo specifico contesto — "contabile" ovvero
"fiscale" — in cui le stesse risultino collocate.
4.2. Ciò premesso, muovendo dall’esame del nuovo articolo 11, intitolato,
si ricorda, alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della
produzione netta», diciamo subito che nessun particolare approfondimento si
rende necessario svolgere con riguardo alla disposizione della lettera a) del
comma 1; essa, infatti, ripropone esattamente il contenuto della lettera b)
dello stesso comma 1 del previgente articolo 11. Si tratta della disposizione
di favore, valida per tutti i soggetti passivi, con la quale viene
riconosciuta la deducibilità dal valore della produzione dei contributi per
le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro, delle spese
relative agli apprendisti e del settanta per cento delle spese per il
personale assunto con contratto di formazione lavoro. È appena il caso di
ricordare che, mentre per le società di capitali e per le imprese in genere
la norma determina la corrispondente deducibilità delle poste del conto
economico di cui alle voci B9 e B14, relative ai costi di lavoro, per i
soggetti che applicano il sistema retributivo, essa comporta una
corrispondente riduzione della base imponibile costituita dalla cosiddetta «retribuzione
previdenziale».
Invariato risulta anche il contenuto della lettera b) dello stesso comma 1
dell’articolo 11 che, si ricorda, ai numeri da 1) a 5) reca indicazione dei
costi di lavoro dipendente e degli altri compensi ad essi assimilati (ivi
compresi, quindi, gli utili agli associati in partecipazione che apportano
lavoro) indeducibili ai fini dell’Irap e, al n. 6), sancisce la
indeducibilità della quota di interessi passivi inclusa nei canoni di
locazione finanziaria (da determinarsi, com’è noto, in via forfetaria).
Peraltro, pur nell’evidenziata identità di formula, sembra opportuno
soffermare l’attenzione sulla disposizione recata dal n. 1) della richiamata
lettera b) del nuovo articolo 11.
Tale disposizione attiene ai criteri «contabili» per l’individuazione dei
costi relativi al personale non ammessi in deduzione e, come in precedenza,
opera a tal fine espresso rinvio ai costi «...classificabili nell’articolo
2425, primo comma, lettera B, numeri 9) e 14) del codice civile».
Preliminarmente, è il caso di ricordare che la previsione in parola non
esplica la sua portata esclusivamente nei confronti dei soggetti che
determinano la base imponibile ai sensi dell’articolo 5 (siano o meno tenuti
alla redazione del conto economico secondo le regole del codice civile), ma
anche nei confronti delle banche, degli altri soggetti finanziari e delle
imprese di assicurazione, ancorché nei loro bilanci non si rinvengano,
ovviamente, le voci di conto economico espressamente nominate dalla norma. In
questo senso si era già manifestata l’interpretazione del ministero delle
Finanze; peraltro, ribadita anche nelle istruzioni al nuovo modello di
dichiarazione laddove, ai fini della compilazione delle sezioni II e III del
quadro IQ, viene esplicitamente ricordata l’applicazione «...con gli
opportuni adattamenti...» delle regole generali «...illustrate con
riferimento alle imprese industriali e commerciali a commento della precedente
sezione I...».
Ciò precisato, occorre osservare che nel nuovo quadro normativo la
disposizione in commento deve essere ora coordinata con quanto previsto dal
successivo comma 2 dello stesso articolo 11. In particolare, il primo periodo
del suddetto comma 2 stabilisce che dai costi non deducibili a norma del comma
1, lettera b) «...vanno, in ogni caso, escluse le somme erogate a terzi per
l’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei dipendenti e
dei collaboratori e quelle erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a
titolo di rimborso analitico di spese sostenute nel compimento delle loro
mansioni lavorative».
Al riguardo, la relazione accompagnatoria non riferisce alla trascritta
disposizione carattere innovativo: essa, infatti, darebbe semplicemente
conferma a interpretazioni cui il ministero delle Finanze era già pervenuto
nel previgente assetto normativo. Si tratta, in particolare, di soluzioni che
in precedenza trovavano fondamento direttamente nei criteri di classificazione
dei costi previsti dal richiamato documento integrativo del principio
contabile n. 12 e che ora, invece, la nuova disposizione intende affermare in
via autonoma: senza cioè che si renda più necessaria a questi fini la
dimostrazione della non classificabilità di detti costi nell’ambito delle
suddette voci B9 e B14. Così va intesa, infatti, la previsione della norma
secondo cui le spese e i rimborsi della specie vanno «...in ogni caso...»
esclusi da quelli relativi al personale di cui al citato n. 1), lettera b) del
comma 1 dello stesso articolo 11.
Ciò detto, e venendo ad una analisi più specifica, riterremmo che per spese
relative all’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei
dipendenti, debbano intendersi quei costi che l’impresa sostiene
nell’interesse della collettività dei dipendenti — collettività,
ovviamente, da intendersi anche come categoria — e non finalizzati, quindi,
al diretto beneficio del singolo dipendente. Rientrano, senz’altro, in
questo concetto, ad esempio, le spese previste dal comma 1 dell’articolo 65
del Tuir «volontariamente sostenute» dal datore di lavoro «per specifiche
finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e
sanitaria o culto...». Ma vi rientrano, altresì, data l’ampia formula
utilizzata dal citato comma 2 dell’articolo 11 in esame, anche i costi
sostenuti dall’imprenditore per porre i dipendenti (nonché i collaboratori)
nelle condizioni di assolvere ai compiti lavorativi: aventi cioè, in senso
lato, carattere "organizzativo"; in effetti, in questo secondo caso,
non sembra possa dubitarsi della natura non retributiva di tali costi, ma è
presumibile che il legislatore abbia ugualmente inteso eliminare ogni
possibile incertezza legata alle concrete classificazioni di bilancio.
Esulano, dunque, dalla previsione in parola le attribuzioni "ad personam":
vale a dire, tutto ciò che costituisce o integra la remunerazione del singolo
prestatore di lavoro o si correla in qualche modo ad essa. Ciò non significa,
ovviamente, che tutte le spese di lavoro non ricomprese fra quelle indicate
nel citato comma 2 dell’articolo 11 rientrino automaticamente nel regime di
indeducibilità assoluta comminato dalla predetta disposizione della lettera
b) del comma 1 dell’articolo 11; ciò dipendendo, pur sempre, dalla verifica
della condizione di classificabilità dei relativi costi nelle suddette voci
B9 e B14 del conto economico.
Questione rilevante sotto questo profilo è quella che attiene al trattamento
dei cosiddetto "fringe benefits", vale a dire, dei beni o servizi
attribuiti al singolo dipendente a titolo di integrazione della retribuzione
in denaro. Al riguardo, si ricorderà che nella circolare n. 263/E del 12
novembre 1998, emanata nel precedente contesto normativo, il ministero delle
Finanze ebbe modo di riconoscere esplicitamente (cfr. il par. 2.3) la
rilevanza, in via di principio, dei «...costi sostenuti dall’impresa per
beni e servizi classificabili, in base a corretti principi contabili, in voci
di conto economico diverse dalla voce B9 e costituenti fringe benefits per i
dipendenti ai sensi dell’articolo 48 del Tuir». Il dubbio se tale
orientamento conservi validità anche nel nuovo assetto normativo è stato
risolto in senso affermativo dalle stesse istruzioni al modello di
dichiarazione, nelle quali viene affermato in modo espresso che anche i costi
per l’acquisizione di beni e servizi «... costituenti elementi accessori
("fringe benefits") della retribuzione — non classificabili quindi
nelle voci B9 e B14 del conto economico — sono ammessi in deduzione nei
limiti e alle condizioni previste ai fini delle imposte sui redditi.».
Ancorché riferita espressamente alla specifica problematica del trattamento
dei suddetti componenti negativi, l’interpretazione ministeriale, è il caso
di osservare, sembra assumere un rilievo più generale in quanto confermativa
della rilevanza, agli effetti dell’Irap, delle conseguenze derivanti dal
criterio di classificazione dei costi secondo la loro natura e non secondo la
loro destinazione; criterio che, è bene ricordare, discende direttamente
dallo schema di conto economico adottato dal nostro legislatore.
L’altra fattispecie
considerata dalla disposizione in esame attiene, come si è visto, alle somme
«...erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a titolo di rimborso
analitico di spese sostenute nel compimento delle loro mansioni lavorative».
Anche in questo caso, la norma costituisce conferma di soluzioni
interpretative in precedenza affermate dal ministero delle Finanze. Va
precisato che il rimborso analitico deve riguardare, ovviamente, le spese
sostenute dal dipendente (o collaboratore) nell’interesse del datore di
lavoro; cioè, le spese che questi avrebbe dovuto sostenere direttamente e che
siano state semplicemente anticipate dal prestatore.
Peraltro, a questi effetti, è importante segnalare che, in materia di
trattamento dei rimborsi per trasferte, le istruzioni al modello di
dichiarazione confermano l’orientamento restrittivo secondo cui non sono
ammesse in deduzione ai fini Irap le somme erogate a titolo di indennità
chilometriche; tali somme vengono, infatti, comunque assimilate dal ministero
delle Finanze alle indennità di trasferta, anch’esse indeducibili in ambito
Irap in quanto non collegate "analiticamente" al rimborso di spese
documentate sostenute dal dipendente (o collaboratore). Nel prendere atto
della conferma di tale restrittiva interpretazione, è il caso di precisare
che la deducibilità dei rimborsi analitici di spese sostenute per trasferte
non è limitata alle sole trasferte effettuate fuori dal territorio comunale,
prescindendosi, a questi effetti, dal trattamento di tali rimborsi in capo al
prestatore di lavoro.
4.3. Non necessitano di particolari approfondimenti le altre disposizioni
contenute nel comma 2 dell’articolo 11 in argomento. Sia il secondo che il
terzo periodo della norma ripetono, infatti, le regole in tema di distacco di
personale contenute nel comma 1-bis del previgente articolo 11. Occorre,
tuttavia, segnalare che il citato terzo periodo del comma 2 in oggetto — ove
si afferma che nei confronti del soggetto "distaccatario" gli
importi dovuti al distaccante a titolo di rimborso degli oneri retributivi e
contributivi concorrono, in caso di applicazione del cosiddetto sistema
retributivo, a formare la base imponibile Irap — opera ora rinvio anche al
nuovo articolo 10-bis, riguardante la determinazione della base imponibile
degli enti pubblici.
Ci limitiamo a ricordare che il regime del «distacco di personale» si rende
applicabile anche nel caso in cui il soggetto distaccato sia un collaboratore
dell’impresa e che, inoltre, analogo regime Irap viene ad applicarsi, come
ribadito dalle istruzioni al nuovo modello, in caso di cosiddetto "lavoro
interinale"; fermo restando, in questa seconda fattispecie, che la parte
dei costi, addebitati dall’impresa che "affitta" il personale
all’impresa che lo utilizza, eccedente i meri oneri retributivi e
contributivi assume natura di ricavo tassabile per la prima e di costo
deducibile per la seconda. Per completezza, infine, sembra il caso di
ricordare che, in linea con l’interpretazione già affermata dal ministero
delle Finanze e ribadita nelle istruzioni al nuovo modello, la deduzione dei
contributi per assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di cui alla
soprarichiamata lettera a) del comma 1 dello stesso articolo 11 spetta, in
entrambi i casi, all’impresa che utilizza il personale (impresa
distaccataria ovvero impresa presso cui viene svolto il lavoro interinale).
4.4. Anche il comma 3 del nuovo articolo 11 non ha contenuto innovativo,
riproducendo fedelmente una serie di disposizioni già presenti nel previgente
testo normativo e, precisamente, si ricorderà, nelle lettere 0a) e a) del
comma 1 del corrispondente articolo 11.
Si tratta di previsioni espressamente riferite ai soggetti che determinano il
valore della produzione secondo i richiamati articoli 5, 6 e 7 del Dlgs n. 446
in esame e che riguardano, anzitutto, il concorso alla formazione della base
imponibile dei proventi e degli oneri «...classificabili fra le voci diverse
da quelle indicate in detti articoli, se correlati a componenti positivi o
negativi del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o
successivi...».
Sulla portata applicativa di tale regola — cosiddetto «principio di
correlazione» — ci siamo diffusamente soffermati nella nostra circolare n.
52 del 1999 (pagg. 3 e ss.), in occasione del commento alle modifiche
introdotte dal precedente decreto correttivo n. 176 del 1999. In
considerazione del fatto che anche nel nuovo contesto normativo tale regola
esplica i medesimi effetti in termini di continuità temporale delle vicende
Irap e di continuità dei valori fiscali, riteniamo sufficiente rinviare alle
precisazioni da noi svolte in quella sede e a quelle contenute nelle
istruzioni ai modelli di dichiarazione.
Le altre previsioni recate dal comma 3 del nuovo articolo 11 ribadiscono,
invece, che ai fini della determinazione della base imponibile degli anzidetti
soggetti «concorrono in ogni caso, le plusvalenze e le minusvalenze relative
a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda,
nonché i contributi erogati a norma di legge con esclusione di quelli
correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione».
Anche in questo caso, trattandosi di regole già valevoli in precedenza, non
si rendono necessari particolari approfondimenti.
Con specifico riferimento al trattamento, agli effetti dell’Irap, dei
contributi pubblici, è tuttavia opportuno richiamare la risoluzione n. 8/E
del 28 gennaio 2000, con la quale il ministero delle Finanze si è pronunciato
sulla portata della regola che, come si è visto, dispone l’esclusione dalla
formazione della base imponibile dei proventi della specie «… correlati a
componenti negativi non ammessi in deduzione». In tale occasione, nel
ribadire che dalla normativa Irap «… deriva una generale assoggettabilità
di tutti i contributi erogati in base ad una legge…», il ministero ha
affermato, anzitutto, che l’applicazione dell’esimente in questione
richiede «… la necessità della previsione nella legge istitutiva, della
destinazione e della finalità precisa dei contributi erogati, per cui, ai
fini di cui trattasi, nessun rilievo assume la qualificazione o
quantificazione fatta dall’ente erogatore al di fuori o in contrasto con le
previsioni normative». Inoltre, nel chiarire che in base alla legge
istitutiva deve potersi desumere, affinché possa applicarsi l’esclusione da
Irap, «… una correlazione diretta tra la somma erogata e il componente
negativo non deducibile…», la risoluzione ha anche precisato che qualora la
legge istitutiva preveda «… una destinazione mista (parte erogata a fronte
di elementi negativi deducibili e parte erogata a fronte di componenti
negativi non ammessi in deduzione) deve ritenersi ammissibile l’esonero del
contributo ai fini Irap solo per la quota correlata a componenti negativi non
ammessi in deduzione qualora detta quota sia indicata in modo preciso, anche
se in misura percentuale».
Tali ultime affermazioni appaiono particolarmente rilevanti in quanto
chiariscono opportunamente - e, si osserva, conformemente a quanto già
riconosciuto a livello generale dallo stesso ministero delle Finanze agli
effetti della distinzione tra contributi in conto impianti e contributi in
conto capitale - che i contributi misti, ove ripartibili in base a criteri
oggettivi sulle diverse tipologie di spese sovvenzionate, possono ugualmente
dare luogo, in proporzione, all’esclusione in parola. Ciò, può assumere,
ad esempio, concreto rilievo in relazione ai contributi erogati per il
finanziamento di spese di ricerca.
Con riguardo, infine, alla previsione del concorso alla formazione del valore
della produzione imponibile delle plusvalenze e delle minusvalenze relative a
beni strumentali, è solo il caso di ribadire che tale disposizione ha ad
oggetto esclusivamente i beni ammortizzabili ai fini fiscali (sia materiali
che immateriali) e, dunque, non coinvolge in nessun modo le immobilizzazioni
finanziarie nonché, in via di principio, i cosiddetto immobili civili. In
questo senso, comunque, si esprimono, in modo puntuale, le istruzioni al nuovo
modello di dichiarazione.
4.5. Passando ad esaminare il contenuto del nuovo articolo 11-bis del Dlgs n.
446, si è detto che esso reca ora le disposizioni concernenti le «Variazioni
fiscali della produzione netta», vale a dire le regole che si rendono
applicabili ai fini del passaggio dal valore della produzione «contabile» al
valore della produzione «fiscale». Come vedremo, oltre alle previsioni di
sicura portata innovativa in materia di ricavi derivanti da atti di
destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci dei beni di
magazzino e di erogazioni liberali, la norma reca numerose altre regole
confermative di interpretazioni già adottate dall’Amministrazione
finanziaria sotto il vigore della previgente formulazione del testo
legislativo.
Stabilisce, anzitutto, il comma 1 del nuovo articolo che i componenti positivi
e negativi «… che concorrono a formare il valore della produzione così
come determinati ai sensi degli articoli 5, 6, 7, 8 e 11, si assumono
apportando ad essi le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini
delle imposte sui redditi».
Al riguardo — tralasciando evidentemente in questa sede il riferimento
all’articolo 8 concernente il regime Irap degli esercenti arti e professioni
— dalla trascritta formula normativa si trae, anzitutto, conferma del fatto
che gli elementi rilevanti ai fini della base imponibile Irap sono, in via di
principio, solo quelli individuabili attraverso l’applicazione delle regole
dettate dall’articolo 5 — ovvero degli articoli 6 o 7 — cocordinate con
le ulteriori regole di «selezione» delle poste contabili contenute
nell’articolo 11.
Conseguentemente, fatta salva l’espressa inclusione, di cui ci occuperemo
tra breve, nella base imponibile di alcuni elementi positivi cosiddetto di «origine
fiscale», nessuna rilevanza può essere data in ambito Irap a elementi che,
ancorché tassabili o deducibili ai fini delle imposte sui redditi, in
applicazione di apposite norme di variazione, non risultano classificabili nel
conto economico. In questo senso, le istruzioni ministeriali al nuovo quadro
IQ, confermando sul punto l’impostazione già assunta dal ministero negli
anni scorsi, ribadiscono l’irrilevanza «…dei ricavi indicati in
dichiarazione dei redditi per adeguamento a parametri … o agli studi di
settore…» ovvero «…della rendita catastale assunta a tassazione ai sensi
dell’articolo 57 del Tuir anche in assenza di proventi effettivamente
conseguiti…».
Come si è visto, la sopratrascritta norma opera richiamo alle variazioni «…previste
ai fini delle imposte sui redditi». Si ricorderà, invece, che la
corrispondente previsione contenuta nella lettera a) del comma 1 del
previgente articolo 11 prevedeva di assumere i componenti rilevanti ai fini
dell’Irap «…in conformità delle norme del testo Unico delle imposte sui
redditi … e della applicazione di esse in sede di dichiarazione dei redditi»,
lasciando intendere, ma la questione presentava margini di incertezza, che
eventuali variazioni dervianti da disposizioni extra-Testo unico non dovessero
produrre effetti ai fini dell’Irap. La nuova versione della norma elimina
ogni dubbio sul punto.
Ciò osservato, va detto che non tutte le variazioni applicabili ai fini della
determinazione del reddito d’impresa assumono rilievo in sede Irap. Il
secondo periodo del citato comma 1 del nuovo articolo 11-bis, infatti,
sancisce la disapplicazione delle disposizioni «… degli articoli 58, 63, e
75, commi 5, seconda parte, e 5-bis, del Testo unico…» «…e
dell’articolo 17, comma 4, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504».
Come evidenziato nella relazione di accompagnamento, si tratta di soluzioni già
affermate, per varie ragioni, in via interpretativa dal ministero delle
Finanze e alle quali si è ritenuto opportuno dare valenza normativa. In
particolare, per effetto della disapplicazione dell’articolo 58 del Tuir,
risulta confermato il concorso alla formazione della base imponibile Irap
anche dei proventi esenti o esclusi per altri motivi dal concorso alla
formazione del reddito d’impresa. Per effetto della neutralizzazione dei
successivi articoli 63 e 75, comma 5, seconda parte, e 5-bis, risulta,
inoltre, confermata la piena deducibilità ai fini Irap delle cosiddetto «spese
generali» (ovviamente, sempreché rientranti fra i componenti negativi
individuati ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5 — ovvero
dell’articolo 6 o 7 — e dell’articolo 11) anche se ai diversi effetti
del reddito d’impresa tali spese dovessero soffrire di parziale o totale
indeducibilità; analogamente, ma con specifico riguardo ai soggetti
finanziari dell’articolo 6 e alle imprese di assicurazione di cui
all’articolo 7, assumono piena rilevanza ai fini Irap gli interessi passivi,
a prescindere dal rapporto di deducibilità applicabile ai fini del reddito
d’impresa. Tali soluzioni, è il caso di osservare, oltreché coerenti con
la disapplicazione del citato articolo 58 del Tuir, appaiono apprezzabili
anche per motivi di semplificazione.
Infine, per effetto della disapplicazione dell’articolo 17, comma 4 (rectius:
comma 1, essendo il riferimento al comma 4 frutto di un mero errore di
redazione della norma), viene confermata la deducibilità ai fini dell’Irap,
contrariamente appunto a quanto previsto per le imposte sui redditi,
dell’imposta comunale immobiliare (Ici). Al riguardo, è il caso di
osservare che la deducibilità dell’Ici, sancita indirettamente dalla norma
in esame, dovrebbe valere in assoluto e, quindi, non solo con riferimento agli
immobili strumentali o costituenti magazzino (cosiddetto «immobili
merce") ma anche con riferimento agli immobili che partecipano a formare
la base imponibile secondo le regole dell’articolo 57 del Tuir (ivi
compresi, eventualmente, i terreni agricoli) e, inoltre, con riferimento alle
aree fabbricabili. Peraltro, essendo senz’altro riferibile la previsione
dell’articolo 11-bis in commento anche ai soggetti disciplinati dal
precedente articolo 8 (esercenti arti e professioni), la deducibilità in
questione dovrebbe valere anche per l’imposta immobiliare assolta con
riferimento agli immobili utilizzati per l’esercizio dell’arte o della
professione; il punto, tuttavia, meriterebbe di essere confermato dai
competenti organi ministeriali.
L’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 11-bis dispone che «Le
erogazioni liberali, comprese quelle previste dall’articolo 65, comma 2, del
predetto testo Unico delle imposte sui redditi, non sono ammesse in deduzione».
Come già anticipato, si tratta in questo caso di una disposizione di
carattere innovativo, il cui inserimento, precisa la relazione di
accompagnamento, si è reso opportuno al fine di «… correggere effetti non
pienamente coerenti, in via di principio, con il presupposto impositivo…».
Naturalmente, va osservato, l’effetto innovativo si esplica essenzialmente
nei confronti delle erogazioni liberali ammesse in deduzione - entro
determinati limiti - dal reddito d’impresa, ai sensi del comma 2 del citato
articolo 65 del Tuir o di altre disposizioni di legge, posto che le erogazioni
liberali non rispondenti ai requisiti di deducibilità ai fini delle imposte
sui redditi dovevano ritenersi indeducibili dall’Irap anche in precedenza.
Comunque, il punto sembra chiarito dalla relazione di accompagnamento laddove
si osserva che la nuova disposizione «… non interferisce, ovviamente, con i
comportamenti adottati precedentemente alla sua introduzione».
Ciò detto, nel precisare
che, evidentemente, la regola in esame non riguarda il trattamento agli
effetti dell’Irap delle spese considerate dal comma 1 del citato articolo 65
del Tuir e di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo 4.2, occorre
chiedersi se tale regola valga anche per le spese considerate dalla lettera
c-ter) del richiamato comma 2 dello stesso articolo 65. Si tratta, com’è
noto, delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione,
riparazione o restauro delle cose vincolate ai sensi della legge 1º giugno
1939, n. 1089 e del Dpr 30 settembre 1963, n. 1409. Al riguardo,
considerazioni di ordine logico sistematico inducono ad escludere una tale
conclusione. In questo caso, infatti, non solo si è in presenza di spese non
propriamente inquadrabili nella tipologia delle liberalità, ma non può non
ricordarsi che la previsione di deducibilità posta dall’articolo 65 in
parola costituisce semplicemente una sorta di alternativa per l’impresa
all’applicazione degli ordinari criteri di trattamento delle spese della
specie previsti dall’articolo 67, comma 7, dello stesso Tuir.
4.6. Le disposizioni concernenti le variazioni fiscali da apportare ai
componenti della produzione, così come emergenti dall’applicazione delle
regole contenute negli articoli 5, 6, 7 e 11, sono completate da quelle del
comma 2 dello stesso articolo 11-bis, il quale stabilisce, in particolare, che
ai componenti indicati nel precedente comma 1 «...vanno aggiunti i ricavi, le
plusvalenze e gli altri componenti positivi di cui agli articoli 53, comma 2,
54, comma 1, lettera d), e 76, comma 5, del Testo unico delle imposte sui
redditi...».
La norma, è il caso di precisare, assume specifica valenza innovativa per ciò
che attiene al trattamento degli atti di destinazione a finalità estranee o
di assegnazione ai soci dei beni di magazzino. Si ricorderà, invece, che per
i beni ammortizzabili l’idoneità di tali atti a produrre componenti
tassabili ai fini Irap era stata già affermata dal ministero delle Finanze in
via interpretativa in base alla regola ora contenuta nel comma 3
dell’articolo 11 e, in precedenza, nella lettera a) del comma 1 dello stesso
articolo, sulla rilevanza in ogni caso delle plusvalenze e della minusvalenze
relative ai suddetti beni. Ad analoga conclusione lo stesso ministero era
pervenuto anche con riguardo ai componenti «fiscali» che possono emergere in
sede di applicazione delle regole sul cosiddetto «transfer pricing» di cui
al citato comma 5 dell'articolo 75 del Tuir.
Ciò posto, è il caso di precisare che, come opportunamente chiarito nelle
istruzioni al modello di dichiarazione, il richiamo alla disposizione della
lettera d) del comma 1 del citato articolo 54 del Tuir non consente di
attrarre a tassazione ai fini dell’Irap plusvalenze derivanti dagli atti di
destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci di beni diversi da
quelli strumentali ammortizzabili ai fini fiscali. Analogamente, per ciò che
attiene ai ricavi, il richiamo al comma 2 dell’articolo 53 del Tuir va
inteso, in relazione alle diverse categorie di soggetti, come fatto
esclusivamente ai beni suscettibili di generare ricavi tassabili ai fini Irap.
Cosicché, per i soggetti dell’articolo 5 (imprese industriali e
commerciali), assumono rilievo solo i ricavi di origine fiscale derivanti da
atti di destinazione o di assegnazione aventi esclusivamente ad oggetto beni
di cui alle lettera a) e b) del comma 1 del citato articolo 53; mentre, per i
soggetti di cui agli articoli6 e 7 (banche e altri enti finanziari e imprese
di assicurazione) assumono rilievo solo gli atti aventi ad oggetto beni di cui
alla lettera c) del comma 1 dello stesso articolo 53.
Ciò chiarito, notevole rilievo assumono alcune precisazioni contenute nelle
istruzioni ministeriali al nuovo quadro IQ con riferimento all’applicazione
in ambito Irap delle disposizioni recate dall’articolo 13 del decreto
legislativo 4 dicembre 1997 n. 460, in materia di trattamento delle erogazioni
liberali a Onlus.
Come è noto, in tale norma viene stabilito espressamente che «... non si
considerano destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai
sensi dell’articolo 53, comma 2....» i beni alla cui produzione o al cui
scambio è diretta l’attività dell’impresa ceduti gratuitamente alle
Onlus. Con particolare riguardo, poi, alle derrate alimentari e ai prodotti
farmaceutici la norma, nel caso in cui la cessione gratuita sia effettuata in
alternativa alla usuale eliminazione dal processo produttivo, ammette in
deduzione dal reddito d’impresa il relativo costo; mentre, con riguardo ai
beni di magazzino delle imprese diverse da quelle farmaceutiche o alimentari,
il costo, nei limiti dell’importo complessivo di due milioni, viene
trattato, ai fini del reddito d’impresa, quale erogazione liberale ai sensi
della lettera c-sexies) del comma 2 del richiamato articolo 65 del Tuir.
Le istruzioni alla sezione I del quadro IQ in commento, precisano che in
entrambi i casi la disattivazione dell’articolo 53, comma 2, esplica effetti
anche ai fini Irap. Quanto, invece, al trattamento del costo dei beni ceduti
gratuitamente, le istruzioni precisano che nel primo caso (derrate alimentari
e prodotti farmaceutici) esso «...rileva ai fini della determinazione della
base imponibile Irap alle stesse condizioni valevoli ai fini delle imposte sui
redditi»; mentre, nel secondo caso, in coerenza con la regola che ora
sancisce in via di principio l’indeducibilità di tutte le erogazioni
liberali, le istruzioni precisano che «... il costo dei beni non assume
rilievo...».
Le riportate affermazioni ministeriali, sembra il caso di osservare,
dovrebbero valere anche al di là delle specifiche fattispecie considerate;
infatti, sottendono il principio secondo cui ogni qualvolta una norma di
carattere speciale deroghi espressamente, ai fini del reddito d’impresa,
alla presunzione di destinazione a finalità estranee posta dal citato comma 2
dell’articolo 53, essa viene ad esplicare effetti anche ai fini dell’Irap.
Sul piano generale, inoltre, sembra potersi ritenere, nell’ottica del nuovo
assetto sistematico, che analoga valenza in ambito Irap debbano assumere tutte
le disposizioni che agli effetti delle imposte sui redditi qualifichino come
«neutrali» determinati atti di trasferimento di singoli beni aziendali.
Modifiche normative in materia di aliquote dell’imposta regionale
5.1. Come si è detto, la legge finanziaria per il 2000, legge 23 dicembre
1999, n. 488, ha introdotto modifiche in materia di aliquote dell’imposta
regionale riguardanti, in particolare, l’applicazione dei regimi di
carattere transitorio previsti dai commi 1 e 2 dell’articolo 45 del Dlgs n.
446 del 1997, rispettivamente, nei confronti dei soggetti operanti nel settore
agricolo e nei confronti delle banche e degli altri soggetti finanziari nonché
delle imprese di assicurazione.
Con riferimento, anzitutto, al regime di aliquota ridotta previsto nei
confronti dei soggetti operanti nel settore agricolo, il comma 1 del citato
articolo 45, così come modificato dall’articolo 6, comma 17, lettera a),
della legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso
al 1° gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999 l’aliquota è stabilita nella
misura dell’1,9 per cento; per i quattro periodi d’imposta successivi,
l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 2,3, del 2,5, del
3,10 e del 3,75 per cento».
L’intervento normativo determina, dunque, una rimodulazione, "in melius",
della misura dell’aliquota ridotta applicabile nel periodo transitorio e
l’allungamento di tale periodo. In concreto, ferma restando, ovviamente,
l’aliquota dell’1,9 per cento per il periodo in corso al 1° gennaio 1998,
la modifica comporta: il mantenimento dell’aliquota dell’1,9 per cento, in
luogo del 2,6 per cento, anche per il periodo d’imposta in corso al 1°
gennaio 1999; la riduzione dell’aliquota, per i successivi periodi 2000,
2001 e 2002, rispettivamente, dal 3,1 al 2,3 per cento, dal 3,35 al 2,5 per
cento e dal 3,85 al 3,10 per cento; l’estensione, infine, del regime
dell’aliquota ridotta (3,75 per cento) anche al periodo 2003, che in
precedenza avrebbe invece segnato il passaggio all’aliquota ordinaria.
Ciò precisato, è appena il caso di aggiungere che nulla viene a mutare in
ordine alla individuazione dei soggetti ammessi al regime dell’aliquota
ridotta nonché, in caso di applicazione sia dell’aliquota ridotta che
dell’aliquota ordinaria (ovvero di quella maggiorata), in ordine ai criteri
di ripartizione della base imponibile.
Di segno opposto è, invece, l’intervento che ha riguardato il regime di
aliquota maggiorata previsto nei confronti delle banche e degli altri soggetti
finanziari e delle imprese di assicurazione. Infatti, il comma 2 del citato
articolo 45 del Dlgs n. 446, così come risultante dopo le modifiche allo
stesso apportate dalla lettera b) del citato comma 17 dell’articolo 6 della
legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso al 1°
gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l’aliquota è
stabilita nella misura del 5,4 per cento; per i due periodi d’imposta
successivi, l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e
del 4,75 per cento». In pratica, per tali soggetti, viene disposto
l’aumento - rispettivamente, dal 5 al 5,4 per cento e dal 4,75 al 5,4 per
cento - della misura dell’aliquota maggiorata che si sarebbe dovuta
applicare, in base alla previgente disciplina, per il periodo d’imposta in
corso al 1° gennaio 1999 e per quello in corso al 1° gennaio 2000 e,
inoltre, il prolungamento ai periodi d’imposta 2001 e 2002 del regime
transitorio che, in precedenza, avrebbe dovuto concludersi con il periodo
2000.
5.2. Così illustrati, in via generale, gli effetti conseguenti alle modifiche
introdotte, sembra opportuno svolgere alcune ulteriori precisazioni ai fini
della corretta individuazione dell’ambito temporale di applicazione dei
regimi transitori in questione nei confronti dei soggetti con periodo
d’imposta non coincidente con l’anno solare.
Com’è noto, per tali soggetti, l’entrata in vigore dell’Irap non è
necessariamente coincisa con la data del 1° gennaio 1998; ciò dipendendo
dalla circostanza che l’esercizio in corso a tale data fosse o meno iniziato
dopo il 30 settembre 1997. Conseguentemente, il riferimento contenuto nel
comma 1 dell’articolo 45 in esame «... ai periodi d’imposta in corso al 1°
gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999...» nonché quello contenuto nel comma 2
«... ai periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999
e al 1° gennaio 2000...» deve essere correttamente inteso, per tali
soggetti, come fatto, rispettivamente, ai primi due e ai primi tre periodi di
applicazione dell’Irap. Così, per una società il cui esercizio abbia
cadenza 1° luglio-30 giugno, i riferimenti in questione dovranno intendersi
fatti ai periodi 1998-99, 1999-2000 e 2000-2001, anche se non in corso,
rispettivamente, alla data del 1° gennaio 1998, del 1° gennaio 1999 e del 1°
gennaio 2000. In questo senso, si ricorda, le istruzioni al quadro IQ delle
società di capitali e degli enti equiparati (nonché quelle al quadro IQ
degli enti non commerciali) chiariscono — con una precisazione espressamente
riferita all’applicazione dell’aliquota ridotta dell’1,9 per cento, ma
che, ovviamente, non potrebbe non valere anche per l’applicazione
dell’aliquota maggiorata del 5,4 per cento — che tale misura si rende
applicabile «... per il secondo periodo di applicazione dell’Irap, anche se
iniziato successivamente al 1° gennaio 1999...».
5.3. Come si è visto, le modifiche recate ai commi 1 e 2 del citato articolo
45 del Dlgs n. 446 assumono valenza immediata, dato che interessano anche
l’aliquota applicabile per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio
1999 che, nella generalità dei casi (contribuenti con esercizio coincidente
con l’anno solare), costituisce oggetto della presente dichiarazione. Va,
peraltro, ricordato che in base a quanto previsto dal comma 18 dello stesso
articolo 6 della legge n. 488, dette modifiche «... non hanno effetto ai fini
della determinazione dell’imposta da versare a titolo di acconto per il
periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 1999».
Al riguardo, occorre considerare che, nella generalità dei casi, al momento
dell’entrata in vigore delle nuove aliquote, risultava già scaduto il
termine per l’effettuazione della seconda ed ultima rata di acconto relativa
al periodo d’imposta 1999. È presumibile, dunque, che con la trascritta
disposizione si sia inteso far salvi i comportamenti adottati dai contribuenti
sulla base delle aliquote vigenti prima delle modifiche. Coerentemente con
tale finalità, la norma dovrebbe esplicare la sua portata esclusivamente nei
confronti dei soggetti finanziari e delle imprese di assicurazione che,
facendo affidamento sull’aspettativa, per il periodo 1999,
dell’applicabilità della più bassa aliquota del 5 per cento, abbiano
esercitato la facoltà di commisurare l’acconto su base previsionale. Per
tali soggetti, quindi, ai fini della verifica della congruità dei versamenti
di acconto assumerà rilievo il minore importo tra il 98 per cento della
cosiddetta «imposta facciale» (rigo IQ87 del Mod. Unico 1999) e il 98 per
cento dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 (rigo IQ88 del
Mod. Unico 2000) ricalcolata con l’aliquota del 5 per cento.
Peraltro, stando al suo dato letterale, la trascritta previsione secondo cui
le modifiche di aliquota non producono effetti sulla determinazione degli
acconti sembrerebbe doversi applicare anche nei confronti dei soggetti
operanti nel settore agricolo; nel senso cioè che anche per tali soggetti, ai
fini della verifica di congruità dei versamenti, assumerebbe rilievo il
minore importo tra il 98 per cento dell’imposta facciale e il 98 per cento
dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 ricalcolata con
l’aliquota del 2,6 per cento. Senonché, appare evidente che tale
interpretazione potrebbe condurre all’applicazione delle sanzioni, in
ipotesi, anche nei riguardi del contribuente che abbia versato in acconto un
importo pari o addirittura superiore all’imposta effettivamente dovuta in
base all’aliquota dell’1,9 per cento.
Sul punto c’è da registrare un intervento ministeriale in risposta ad uno
specifico quesito, presentato nel corso del «Telefisco» del 29 febbraio di
quest’anno, con il quale era stato espressamente chiesto se la modifica in
questione avesse l’unico significato di rendere inapplicabili le sanzioni ai
soggetti che si siano comportati in sede di acconto adottando aliquote
inferiori rispetto a quelle nuove. Il contenuto della risposta non sembra aver
fugato tutti i dubbi sulla questione che, a nostro avviso, meriterebbe un più
esplicito chiarimento da parte dei competenti uffici ministeriali.
Quale che sia comunque la soluzione di tale problema, c’è da aggiungere
che, in alcuni casi, l’applicazione dell’aliquota ridotta per il settore
agricolo può abbinarsi all’applicazione, su un’altra quota di base
imponibile, dell’aliquota ordinaria (4,25 per cento) o della stessa aliquota
maggiorata (5,4 per cento). In tale situazione, è chiaro che la verifica
della congruità dei versamenti in acconto, nei confronti del soggetto che si
avvalga della facoltà di commisurarne l’importo al dato "previsionale",
andrà operata con riferimento all’imposta complessiva unitariamente
considerata.
5.4. A completamento delle osservazioni che precedono, non può escludersi
che, in presenza di periodi autonomi venutisi a specificare nel corso del
1999, al momento dell’entrata in vigore delle modifiche recate dalla citata
legge finanziaria (1° gennaio 2000) risultasse già scaduto il termine per il
versamento dell’imposta a saldo e per la presentazione della dichiarazione
relativamente al periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999. Può
essere, ad esempio, il caso di un soggetto per il quale, a seguito di
un’operazione di fusione ovvero, più semplicemente, di una modifica della
durata dell’esercizio, si sia individuato un periodo d’imposta 1° gennaIo
1999-30 giugno 1999. Al riguardo — anche prescindendo sul punto da ogni
considerazione in ordine alla possibilità, sul piano della legittimità, di
applicare con effetto retroattivo le nuove aliquote anche nelle descritte
situazioni — proprio sulla base dell’esaminata regola sugli acconti di cui
al citato comma 18 dell’articolo 6 sembrerebbe potersi desumere «a
contrariis» che, con riguardo ai periodi d’imposta chiusi prima del 31
dicembre 1999, le modifiche delle aliquote non interferiscano neanche sui
versamenti dell’imposta a saldo. Anche tale questione meriterebbe di essere
affrontata dal ministero delle Finanze. Va aggiunto, però, che ove si
propendesse per l’applicabilità retroattiva delle nuove aliquote anche per
i periodi già chiusi e con termine per il versamento a saldo già scaduto,
dovrebbero essere fornite idonee istruzioni attuative; ferma restando,
comunque, l’inapplicabilità delle sanzioni, nel rispetto dei principi posti
dal Dlgs n. 472 del 1997, nei confronti dei soggetti che abbiano eventualmente
liquidato l’imposta in base all’aliquota inferiore (5 per cento) vigente
al momento del suddetto termine di scadenza del versamento.