 
  
  
  Circolare
  Assonime  10 maggio 2000, n. 34 
  "
  
  
  Imposta
  regionale sulle attività produttive dopo le modifiche introdotte dal decreto
  legislativo 506/99"
  
  Viene omesso il paragrafo n. 6, relativo alla
  compilazione del modello IQ di dichiarazione IRAP.
  
  
  Modifiche alla disciplina di determinazione della base imponibile:
  considerazioni generali
  
  1.1. Numerose e di varia natura sono le integrazioni e le correzioni apportate
  dal citato Dlgs n. 506 del 1999 al Dlgs n. 446 del 1997. Tralasciando in
  questa sede di dare conto delle modifiche che hanno interessato il Titolo III
  del decreto (concernente le disposizioni sul «Riordino della disciplina dei
  tributi locali»), va detto che l’intervento in materia di Irap ha avuto ad
  oggetto, essenzialmente, le regole di determinazione della base imponibile
  delle imprese in genere e la disciplina di applicazione dell’imposta
  regionale per il cosiddetto «comparto pubblico».
  
  Per quanto riguarda tale secondo filone d’intervento, ci limitiamo
  semplicemente a ricordare che, oltre a una più puntuale definizione dei
  soggetti passivi "pubblici" — ora individuati attraverso il
  richiamo agli organi dello Stato e alle Amministrazioni pubbliche di cui
  all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29
  (concernente norme in materia di pubblico impiego) — il Dlgs n. 506 ha
  introdotto importanti modifiche in materia di aliquota.
  
  In particolare, il comma 2 dell’articolo 16 del citato Dlgs n. 446 prevede
  ora, in luogo delle diverse misure del prelievo per scaglioni e per tipologia
  di emolumenti erogati, un’unica aliquota dell’8,5 per cento applicabile
  indistintamente su tutti gli emolumenti e senza massimali. La nuova misura del
  prelievo si è resa applicabile a partire dal 1º gennaio 2000 e riguarda, è
  il caso di precisare, esclusivamente il valore della produzione derivante
  dall’esercizio delle attività istituzionali, determinabile in base al
  cosiddetto "sistema retributivo". Pertanto, qualora siano svolte
  anche attività commerciali e venga esercitata l’opzione per
  l’applicazione delle regole ordinarie, sulla quota di valore della
  produzione ad esse imputabile continuerà ad applicarsi l’aliquota del 4,25
  per cento; analogamente, in caso di esercizio di attività agricola nei limiti
  dell’articolo 29 del Tuir, si renderà applicabile, sulla quota di base
  imponibile a essa riferibile, l’aliquota ridotta del 1,9 per cento.
  
  Concentrando lo sguardo sulle modifiche che hanno interessato le regole di
  determinazione della base imponibile delle imprese, occorre preliminarmente
  rilevare che solo alcune di esse rivestono portata sostanziale, determinando,
  così, la tassazione di componenti positivi precedentemente esclusi ovvero la
  deducibilità di componenti negativi prima irrilevanti o, per converso, la
  indeducibilità di componenti negativi prima ammessi in deduzione.
  
  Assumono tale valenza le disposizioni recate dal nuovo articolo 11-bis con le
  quali, da un lato, è stata disposta l’attrazione nella base imponibile dei
  ricavi di origine "fiscale" derivanti dalla destinazione dei beni di
  magazzino a finalità estranee all’esercizio d’impresa o dalla loro
  assegnazione ai soci e, dall’altro, è stata sancita la irrilevanza agli
  effetti dell’Irap anche delle liberalità ammesse in deduzione ai fini delle
  imposte sui redditi. Si tratta di norme, per così dire, di chiusura, volte
  cioè ad affermare l’applicazione del prelievo, coerentemente con il
  presupposto impositivo, anche nel caso in cui i beni oggetto dell’attività
  non siano, per scelta dell’imprenditore, destinati al mercato e a rendere
  irrilevante qualunque destinazione "improduttiva" del patrimonio
  d’impresa. Analoga portata sostanziale assume, inoltre, la previsione
  inserita nell’articolo 6 con la quale viene riconosciuta, con specifico
  riguardo alle banche e agli altri enti finanziari, la deducibilità dalla base
  imponibile degli accantonamenti ai fondi per rischi su crediti. In questo
  caso, la modifica risponde all’opportunità di eliminare, in presenza di
  componenti rilevanti per entrambe le discipline impositive, quali quelli
  concernenti le vicende dei crediti alla clientela, possibili disarmonie nella
  determinazione del valore della produzione assoggettabile ad Irap e del
  reddito d’impresa assoggettabile ad Irpeg.
  
  Tutte le altre modifiche introdotte dal Dlgs n. 506 del 1999 rispondono,
  invece, all’esigenza di un riassetto formale della disciplina di
  determinazione del valore della produzione delle imprese; ciò, nel duplice
  intento di attuare un miglior coordinamento sistematico fra le varie
  disposizioni e di consolidare nel testo di legge alcune delle soluzioni di
  maggior rilievo adottate in via interpretativa dell’Amministrazione
  finanziaria.
  
  In particolare, ciò si è tradotto nella completa riformulazione
  dell’articolo 5, che si occupa della determinazione del valore della
  produzione netta delle imprese industriali e commerciali, e nella suddivisione
  dell’articolo 11, relativo alle «disposizioni comuni», in due articoli
  distinti: l’articolo 11, in versione riformulata, dedicato, per l’appunto,
  alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione
  netta» e l’articolo 11-bis — articolo, come accennato, di nuova
  istituzione — dedicato alle «Variazioni fiscali del valore della produzione
  netta».
  
  Nel loro complesso, le apportate modifiche conferiscono maggior chiarezza e
  organicità alla disciplina impositiva. Va, tuttavia, subito evidenziato che
  il provvedimento in esame non ha accolto cambiamenti nei meccanismi di
  determinazione della base imponibile che pure erano stati auspicati,
  soprattutto in fuzione di una maggior semplificazione della disciplina, anche
  dalla stessa Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma
  tributaria. Ciò sembra imputabile non a una scelta del legislatore di
  disattendere tali richieste, quanto piuttosto alla constatata impossibilità,
  stanti i limiti posti dal richiamato articolo 17, comma 3, della legge n. 662
  del 1997, di operare interventi correttivi ed integrativi non in linea con gli
  originari principi e criteri direttivi di delega.
  
  È importante ricordare che le problematiche concernenti l’applicazione del
  tributo nei confronti delle società di capitali e delle imprese in genere
  sono derivate principalmente, se non esclusivamente, dalla originaria scelta
  della legge di delega di individuare gli elementi positivi e negativi
  rilevanti ai fini del tributo attraverso il diretto riferimento a specifiche
  voci di conto economico ritenute espressive del valore della produzione
  "corrente". Di qui, la necessità di utilizzare, per la
  "selezione" di tali elementi, i criteri di classificazione valevoli
  per le rappresentazioni di bilancio.
  
  In considerazione di tale diretta influenza delle appostazioni contabili sul
  regime impositivo — vale a dire, del fatto che dalla collocazione di un
  determinato componente in una o in altra voce del conto economico potesse
  dipendere l’esistenza stessa della base imponibile e della correlata capacità
  contributiva — il legislatore aveva avvertito la necessità di fissare, con
  l’apposita previsione recata dal comma 2 del previgente articolo 11, la
  regola per cui «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, le
  componenti positive e negative sono accertate in ragione della loro
  classificazione secondo corretti principi contabili». Ed è sulla base di
  tale previsione che lo stesso ministero delle Finanze ha ritenuto opportuno
  fare, a questi fini, specifico riferimento ai criteri di classificazione dei
  costi e dei ricavi indicati nel documento integrativo al Principio contabile
  n. 12 del Consiglio nazionale dei ragioneri e dottori commercialisti.
  
  Senonché, in sede di concreta applicazione della disciplina impositiva,
  l’automatica assunzione delle classificazioni di bilancio ha fatto emergere
  alcuni effetti non pienamente compatibili con il presupposto impositivo e
  anche idonei a generare fenomeni di cosiddetto «terzo binario» (concernenti,
  cioè, divergenze tra valori fiscali ai fini Irap e valori fiscali ai fini
  Irpeg); ponendo, così, in evidenza l’aspetto di maggior criticità insito
  nella originaria scelta operata dal legislatore. Si ricordereranno, a questo
  proposito, le problematiche relative, ad esempio, al trattamento delle
  sopravvenienze in genere e delle rivalutazioni "straordinarie" dei
  beni di magazzino che, in quanto classificabili in voci di conto economico non
  rilevanti ai fini Irap, avrebbero dato luogo a possibili salti o duplicazioni
  d’imposta. Ed è opportuno sottolineare come tale ordine di problemi non
  nascesse, evidentemente, da una presunta "non correttezza" di tali
  appostazioni contabili, ma, più semplicemente, dalla circostanza che, dovendo
  le classificazioni di bilancio rispondere ad altre finalità rappresentative,
  non sempre le stesse possono risultare coerenti con la determinazione della
  base imponibile Irap e, quindi, con il "ruolo" ad esse assegnato in
  tale specifico ambito della disciplina fiscale.
  
  Da tali problematiche sono scaturiti interventi correttivi volti ad attrarre
  nella formazione della base imponibile anche voci correttamente classificate
  nel conto economico al di fuori delle entrate e delle spese correnti e,
  tuttavia, in vario modo correlate al «valore della produzione», considerato
  l’aggregato rilevante ai fini della determinazione del prelievo impositivo.
  È restato però sullo sfondo il tratto peculiare della originaria
  impostazione legislativa: la circostanza, cioè, che, in linea generale,
  l’assunzione delle voci rappresentative delle entrate e spese
  "correnti" e la distinzione di esse dalle restanti voci non
  concorrenti alla formazione della base imponibile del tributo dipende pur
  sempre da criteri classificatori non definiti dal legislatore fiscale, ma
  rimessi alla disciplina civilistica e contabile del bilancio.
  
  In tale delineato contesto, occorre inquadrare l’intervento che sullo
  specifico punto ha operato il Dlgs n. 506. Intendiamo riferirci, in
  particolare, alla modifica che ha riguardato proprio la disposizione contenuta
  nel richiamato comma 2 del previgente articolo 11, di cui, per ragioni
  espositive, è opportuno anticipare l’esame.
  
  Nella sua originaria versione, si è visto, la norma poneva riferimento alla
  classificazione dei componenti positivi e negativi «... secondo corretti
  principi contabili». A seguito della modifica operata dal Dlgs n. 506, la
  norma — ora collocata nel comma 4 del riformulato articolo 11 — prevede,
  invece, che «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, i
  componenti positivi e negativi sono accertati in ragione della loro corretta
  classificazione».
  
  Nella relazione di accompagnamento si osserva che con tale modifica si è
  inteso chiarire che i principi contabili cui le parti del rapporto tributario
  devono far riferimento sono quelli astrattamente idonei ad
  "informare" una corretta redazione del bilancio. Da più parti,
  peraltro, sono state avanzate perplessità su questa modifica, nel timore che
  la stessa potrebbe privare la disciplina dell’Irap di riferimenti obiettivi
  — quali quelli desumibili, specificamente, dal citato documento integrativo
  del principio contabile nazionale n. 12 — idonei a dare certezze nel
  delicato tema delle classificazioni.
  
  In effetti, i principi elaborati dal Consiglio nazionale dei ragionieri e dei
  dottori commercialisti hanno da sempre fornito un valido supporto per la
  determinazione del reddito d’impresa; a maggior ragione questa funzione essi
  esplicano, per ovvi motivi, nella identificazione della base imponibile del
  tributo regionale, in considerazione della rilevanza che gli stessi rivestono
  nella redazione del bilancio. È chiaro, tuttavia, che ad essi non può essere
  assegnata valenza normativa, neanche di fonte secondaria. Ed è in questo
  senso che, probabilmente, vanno intese le indicazioni poste dal decreto
  legislativo in esame. Al riguardo, giova rilevare ancora una volta, la base
  imponibile dell’Irap trae diretta origine, per espressa scelta del
  legislatore delegante, dalle classificazioni di bilancio, alle quali deve,
  pertanto, adeguarsi; nella «subiecta materia», dunque, il valore dei
  principi contabili redatti dagli organi professionali non può essere diverso
  da quello che essi assumono per la redazione del bilancio stesso. In questo
  senso, evidentemente, la disciplina dell’Irap non potrebbe interferire sul
  rapporto di tali principi con il bilancio né tantomeno modificarlo, ma solo
  assumerlo agli effetti dell’applicazione del tributo così come esso si
  esplica nell’ambito della disciplina civilistica. Il problema in
  discussione, dunque, attiene alla struttura di fondo dell’Irap, alla sua
  colleganza con il bilancio e in particolare con talune voci del conto
  economico espressamente indicate dalla norma, le quali vanno individuate
  applicando — e, quindi, non alterando — i "corretti" criteri che
  presiedono alla redazione del bilancio stesso.
  
  Venendo a profili più strettamente operativi, osserviamo che comunque
  l’intervento normativo non ha prodotto mutamenti rilevanti del quadro di
  riferimento. Va anzi osservato che il problema stesso delle classificazioni è
  venuto sensibilmente ad attenuarsi, oltre che per effetto delle modifiche
  apportate dai precedenti interventi correttivi, proprio in virtù delle altre
  innovazioni introdotte dal decreto in commento. Riguardo, infatti, alle
  imprese industriali e commerciali, per le quali questo tema è particolarmente
  avvertito, la riformulazione dell’articolo 5 del Dlgs n. 446 elimina alcune
  incertezze sulla identificazione delle voci del conto economico da assumere
  nel valore della produzione. Fermo restando, inoltre, che i principi contabili
  espressi dai dottori commercialisti e dai ragionieri, se pur non aventi
  valenza normativa, costituiscono un ausilio interpretativo e applicativo della
  disciplina codicistica del bilancio di comune accettazione e come tale,
  quindi, oggettivamente utilizzabile tanto dai contribuenti che
  dall’Amministrazione finanziaria. Del resto, non può essere privo di
  significato il fatto che molte delle interpretazioni fornite dal ministero
  delle Finanze in questa prima fase di applicazione del tributo —
  interpretazioni che hanno, poi, ispirato i vari interventi correttivi,
  compreso come vedremo anche quello in esame — sono state adottate proprio in
  relazione alle indicazioni classificatorie delle poste del conto economico
  contenute, come detto, nel documento integrativo del citato principio
  contabile n. 12. 
  
  
  Determinazione del
  valore della produzione delle imprese industriali e commerciali in genere
  
  2.1. Come si è già avuto modo di rilevare, delle modifiche apportate dal
  richiamato Dlgs n. 506 del 1999 alla disciplina di determinazione della base
  imponibile delle società di capitali e delle imprese in genere solo alcune
  assumono reale portata innovativa. La riformulazione delle disposizioni
  contenute negli articoli 5 e 11 del Dlgs n. 446 del 1997 rende, peraltro,
  opportuno procedere a un riesame completo del quadro normativo, al fine di
  evidenziare anche le disposizioni che pur essendo di nuova introduzione
  risultano tuttavia conformi a soluzioni già desumibili, ancorché in via
  interpretativa, nel precedente assetto. Va osservato, infatti, che ai fini
  della decorrenza, l’articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 506 in esame non opera
  alcuna distinzione tra disposizioni innovative e non, limitandosi
  semplicemente a stabilire che tutte le modificazioni — ad eccezione di
  quelle riguardanti la fissazione della misura dell’aliquota per il comparto
  pubblico, operanti, come detto, a partire dal 1º gennaio 2000 — si
  applicano dal periodo d’imposta «...in corso alla data di emanazione...»
  del provvedimento; data che, sembra il caso di precisare, coincide con quella
  della firma del decreto legislativo da parte del Presidente della Repubblica,
  apposta, nella specie, il giorno 30 dicembre 1999.
  
  2.2. Per quanto riguarda l’articolo 5 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente
  l’individuazione delle componenti contabili rilevanti ai fini del valore
  della produzione delle imprese industriali e commerciali, le modifiche
  consistono nella riformulazione del comma 1 e nella soppressione del comma 2.
  Per effetto di tale intervento, dunque, la norma risulta ora composta da un
  Unico comma il quale dispone che per i suddetti soggetti «... la base
  imponibile è determinata dalla differenza tra la somma delle voci
  classificabili nel valore della produzione di cui alla lettera a),
  dell’articolo 2425 del codice civile e la somma di quelle classificabili nei
  costi della produzione di cui alla lettera b) del medesimo comma, ad
  esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente».
  
  La trascritta formula normativa si differenzia rispetto a quella previgente
  essenzialmente per tre aspetti: per il riferimento, nell’individuazione dei
  componenti negativi rilevanti ai fini della determinazione della base
  imponibile, a tutti i costi della produzione classificabili nella lettera b)
  del citato comma 1 dell’articolo 2425 del codice civile e non più, quindi,
  a specifiche voci tassativamente elencate; per l’esclusione esplicita, dal
  novero di tali componenti, dei costi relativi al «fattore lavoro», prima
  affermata, invece, in forma implicita attraverso la non inclusione della voce
  B9 nell’elenco tassativo contenuto nella precedente versione della norma;
  infine, per la previsione dell’esclusione delle perdite su crediti che, si
  ricorderà, era in precedenza contenuta fra le disposizioni comuni
  dell’articolo 11.
  
  In linea generale, la finalità dell’intervento è di rendere più agevole,
  soprattutto sotto il profilo metodologico, la individuazione del valore della
  produzione netta. Nella precedente formulazione la norma imponeva, come
  accennato, di considerare algebricamente oltre a tutte le voci della lettera
  a) del conto economico, solo alcune delle voci della lettera b) appositamente
  individuate dalla norma stessa; comportando, quindi, per gli operatori la
  necessità di affrontare varie questioni interpretative sulla portata della
  esclusione di talune voci ovvero dell’inclusione di talune altre e sulla
  esatta classificazione dei componenti economici all’interno delle une e
  delle altre. È chiaro, dunque, che l’assunzione, nella nuova formulazione,
  di tutte le voci di conto economico relative alla lettera b), elimina sotto
  questo profilo ogni questione. Ciò non significa, però, che sia stata
  operata una sostanziale modifica della determinazione della base imponibile;
  la disposizione, come la stessa relazione chiarisce, non ha questi effetti se
  non per alcuni aspetti limitati e di sistema che esamineremo in dettaglio nei
  prossimi paragrafi. Infatti, la riconducibilità, in linea generale, nel
  valore della produzione degli stessi componenti negativi che fino ad oggi
  hanno assunto rilievo a questi fini, è assicurata per altra via: ad opera,
  innanzitutto, della prescrizione, contenuta nel medesimo articolo 5, secondo
  cui non concorrono, comunque, nel valore della produzione le perdite su
  crediti e le spese per il personale dipendente e, inoltre, dell’applicazione
  del principio di fondo contenuto nel nuovo articolo 11-bis — peraltro,
  recepito dal preesistente articolo 11 — secondo cui i componenti tratti
  dalla contabilità per formare il valore della produzione vanno rideterminati
  apportando ad essi «le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai
  fini delle imposte sui redditi».
  
  Quanto alla prevista irrilevanza delle perdite su crediti e delle spese del
  personale, è questa evidentemente una previsione di carattere sostanziale che
  ha il fine di escludere "tout court" — in coerenza con una scelta
  di fondo già assunta nei precedenti provvedimenti — i componenti negativi
  di siffatta natura quali che siano le modalità con cui essi risultino
  imputati nel conto economico; e cioè — come si legge nella stessa relazione
  accompagnatoria — sia che la loro imputazione avvenga attraverso voci che
  esprimono la definitività delle perdite e delle spese stesse sia che, a
  maggior ragione, venga realizzata per il tramite di altre poste meramente
  valutative della loro sussistenza, quali l’accantonamento a fondi o lo
  stanziamento di svalutazioni.
  
  In merito, poi, alla rideterminazione delle voci della lettera B del conto
  economico con i criteri valevoli ai fini delle imposte sul reddito, è noto
  che questi criteri si fondano sul principio di negare rilevanza, in linea
  generale, agli accantonamenti e alle svalutazioni con eccezione di talune
  poste espressamente individuate dalla stessa norma ed entro limiti
  appositamente stabiliti. Questo assetto, si ricorda, già per effetto del Dlgs
  n. 137 del 1998 era stato recepito anche nella disciplina dell’Irap. Sicché,
  è apparso opportuno intervenire sull’articolo 5 nella parte in cui
  escludeva indiscriminatamente tutti i fondi e le svalutazioni dal concorso
  alla formazione della base imponibile; esclusione — chiarisce la relazione
  — superflua ed in un certo senso fuorviante, dato che nell’articolo 11,
  così come riformulato dallo stesso Dlgs n. 137 del 1998, la materia veniva
  riconsiderata nell’ottica — come detto — della disciplina delle imposte
  sui redditi.
  
  Resta da aggiungere, a completamento dell’illustrazione dell’intervento
  operato dal Dlgs n. 506, che la disposizione in precedenza contenuta nella
  lettera a) dell’articolo 11 — volta ad attrarre in ambito Irap «...i
  componenti positivi e negativi, conseguiti o sostenuti in periodi d’imposta
  anteriori a quello in corso alla data di entrata in vigore...» dell’imposta
  regionale e «... la cui imputazione sia stata rinviata in applicazione delle
  norme del predetto testo Unico...» — è stata espunta dalla disciplina
  "a regime" contenuta nel Dlgs n. 446 e inserita, in coerenza con il
  suo carattere meramente transitorio, nel comma 2 dell’articolo 1 dello
  stesso decreto correttivo n. 506 in esame.
  
  2.3.Dalle considerazioni che precedono, emerge dunque che la riformulazione
  dell’articolo 5 non determina conseguenze sostanziali in ordine al
  trattamento dei costi classificabili nelle voci della lettera b) del conto
  economico non menzionate nella precedente versione della norma: si tratta, è
  il caso di ricordare, delle altre svalutazioni delle immobilizzazioni (di cui
  alla lettera c della voce B10), delle svalutazioni dei crediti compresi
  nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide (di cui alla lettera d
  della stessa voce B10) e, inoltre, di tutti gli accantonamenti per rischi e
  oneri (di cui alle voci B12 e B13).
  
  Non sembra superfluo riverificare in concreto tale affermazione di principio
  in relazione a ciascuna delle suindicate voci, anche al fine di porre in
  evidenza alcune ulteriori implicazioni sistematiche del nuovo assetto
  normativo.
  
  Partendo dalla prima delle voci di costo in considerazione, vale a dire dalle
  altre svalutazioni delle immobilizzazioni classificabili nella voce B10,
  lettera c) del conto economico, non dovrebbero sussistere dubbi sulla
  invarianza di trattamento, posto che con riferimento ai beni strumentali
  materiali e immateriali la disciplina del reddito d’impresa non ammette, in
  via di principio, rettifiche di valore diverse da quelle deducibili a titolo
  di ammortamento secondo le disposizioni dettate agli articoli 68 e 69 del Tuir
  e normalmente classificabili nelle precedenti lettera a) e b) della stessa
  voce B10 del conto economico.
  
  Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, ancorché il discorso risulti più
  articolato, in riferimento agli accantonamenti per rischi e oneri e alle
  svalutazioni dei crediti del circolante (e delle disponibilità liquide).
  
  Invero, proprio con riguardo agli accantonamenti per rischi e oneri —
  escluso, sulla base del richiamato principio generale, che possano risultare
  rilevanti ai fini dell’Irap accantonamenti diversi da quelli ammessi in
  deduzione ai fini dell’Irpeg (o dell’Irpef) — occorre ricordare che già
  nel previgente assetto normativo era stata espressamente sancita la
  deducibilità anche ai fini dell’Irap di alcuni accantonamenti previsti dal
  Tuir nella determinazione del reddito d’impresa. Si trattava, in
  particolare: degli accantonamenti relativi alle indennità per la cessazione
  dei rapporti di agenzia (di cui all’articolo 70, comma 3, del Tuir), degli
  accantonamenti effettuati a fronte delle spese per lavori ciclici di
  manutenzione e revisione delle navi e aeromobili (di cui all’articolo 73,
  comma 1), degli accantonamenti effettuati dalle imprese concessionarie della
  costruzione ed esercizio di opere pubbliche a fronte delle spese di ripristino
  o sostituzione dei beni gratuitamente devolvibili (di cui al comma 2 dello
  stesso articolo 73) e, infine, degli accantonamenti per oneri derivanti da
  operazioni a premio e da concorsi a premio (di cui al comma 3 del citato
  articolo 73 del Tuir). Per questi accantonamenti, dunque, nulla cambia; se non
  la circostanza che la loro rilevanza agli effetti dell’Irap non è più
  sancita da una norma "ad hoc" — il comma 1-bis del previgente
  articolo 11, ora soppresso in ragione della superfluità, nel nuovo contesto
  normativo, del suo contenuto — ma discende direttamente dal combinato
  disposto degli articoli 5 e 11-bis.
  
  Il problema, quindi, che la nuova formulazione dell’articolo 5 viene a
  porre, potrebbe riguardare in definitiva solo gli altri accantonamenti ammessi
  in deduzione dal reddito d’impresa. Senonché, per quanto attiene,
  anzitutto, agli accantonamenti al fondo rischi su crediti di cui
  all’articolo 71 del Tuir, deve ritenersi che la conferma della loro
  irrilevanza anche nel nuovo assetto normativo discenda implicitamente dalla
  esclusione, sancita come si è visto dallo stesso articolo5, delle perdite su
  crediti dal novero dei componenti negativi del conto economico rilevanti ai
  fini dell’Irap. A questo riguardo, nella relazione di accompagnamento al
  Dlgs n. 506 viene, infatti, ribadito che la scelta di negare rilevanza alle
  perdite su crediti assume «… portata sostanziale, nel senso che tali
  perdite — in considerazione del fatto che esse rappresentano un fenomeno
  successivo alla produzione — non partecipano alla formazione della base
  imponibile vuoi se imputate al conto economico in via meramente estimativa
  attraverso accantonamenti o svalutazioni dei crediti (voci B10, lettera d) e
  B12), vuoi se ivi rilevate a seguito di realizzi definitivi (voce B14)». Tale
  impostazione — che, è il caso di sottolineare, trova conferma nelle
  istruzioni ai quadri IQ — appare in effetti coerente: una volta esclusa la
  rilevanza delle perdite subite a titolo definitivo sarebbe, infatti, illogico
  sul piano sostanziale ammettere la deducibilità delle perdite meramente
  probabili, quale che siano le modalità di rappresentazione contabile adottate
  (fondo o svalutazione diretta). Ciò rilevato, è noto che la scelta di fondo
  di trattare le vicende dei crediti del circolante alla stregua di vicende non
  idonee ad influenzare la determinazione della base imponibile, ha formato
  oggetto di rilievi critici anche da parte della Commissione parlamentare
  consultiva in materia di riforma tributaria. Comunque, riterremmo che
  l’irrilevanza delle perdite su crediti non dovrebbe interferire, stante la
  mancanza di un’esplicita previsione in tal senso, con la deducibilità dei
  premi assicurativi pagati dall’impresa in relazione a crediti assicurati; si
  tratterebbe, infatti, di costi relativi all’acquisizione di un servizio
  classificabili in una voce di conto economico diversa da quelle destinate a
  ospitare le perdite definitive o semplicemente stimate dei crediti stessi.
  
  Ugualmente esclusi dai componenti negativi rilevanti ai fini dell’Irap
  devono ritenersi anche gli altri accantonamenti che pure sono ammessi in
  deduzione ai fini delle imposte sui redditi. In particolare, l’esclusione
  degli accantonamenti al fondo oscillazione cambi, di cui all’articolo72 del
  Tuir, deriva dal fatto che si è in presenza di un costo che secondo i criteri
  di classificazione adottati dagli stessi principi contabili nazionali non
  sarebbe neanche iscrivibile nella voce B12 del conto economico, bensì nella
  voce C16 fra gli altri oneri finanziari e, quindi, non inerente alla
  determinazione del valore della produzione.
  
  Considerazioni analoghe conducono, senz’altro, ad escludere la rilevanza
  agli effetti dell’Irap anche degli accantonamenti relativi alle indennità
  di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente , di cui
  all’articolo70, comma 1, del Tuir. Infatti, ai fini della individuazione
  delle spese per il personale dipendente, escluse dal nuovo testo
  dell’articolo5 dai componenti negativi deducibili, il successivo articolo11,
  come vedremo, opera espresso riferimento ai «costi relativi al personale,
  classificabili nell’articolo 2425, primo comma, lettera B), numeri 9 e 14»,
  fra i quali rientrano, secondo l’impostazione dei principi contabili
  nazionali, i suddetti accantonamenti (in particolare, classificabili nelle
  lettera c) e d) della voce B9).
  
  2.4. Chiarito, dunque, che dall’avvenuto ampliamento delle voci di costo
  potenzialmente rilevanti ai fini dell’Irap non discendono, in via di
  principio, conseguenze sostanziali, è il caso, tuttavia, di evidenziare che
  il nuovo assetto normativo ha il pregio di eliminare alcuni dubbi
  interpretativi sorti in precedenza per il trattamento di specifici elementi di
  costo proprio in ragione dei loro criteri di classificabilità.
  
  Intendiamo riferirci, in particolare, alle problematiche concernenti il
  trattamento agli effetti dell’Irap degli ammortamenti relativi ai beni
  strumentali ricompresi nei contratti di affitto o usufrutto d’azienda.
  
  Si ricorderà, in proposito, che nella circolare n. 141/E del 1998 (cfr. il
  par. 3.2.1.3.3.) il ministero delle finanze, muovendo dall’asserita
  classificabilità — secondo i criteri indicati dal richiamato documento
  integrativo dei principi contabili nazionali — degli ammortamenti relativi
  ai cespiti dell’azienda condotta in affitto o in usufrutto nella voce B13
  del conto economico, ritenne di non poter riconoscere tali costi in deduzione
  dall’Irap.
  
  Nella nostra circolare n. 52 del 1998 (cfr. il par. 3.10), avemmo modo di
  esprimere alcune perplessità sulla fondatezza dell’affermazione
  ministeriale; tanto da ipotizzare la possibilità che il ministero intendesse,
  in effetti, riferirsi, più precisamente, ai fondi costituiti dal conduttore
  (affittuario-usufruttuario) per il rinnovo, in corso di contratto, dei cespiti
  aziendali ovvero per l’effettuazione di opere di manutenzione straordinaria.
  D’altra parte, ove riferita agli ammortamenti in senso tecnico — che, in
  quanto tali, sono idonei ad abbattere il costo fiscale dei cespiti cui si
  correlano — la soluzione ministeriale sul punto sarebbe risultata
  inconciliabile con la regola di carattere generale, introdotta dal Dlgs n. 176
  del 1999 con effetto già per il periodo d’imposta 1998, secondo cui a
  prescindere dalla collocazione nel conto economico concorrono comunque a
  formare il valore della produzione gli oneri (e i proventi) correlati a
  componenti positivi o negativi rilevanti ai fini del valore della produzione
  di periodi d’imposta precedenti o successivi. Invero, anche muovendo dal
  presupposto, tutt’altro che pacifico, della classificabilità degli
  ammortamenti in questione nella voce B13 anziché nella voce B10, gli stessi
  avrebbero dovuto ugualmente rilevare ai fini dell’Irap proprio perché «collegati»
  al costo fiscale dei beni assunti in carico dal conduttore
  (affittuario-usufruttuario) e, quindi, correlati a eventuali componenti
  imponibili (plusvalenze o minusvalenze) che tali beni possono generare.
  
  Comunque, il nuovo assetto normativo elimina, ove ve ne fosse bisogno, ogni
  residua incertezza sulla questione. In ragione, tuttavia, dell’importanza
  che il tema riveste, sia agli effetti delle rappresentazioni di bilancio sia
  agli effetti della disciplina fiscale in genere, riteniamo opportuno, di
  seguito, esprimere più compiutamente il nostro pensiero.
  
  Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare che la regola posta
  dall’articolo 67, comma 9, del Tuir, la quale individua nel conduttore
  (usufruttuario o affittuario) l’imprenditore abilitato a dedurre gli
  ammortamenti, non sottende finalità, per così dire, agevolative; essa,
  piuttosto, fissa un criterio per adeguare la determinazione del reddito
  imponibile all’utile economico effettivo dell’impresa condotta in affitto
  (o in usufrutto); ciò, nel presupposto che lo stanziamento delle quote di
  ammortamento nelle scritture contabili del conduttore sia una diretta
  conseguenza della natura e degli effetti civilistici del contratto. Riprova ne
  è che l’articolo 14, comma 2, del Dpr 4 febbraio 1988, n. 42, recante
  disposizioni correttive e di coordinamento del Tuir, stabilisce espressamente
  che la ricordata regola non si applica «… nei casi di deroga convenzionale
  alle norme dell’articolo2561 del codice civile, concernenti l’obbligo di
  conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili».
  
  Ciò premesso, occorre riconoscere che sotto il profilo civilistico il tema
  dell’iscrizione di questi beni nell’impresa del conduttore e del loro
  ammortamento ha, da sempre, generato incertezze. In ossequio, infatti, ad una
  meccanica applicazione del principio tradizionale, secondo cui non potrebbero
  trovare rappresentazione nello stato patrimoniale i beni che non sono di
  proprietà dell’imprenditore — e che quindi non sono avocabili dai
  creditori in occasione di un suo eventuale fallimento — la prassi contabile
  si è indirizzata nel senso di provvedere all’iscrizione di tali cespiti nei
  conti d’ordine del bilancio dell’impresa dell’affittuario o
  usufruttuario. Al contrario, la migliore dottrina civilistica, cui riteniamo
  di dover aderire, afferma che anche tali beni vanno iscritti nel patrimonio
  dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario proprio in virtù dei
  poteri-doveri contrattuali che questi assume; poteri-doveri che (ove,
  beninteso, non derogati dalle parti) trascendono quelli di un normale
  usufrutto o affitto di singoli beni, esplicandosi — come accennato —
  nell’assunzione da parte del conduttore della posizione di gestore
  dell’azienda nell’interesse e nelle veci del proprietario e, quindi,
  nell’assunzione di analogo dominio sui singoli cespiti per mantenere
  l’efficienza produttiva della azienda stessa, quale «universitas».
  
  D’altra parte, nessuno dubita che l’usufruttuario (o affittuario) può e
  deve disporre, ad esempio, delle merci al fine di realizzare i correlati
  ricavi e che, pertanto, per misurare esattamente l’utile deve contrapporre
  ai ricavi i costi di tali merci iscrivendole fra i propri cespiti aziendali.
  Così come non suscita incertezze il fatto che fra tali cespiti vadano
  iscritti i beni immessi nell’azienda dallo stesso conduttore tanto in
  sostituzione delle scorte cedute quanto delle immobilizzazioni dismesse. In
  quest’ottica, anche l’iscrizione nel patrimonio aziendale — come taluni
  propongono — solo dei beni sostituiti e il mantenimento nei conti d’ordine
  di quelli originari ancora presenti nella azienda «affittata» (o concessa in
  usufrutto) suscita notevoli riserve. E’ pacifico, infatti, in giurisprudenza
  e in dottrina civile, che, salvo patto contrario, sui beni sostituiti si
  instauri fin dal momento dell’acquisto l’identica situazione giuridica
  esistente sui beni originari successivamente dismessi: e cioè, il diritto di
  proprietà del locatore (o la nuda proprietà del concedente in caso di
  usufrutto) e il potere-dovere gestorio dell’affittuario o usufruttuario.
  Quindi, la descritta impostazione contabile finirebbe per rappresentare i
  componenti di un’unica azienda, e per di più sottoposti alla medesima
  situazione giuridica, parte nello stato patrimoniale e parte nei conti
  d’ordine del bilancio dell’affittuario (o usufruttuario).
  
  In definitiva, l’iscrizione degli uni e degli altri nella contabilità
  dell’imprenditore-conduttore (o usufruttuario) verrebbe a realizzare la
  rappresentazione omogenea e coerente di un patrimonio avente, per il tempo
  contrattuale, identica natura e destinazione: un patrimonio, cioè,
  disponibile per l’affittuario (usufruttuario) e, viceversa, indisponibile
  per il proprietario ma che, al contempo, esprime un debito di restituzione del
  primo nei confronti del secondo al termine del rapporto.
  
  Sott’altro profilo, e in via più generale, non può non osservarsi che per
  la corretta determinazione degli utili di gestione occorre necessariamente
  detrarre gli ammortamenti conseguenti al deperimento e al logorio degli
  elementi aziendali: è questo un principio che ha assunto carattere normativo
  generale per tutti gli imprenditori che esercitino l’attività mediante
  aziende in proprietà, in virtù dell’applicazione delle norme sui bilanci
  delle società per azioni e che — secondo la migliore dottrina — deve
  conseguire analoga forza normativa anche in relazione alle ipotesi di
  usufrutto o affitto d’azienda, posto che anche in tali ambiti contrattuali i
  beni aziendali vanno computati alla fine del rapporto concessorio nello stato
  anche di logorio in cui si trovano per misurare i debiti e i crediti reciproci
  fra le parti. In conclusione, l’ammortamento, quale tipico strumento di
  conservazione dell’integrità del patrimonio aziendale e di individuazione,
  per differenza, degli accrescimenti costituenti utili effettivi, è un
  principio portante del bilancio dell’impresa e tanto più essenziale, nel
  rapporto di affitto o usufrutto di azienda, in quanto dà conto con criteri di
  competenza durante lo svolgimento del rapporto concessorio, degli obblighi di
  restituzione facenti capo all’usufruttuario o affittuario.
  
  Ovviamente, è utile ribadire, l’ammortamento non compete
  all’usufruttuario o affittuario dell’azienda quando le parti hanno
  derogato all’obbligo di mantenere in efficienza i beni ammortizzabili; di
  conseguenza, non spettando ai fini civilistici, esso non può trovare
  riconoscimento — come già accennato — neanche ai fini tributari, giusta
  la citata disposizione dell’articolo14, comma 2, del Dpr n. 42 del 1988. Al
  riguardo, è appena il caso di segnalare che la volontà delle parti va
  ricostruita in base a tutti gli elementi contrattuali. Non sarebbe, ad
  esempio, di per sé sufficiente, perché l’ammortamento spetti
  all’usufruttuario o affittuario, che questi abbia assunto esclusivamente
  l’onere della manutenzione dei cespiti aziendali, essendo una tale
  incombenza insita naturalmente nel rapporto concessorio. Occorre acclarare,
  invece, che i poteri-doveri gestori siano stati trasferiti in misura piena
  all’usufruttuario o affittuario: in particolare, sia stato trasferito a tale
  soggetto il potere-dovere di decidere anche la cessione o la sostituzione dei
  cespiti in parola nell’interesse più generale della conservazione
  dell’integrità del patrimonio aziendale nel suo insieme e,
  conseguentemente, il rischio del deterioramento tecnico-fisico dei cespiti
  stessi, cui si correla, per l’appunto, lo stanziamento dell’ammortamento.
  
  Per motivi di completezza, giova accennare infine anche ad un altro profilo
  del contratto di affitto o usufrutto di azienda, parallelo alle tematiche fin
  qui esaminate.
  
  Intendiamo riferirci al fatto che, secondo la dottrina civilistica, le
  scritture contabili relative alla azienda gestita dovrebbero essere redatte
  dall’usufruttuario o affittuario conformemente all’inventario di consegna
  dell’azienda nel quale i beni aziendali dovrebbero essere rilevati, ai fini
  civilistici, al loro valore attuale al momento della consegna stessa (e non ai
  costi storici dell’imprenditore-concedente): ciò, in funzione
  dell’esecuzione in futuro degli obblighi di restituzione assunti
  dall’affittuario o usufruttuario per la conclusione del rapporto.
  
  Ai fini fiscali, viceversa, la norma sancisce, come è noto, il principio di
  continuità dei valori dei beni assunti con quelli esistenti presso
  l’impresa del concedente (cfr. citato articolo14 del Dpr 42 del 1988). Vi è,
  quindi, una non perfetta coincidenza fra questi regimi che suscita taluni
  inconvenienti. Manca, in altri termini, nella disciplina fiscale la possibilità
  di rilevare per competenza l’intero ammontare del debito di valore che
  l’imprenditore-concessionario viene ad assumere con l’instaurazione del
  rapporto di affitto o di usufrutto e conseguentemente di correlare il relativo
  maggior onere ai redditi prodotti nel periodo di svolgimento del rapporto
  medesimo. Stante il delineato assetto normativo, sembrerebbe logico che queste
  differenze assumano rilievo fiscale per l’affittuario o l’usufruttuario a
  chiusura della relazione contrattuale, analogamente agli eventuali conguagli
  attivi e passivi che le parti regolino in denaro ai sensi del più volte
  citato articolo2561 del codice civile.
  
  Determinazione del valore della produzione delle banche e degli altri
  soggetti finanziari.
  
  3.1. L’articolo 6 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente la determinazione
  del valore della produzione delle banche e degli altri soggetti finanziari è
  stato interessato da tre modifiche. A finalità di mero coordinamento formale
  risponde l’eliminazione, nel comma 1-bis della norma, delle parole «, comma
  1,»; talché, il citato comma 1-bis, che riguarda specificamente il regime
  delle c.d. «holdings industriali», rinvia ora semplicemente ai criteri del
  precedente articolo5 (essendo detto articolo ormai composto, come si è visto,
  di un unico comma).
  
  Carattere sostanziale assume, invece, la modifica recata alla lettera n) del
  comma 1 dell’articolo in oggetto, che ha integrato l’elenco dei componenti
  negativi ammessi in deduzione, includendovi anche gli «accantonamenti per
  rischi su crediti, compresi quelli per interessi di mora».
  
  La modifica, si è già avuto modo di osservare, non è ispirata da intenti
  agevolativi, ma dall’esigenza di eliminare una causa di disallineamento fra
  base imponibile Irap e base imponibile Irpeg. Ed invero, come evidenziato
  nella citata relazione al decreto correttivo in esame, per le banche e gli
  altri soggetti finanziari cui si applica il comma 1 dell’articolo6, «… le
  perdite su crediti sono una componente rilevante ai fini Irap, così come
  rilevanti sono le svalutazioni su crediti che costituiscono un’imputazione
  anticipata ed estimativa di tali perdite …»; conseguentemente, prosegue la
  relazione, «il mancato riconoscimento degli accantonamenti ai fondi rischi
  (che hanno natura estimativa analoga alle svalutazioni) costituiva un fenomeno
  di «terzo binario» rispetto alle risultanze contabili e alla determinazione
  dell’imponibile ai fini della determinazione del reddito privo di
  giustificazioni …».
  
  Il riconoscimento in deduzione degli accantonamenti della specie, produce
  effetti — come già ricordato — a decorrere dal periodo d’imposta in
  corso al 30 dicembre 1999, oggetto, di regola, della presente dichiarazione.
  All’uopo, nella sezione seconda del quadro IQ del modello unico delle società
  di capitali e degli enti equiparati è stato previsto l’inserimento di un
  nuovo rigo IQ27 nel quale, appunto, dovrà essere data indicazione degli
  accantonamenti della specie operati in bilancio e della quota deducibile.
  Naturalmente, è appena il caso di accennare, in coerenza con le finalità
  della modifica e nel rispetto, del resto, del principio generale cui si è
  fatto cenno in precedenza a commento delle modifiche all’articolo 5, gli
  accantonamenti ai fondi rischi su crediti si renderanno deducibili agli
  effetti dell’Irap negli stessi limiti e alle stesse condizioni previste ai
  fini della determinazione del reddito d’impresa e, in particolare, secondo
  le regole dettate dall’articolo 71, commi da 3 a 6, del Tuir.
  
  Proprio tenendo presenti le soluzioni che si rendono applicabili ai fini del
  reddito d’impresa, vanno risolti i problemi di ordine transitorio che
  possono prospettarsi con riferimento al periodo d’imposta oggetto della
  presente dichiarazione in caso di utilizzo, per la copertura di perdite o
  svalutazioni, di fondi stanziati in periodi precedenti. Problemi, peraltro,
  non dissimili nella sostanza da quelli che possono essersi già verificati
  nella dichiarazione dello scorso anno relativamente al primo periodo di
  applicazione dell’Irap (1998).
  
  Con riguardo, anzitutto, alle perdite e svalutazioni relative ai crediti in
  linea capitale, nell’ipotesi più semplice in cui il fondo rischi esistente
  in bilancio all’inizio del periodo d’imposta oggetto della presente
  dichiarazione sia stato alimentato esclusivamente con accantonamenti operati
  nel periodo d’imposta precedente (1998), non si pongono problemi circa il
  riconoscimento per via extra-contabile di tali perdite e svalutazioni, in
  quanto coperte con un fondo «tassato», vale a dire non dedotto agli effetti
  dell’Irap. Naturalmente, nel caso delle svalutazioni, resta ferma la
  deducibilità immediata dell’importo rientrante nel limite dello 0,50 per
  cento dell’ammontare complessivo dei valore dei crediti iscritto in bilancio
  e la deducibilità dell’eccedenza per quote costanti nei successivi sette
  esercizi.
  
  
  
  Non può escludersi, peraltro, che il fondo esistente in bilancio all’inizio
  del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione risulti, in tutto
  o in parte, essere stato costituito anche con quote di accantonamento dedotte
  sotto la vigenza della soppressa imposta locale sui redditi (nel periodo
  d’imposta 1997 e/o precedenti). In questa ipotesi, tenendo presente che
  secondo l’orientamento già manifestato dal ministero delle Finanze nelle
  istruzioni ai modelli di dichiarazione Irap degli anni scorsi — e confermato
  anche in quelle di quest’anno — le vicende del fondo costituito sotto la
  vigenza dell’Ilor assumono rilievo, senza soluzione di continuità, anche in
  ambito Irap, le perdite e le svalutazioni in questione si renderanno
  deducibili solo per la parte che ecceda la quota del fondo dedotto agli
  effetti dell’Ilor; ciò, in linea con un tradizionale orientamento
  dell’Amministrazione finanziaria in materia di reddito d’impresa, secondo
  cui l’utilizzo di un fondo costituito in parte da accantonamenti dedotti e
  in parte da accantonamenti «tassati» deve intendersi prioritariamente
  riferito alla parte dedotta.
  
  Considerazioni di ordine analogo possono valere agli effetti del trattamento
  delle vicende riguardanti i fondi rischi su crediti per interessi di mora; nel
  senso, cioè, che anche a tali effetti dovrebbero valere le stesse regole che
  si applicano ai fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi per
  interessi di mora dedotti solo in parte in sede fiscale. In proposito, è
  opportuno ricordare che secondo la disciplina del comma 6 del citato articolo
  71 del Tuir — e anche alla luce delle istruzioni dettate dal ministero delle
  Finanze a corredo dell’apposito «Prospetto dei crediti» della
  dichiarazione dei redditi — ai fini della determinazione delle perdite su
  crediti per interessi di mora occorre porre riferimento al valore di detti
  crediti risultanti in bilancio incrementato dell’importo delle svalutazioni
  eventualmente non dedotto; le perdite così determinate, anche agli effetti
  dell’Irap, saranno, quindi, deducibili per la parte eccedente il fondo
  rischi su crediti per interessi di mora dedotto ai fini Ilor negli esercizi
  precedenti al 1998.
  
  È il caso di aggiungere che, sempre sulla base delle regole applicabili ai
  fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi in parte dedotti e in
  parte tassati, dovrebbero essere risolte le problematiche relative
  all’eventuale recupero a tassazione dei fondi rischi in questione eccedenti,
  rispettivamente, il 5 per cento del valore di bilancio dei crediti in linea
  capitale e l’importo complessivo dei crediti per interessi di mora iscritti
  in bilancio (al lordo, in tal caso, delle svalutazioni non dedotte).
  
  Naturalmente, sulle questioni sopraevidenziate sarebbe opportuno un esplicito
  pronunciamento da parte del ministero delle Finanze.
  
  3.2. L’altra modifica riguardante l’articolo 6 consiste nell’aggiunta
  del nuovo comma 5-bis con il quale viene previsto che per le banche e gli
  altri enti finanziari «...concorrono altresì alla determinazione della base
  imponibile gli accantonamenti per la cessazione dei rapporti di agenzia».
  
  Tale integrazione, viene precisato nella citata relazione di accompagnamento,
  «...costituisce un mero adeguamento tecnico...» da porre in relazione «...con
  la soppressione del comma 1-ter dell’attuale articolo 11».
  
  È il caso di ricordare, peraltro, che nel precedente assetto normativo il
  soppresso comma 1-ter dell’articolo 11 garantiva ai soggetti dell’articolo
  6 in commento anche la deducibilità degli accantonamenti per operazioni e
  concorsi a premio. Proprio in ragione della evidenziata portata del nuovo
  comma 5-bis, dunque, deve ritenersi frutto semplicemente di un difetto di
  coordinamento la mancata riproposizione anche nel nuovo contesto normativo
  della previsione di deducibilità dei suddetti accantonamenti. Opportunamente,
  peraltro, le istruzioni ministeriali al modello di dichiarazione, considerano
  fra gli accantonamenti da indicare nel rigo IQ30 anche gli accantonamenti
  relativi alle operazioni e concorsi a premio. È, comunque, auspicabile che a
  tale lacuna sia posto rimedio anche con uno specifico intervento in sede
  legislativa.
  
  Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione
  contabile e variazioni fiscali
  
  4.1. L’intervento operato dal decreto correttivo in esame sul testo
  dell’articolo 11 del Dlgs n. 446 del 1997 è certamente quello che riveste
  maggior rilievo non solo sul piano sostanziale ma anche sul piano sistematico.
  In particolare, per effetto della modifica recata dall’articolo 1, comma 1,
  lettera h) del citato Dlgs n. 506, il contenuto del precedente articolo 11,
  recante le disposizioni comuni - vale a dire, applicabili in via di principio
  a tutte le categorie di soggetti passivi - risulta ora collocato in due
  distinti articoli di legge: lo stesso articolo 11 in versione riformulata,
  intitolato alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della
  produzione netta», e il nuovo articolo 11-bis, intitolato alle «Variazioni
  fiscali del valore della produzione netta».
  
  Il descritto riassetto — la cui portata si esplica essenzialmente nei
  confronti dei soggetti che determinano la base imponibile ai sensi degli
  articoli 5, 6 e 7 — risponde all’esigenza, evidenziata nella richiamata
  relazione di accompagnamento al decreto correttivo, di suddividere le regole
  dettate «... ad integrazione degli articoli precedenti, per individuare le
  poste del conto economico che rilevano ai fini del valore della produzione...»
  da quelle dettate «...per operare le variazioni fiscali alle poste in
  parola...».
  
  In sostanza, è stato riprodotto lo schema normativo che l’articolo 52 del
  Tuir pone nel fissare il passaggio dal risultato del conto economico al
  reddito d’impresa attraverso le variazioni fiscali delle poste contabili.
  Con analoga sequenza, infatti, dapprima l’articolo 11 individua, ai fini
  dell’Irap, le voci contabili rilevanti per la formazione del valore della
  produzione — voci che non coincidono, si è visto, con l’intero conto
  economico assunto agli effetti delle imposte sui redditi — e poi
  l’articolo 11-bis stabilisce le variazioni fiscali da apportare a tali voci.
  
  Pur considerando che molte delle disposizioni previgenti risultano fedelmente
  ripetute nel riformulato articolo 11 e nel nuovo articolo 11-bis, l’attuata
  risistemazione determina di per sé importanti conseguenze sul piano
  interpretativo. Essa, infatti, non solo rende più agevole l’individuazione
  delle regole applicabili nelle due distinte fasi della procedura di
  determinazione della base imponibile, ma, in via di principio, dovrebbe anche
  impedire di attribuire alle singole regole significati non strettamente
  coerenti con lo specifico contesto — "contabile" ovvero
  "fiscale" — in cui le stesse risultino collocate.
  
  4.2. Ciò premesso, muovendo dall’esame del nuovo articolo 11, intitolato,
  si ricorda, alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della
  produzione netta», diciamo subito che nessun particolare approfondimento si
  rende necessario svolgere con riguardo alla disposizione della lettera a) del
  comma 1; essa, infatti, ripropone esattamente il contenuto della lettera b)
  dello stesso comma 1 del previgente articolo 11. Si tratta della disposizione
  di favore, valida per tutti i soggetti passivi, con la quale viene
  riconosciuta la deducibilità dal valore della produzione dei contributi per
  le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro, delle spese
  relative agli apprendisti e del settanta per cento delle spese per il
  personale assunto con contratto di formazione lavoro. È appena il caso di
  ricordare che, mentre per le società di capitali e per le imprese in genere
  la norma determina la corrispondente deducibilità delle poste del conto
  economico di cui alle voci B9 e B14, relative ai costi di lavoro, per i
  soggetti che applicano il sistema retributivo, essa comporta una
  corrispondente riduzione della base imponibile costituita dalla cosiddetta «retribuzione
  previdenziale».
  
  Invariato risulta anche il contenuto della lettera b) dello stesso comma 1
  dell’articolo 11 che, si ricorda, ai numeri da 1) a 5) reca indicazione dei
  costi di lavoro dipendente e degli altri compensi ad essi assimilati (ivi
  compresi, quindi, gli utili agli associati in partecipazione che apportano
  lavoro) indeducibili ai fini dell’Irap e, al n. 6), sancisce la
  indeducibilità della quota di interessi passivi inclusa nei canoni di
  locazione finanziaria (da determinarsi, com’è noto, in via forfetaria).
  Peraltro, pur nell’evidenziata identità di formula, sembra opportuno
  soffermare l’attenzione sulla disposizione recata dal n. 1) della richiamata
  lettera b) del nuovo articolo 11.
  
  Tale disposizione attiene ai criteri «contabili» per l’individuazione dei
  costi relativi al personale non ammessi in deduzione e, come in precedenza,
  opera a tal fine espresso rinvio ai costi «...classificabili nell’articolo
  2425, primo comma, lettera B, numeri 9) e 14) del codice civile».
  
  Preliminarmente, è il caso di ricordare che la previsione in parola non
  esplica la sua portata esclusivamente nei confronti dei soggetti che
  determinano la base imponibile ai sensi dell’articolo 5 (siano o meno tenuti
  alla redazione del conto economico secondo le regole del codice civile), ma
  anche nei confronti delle banche, degli altri soggetti finanziari e delle
  imprese di assicurazione, ancorché nei loro bilanci non si rinvengano,
  ovviamente, le voci di conto economico espressamente nominate dalla norma. In
  questo senso si era già manifestata l’interpretazione del ministero delle
  Finanze; peraltro, ribadita anche nelle istruzioni al nuovo modello di
  dichiarazione laddove, ai fini della compilazione delle sezioni II e III del
  quadro IQ, viene esplicitamente ricordata l’applicazione «...con gli
  opportuni adattamenti...» delle regole generali «...illustrate con
  riferimento alle imprese industriali e commerciali a commento della precedente
  sezione I...».
  
  Ciò precisato, occorre osservare che nel nuovo quadro normativo la
  disposizione in commento deve essere ora coordinata con quanto previsto dal
  successivo comma 2 dello stesso articolo 11. In particolare, il primo periodo
  del suddetto comma 2 stabilisce che dai costi non deducibili a norma del comma
  1, lettera b) «...vanno, in ogni caso, escluse le somme erogate a terzi per
  l’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei dipendenti e
  dei collaboratori e quelle erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a
  titolo di rimborso analitico di spese sostenute nel compimento delle loro
  mansioni lavorative».
  
  Al riguardo, la relazione accompagnatoria non riferisce alla trascritta
  disposizione carattere innovativo: essa, infatti, darebbe semplicemente
  conferma a interpretazioni cui il ministero delle Finanze era già pervenuto
  nel previgente assetto normativo. Si tratta, in particolare, di soluzioni che
  in precedenza trovavano fondamento direttamente nei criteri di classificazione
  dei costi previsti dal richiamato documento integrativo del principio
  contabile n. 12 e che ora, invece, la nuova disposizione intende affermare in
  via autonoma: senza cioè che si renda più necessaria a questi fini la
  dimostrazione della non classificabilità di detti costi nell’ambito delle
  suddette voci B9 e B14. Così va intesa, infatti, la previsione della norma
  secondo cui le spese e i rimborsi della specie vanno «...in ogni caso...»
  esclusi da quelli relativi al personale di cui al citato n. 1), lettera b) del
  comma 1 dello stesso articolo 11.
  
  Ciò detto, e venendo ad una analisi più specifica, riterremmo che per spese
  relative all’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei
  dipendenti, debbano intendersi quei costi che l’impresa sostiene
  nell’interesse della collettività dei dipendenti — collettività,
  ovviamente, da intendersi anche come categoria — e non finalizzati, quindi,
  al diretto beneficio del singolo dipendente. Rientrano, senz’altro, in
  questo concetto, ad esempio, le spese previste dal comma 1 dell’articolo 65
  del Tuir «volontariamente sostenute» dal datore di lavoro «per specifiche
  finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e
  sanitaria o culto...». Ma vi rientrano, altresì, data l’ampia formula
  utilizzata dal citato comma 2 dell’articolo 11 in esame, anche i costi
  sostenuti dall’imprenditore per porre i dipendenti (nonché i collaboratori)
  nelle condizioni di assolvere ai compiti lavorativi: aventi cioè, in senso
  lato, carattere "organizzativo"; in effetti, in questo secondo caso,
  non sembra possa dubitarsi della natura non retributiva di tali costi, ma è
  presumibile che il legislatore abbia ugualmente inteso eliminare ogni
  possibile incertezza legata alle concrete classificazioni di bilancio.
  
  Esulano, dunque, dalla previsione in parola le attribuzioni "ad personam":
  vale a dire, tutto ciò che costituisce o integra la remunerazione del singolo
  prestatore di lavoro o si correla in qualche modo ad essa. Ciò non significa,
  ovviamente, che tutte le spese di lavoro non ricomprese fra quelle indicate
  nel citato comma 2 dell’articolo 11 rientrino automaticamente nel regime di
  indeducibilità assoluta comminato dalla predetta disposizione della lettera
  b) del comma 1 dell’articolo 11; ciò dipendendo, pur sempre, dalla verifica
  della condizione di classificabilità dei relativi costi nelle suddette voci
  B9 e B14 del conto economico.
  
  Questione rilevante sotto questo profilo è quella che attiene al trattamento
  dei cosiddetto "fringe benefits", vale a dire, dei beni o servizi
  attribuiti al singolo dipendente a titolo di integrazione della retribuzione
  in denaro. Al riguardo, si ricorderà che nella circolare n. 263/E del 12
  novembre 1998, emanata nel precedente contesto normativo, il ministero delle
  Finanze ebbe modo di riconoscere esplicitamente (cfr. il par. 2.3) la
  rilevanza, in via di principio, dei «...costi sostenuti dall’impresa per
  beni e servizi classificabili, in base a corretti principi contabili, in voci
  di conto economico diverse dalla voce B9 e costituenti fringe benefits per i
  dipendenti ai sensi dell’articolo 48 del Tuir». Il dubbio se tale
  orientamento conservi validità anche nel nuovo assetto normativo è stato
  risolto in senso affermativo dalle stesse istruzioni al modello di
  dichiarazione, nelle quali viene affermato in modo espresso che anche i costi
  per l’acquisizione di beni e servizi «... costituenti elementi accessori
  ("fringe benefits") della retribuzione — non classificabili quindi
  nelle voci B9 e B14 del conto economico — sono ammessi in deduzione nei
  limiti e alle condizioni previste ai fini delle imposte sui redditi.».
  
  Ancorché riferita espressamente alla specifica problematica del trattamento
  dei suddetti componenti negativi, l’interpretazione ministeriale, è il caso
  di osservare, sembra assumere un rilievo più generale in quanto confermativa
  della rilevanza, agli effetti dell’Irap, delle conseguenze derivanti dal
  criterio di classificazione dei costi secondo la loro natura e non secondo la
  loro destinazione; criterio che, è bene ricordare, discende direttamente
  dallo schema di conto economico adottato dal nostro legislatore.
  
  
  L’altra fattispecie
  considerata dalla disposizione in esame attiene, come si è visto, alle somme
  «...erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a titolo di rimborso
  analitico di spese sostenute nel compimento delle loro mansioni lavorative».
  
  Anche in questo caso, la norma costituisce conferma di soluzioni
  interpretative in precedenza affermate dal ministero delle Finanze. Va
  precisato che il rimborso analitico deve riguardare, ovviamente, le spese
  sostenute dal dipendente (o collaboratore) nell’interesse del datore di
  lavoro; cioè, le spese che questi avrebbe dovuto sostenere direttamente e che
  siano state semplicemente anticipate dal prestatore.
  
  Peraltro, a questi effetti, è importante segnalare che, in materia di
  trattamento dei rimborsi per trasferte, le istruzioni al modello di
  dichiarazione confermano l’orientamento restrittivo secondo cui non sono
  ammesse in deduzione ai fini Irap le somme erogate a titolo di indennità
  chilometriche; tali somme vengono, infatti, comunque assimilate dal ministero
  delle Finanze alle indennità di trasferta, anch’esse indeducibili in ambito
  Irap in quanto non collegate "analiticamente" al rimborso di spese
  documentate sostenute dal dipendente (o collaboratore). Nel prendere atto
  della conferma di tale restrittiva interpretazione, è il caso di precisare
  che la deducibilità dei rimborsi analitici di spese sostenute per trasferte
  non è limitata alle sole trasferte effettuate fuori dal territorio comunale,
  prescindendosi, a questi effetti, dal trattamento di tali rimborsi in capo al
  prestatore di lavoro.
  
  4.3. Non necessitano di particolari approfondimenti le altre disposizioni
  contenute nel comma 2 dell’articolo 11 in argomento. Sia il secondo che il
  terzo periodo della norma ripetono, infatti, le regole in tema di distacco di
  personale contenute nel comma 1-bis del previgente articolo 11. Occorre,
  tuttavia, segnalare che il citato terzo periodo del comma 2 in oggetto — ove
  si afferma che nei confronti del soggetto "distaccatario" gli
  importi dovuti al distaccante a titolo di rimborso degli oneri retributivi e
  contributivi concorrono, in caso di applicazione del cosiddetto sistema
  retributivo, a formare la base imponibile Irap — opera ora rinvio anche al
  nuovo articolo 10-bis, riguardante la determinazione della base imponibile
  degli enti pubblici.
  
  Ci limitiamo a ricordare che il regime del «distacco di personale» si rende
  applicabile anche nel caso in cui il soggetto distaccato sia un collaboratore
  dell’impresa e che, inoltre, analogo regime Irap viene ad applicarsi, come
  ribadito dalle istruzioni al nuovo modello, in caso di cosiddetto "lavoro
  interinale"; fermo restando, in questa seconda fattispecie, che la parte
  dei costi, addebitati dall’impresa che "affitta" il personale
  all’impresa che lo utilizza, eccedente i meri oneri retributivi e
  contributivi assume natura di ricavo tassabile per la prima e di costo
  deducibile per la seconda. Per completezza, infine, sembra il caso di
  ricordare che, in linea con l’interpretazione già affermata dal ministero
  delle Finanze e ribadita nelle istruzioni al nuovo modello, la deduzione dei
  contributi per assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di cui alla
  soprarichiamata lettera a) del comma 1 dello stesso articolo 11 spetta, in
  entrambi i casi, all’impresa che utilizza il personale (impresa
  distaccataria ovvero impresa presso cui viene svolto il lavoro interinale).
  
  4.4. Anche il comma 3 del nuovo articolo 11 non ha contenuto innovativo,
  riproducendo fedelmente una serie di disposizioni già presenti nel previgente
  testo normativo e, precisamente, si ricorderà, nelle lettere 0a) e a) del
  comma 1 del corrispondente articolo 11.
  
  Si tratta di previsioni espressamente riferite ai soggetti che determinano il
  valore della produzione secondo i richiamati articoli 5, 6 e 7 del Dlgs n. 446
  in esame e che riguardano, anzitutto, il concorso alla formazione della base
  imponibile dei proventi e degli oneri «...classificabili fra le voci diverse
  da quelle indicate in detti articoli, se correlati a componenti positivi o
  negativi del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o
  successivi...».
  
  Sulla portata applicativa di tale regola — cosiddetto «principio di
  correlazione» — ci siamo diffusamente soffermati nella nostra circolare n.
  52 del 1999 (pagg. 3 e ss.), in occasione del commento alle modifiche
  introdotte dal precedente decreto correttivo n. 176 del 1999. In
  considerazione del fatto che anche nel nuovo contesto normativo tale regola
  esplica i medesimi effetti in termini di continuità temporale delle vicende
  Irap e di continuità dei valori fiscali, riteniamo sufficiente rinviare alle
  precisazioni da noi svolte in quella sede e a quelle contenute nelle
  istruzioni ai modelli di dichiarazione.
  
  Le altre previsioni recate dal comma 3 del nuovo articolo 11 ribadiscono,
  invece, che ai fini della determinazione della base imponibile degli anzidetti
  soggetti «concorrono in ogni caso, le plusvalenze e le minusvalenze relative
  a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda,
  nonché i contributi erogati a norma di legge con esclusione di quelli
  correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione».
  
  Anche in questo caso, trattandosi di regole già valevoli in precedenza, non
  si rendono necessari particolari approfondimenti.
  
  Con specifico riferimento al trattamento, agli effetti dell’Irap, dei
  contributi pubblici, è tuttavia opportuno richiamare la risoluzione n. 8/E
  del 28 gennaio 2000, con la quale il ministero delle Finanze si è pronunciato
  sulla portata della regola che, come si è visto, dispone l’esclusione dalla
  formazione della base imponibile dei proventi della specie «… correlati a
  componenti negativi non ammessi in deduzione». In tale occasione, nel
  ribadire che dalla normativa Irap «… deriva una generale assoggettabilità
  di tutti i contributi erogati in base ad una legge…», il ministero ha
  affermato, anzitutto, che l’applicazione dell’esimente in questione
  richiede «… la necessità della previsione nella legge istitutiva, della
  destinazione e della finalità precisa dei contributi erogati, per cui, ai
  fini di cui trattasi, nessun rilievo assume la qualificazione o
  quantificazione fatta dall’ente erogatore al di fuori o in contrasto con le
  previsioni normative». Inoltre, nel chiarire che in base alla legge
  istitutiva deve potersi desumere, affinché possa applicarsi l’esclusione da
  Irap, «… una correlazione diretta tra la somma erogata e il componente
  negativo non deducibile…», la risoluzione ha anche precisato che qualora la
  legge istitutiva preveda «… una destinazione mista (parte erogata a fronte
  di elementi negativi deducibili e parte erogata a fronte di componenti
  negativi non ammessi in deduzione) deve ritenersi ammissibile l’esonero del
  contributo ai fini Irap solo per la quota correlata a componenti negativi non
  ammessi in deduzione qualora detta quota sia indicata in modo preciso, anche
  se in misura percentuale».
  
  Tali ultime affermazioni appaiono particolarmente rilevanti in quanto
  chiariscono opportunamente - e, si osserva, conformemente a quanto già
  riconosciuto a livello generale dallo stesso ministero delle Finanze agli
  effetti della distinzione tra contributi in conto impianti e contributi in
  conto capitale - che i contributi misti, ove ripartibili in base a criteri
  oggettivi sulle diverse tipologie di spese sovvenzionate, possono ugualmente
  dare luogo, in proporzione, all’esclusione in parola. Ciò, può assumere,
  ad esempio, concreto rilievo in relazione ai contributi erogati per il
  finanziamento di spese di ricerca.
  
  Con riguardo, infine, alla previsione del concorso alla formazione del valore
  della produzione imponibile delle plusvalenze e delle minusvalenze relative a
  beni strumentali, è solo il caso di ribadire che tale disposizione ha ad
  oggetto esclusivamente i beni ammortizzabili ai fini fiscali (sia materiali
  che immateriali) e, dunque, non coinvolge in nessun modo le immobilizzazioni
  finanziarie nonché, in via di principio, i cosiddetto immobili civili. In
  questo senso, comunque, si esprimono, in modo puntuale, le istruzioni al nuovo
  modello di dichiarazione.
  
  4.5. Passando ad esaminare il contenuto del nuovo articolo 11-bis del Dlgs n.
  446, si è detto che esso reca ora le disposizioni concernenti le «Variazioni
  fiscali della produzione netta», vale a dire le regole che si rendono
  applicabili ai fini del passaggio dal valore della produzione «contabile» al
  valore della produzione «fiscale». Come vedremo, oltre alle previsioni di
  sicura portata innovativa in materia di ricavi derivanti da atti di
  destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci dei beni di
  magazzino e di erogazioni liberali, la norma reca numerose altre regole
  confermative di interpretazioni già adottate dall’Amministrazione
  finanziaria sotto il vigore della previgente formulazione del testo
  legislativo.
  
  Stabilisce, anzitutto, il comma 1 del nuovo articolo che i componenti positivi
  e negativi «… che concorrono a formare il valore della produzione così
  come determinati ai sensi degli articoli 5, 6, 7, 8 e 11, si assumono
  apportando ad essi le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini
  delle imposte sui redditi».
  
  Al riguardo — tralasciando evidentemente in questa sede il riferimento
  all’articolo 8 concernente il regime Irap degli esercenti arti e professioni
  — dalla trascritta formula normativa si trae, anzitutto, conferma del fatto
  che gli elementi rilevanti ai fini della base imponibile Irap sono, in via di
  principio, solo quelli individuabili attraverso l’applicazione delle regole
  dettate dall’articolo 5 — ovvero degli articoli 6 o 7 — cocordinate con
  le ulteriori regole di «selezione» delle poste contabili contenute
  nell’articolo 11.
  
  Conseguentemente, fatta salva l’espressa inclusione, di cui ci occuperemo
  tra breve, nella base imponibile di alcuni elementi positivi cosiddetto di «origine
  fiscale», nessuna rilevanza può essere data in ambito Irap a elementi che,
  ancorché tassabili o deducibili ai fini delle imposte sui redditi, in
  applicazione di apposite norme di variazione, non risultano classificabili nel
  conto economico. In questo senso, le istruzioni ministeriali al nuovo quadro
  IQ, confermando sul punto l’impostazione già assunta dal ministero negli
  anni scorsi, ribadiscono l’irrilevanza «…dei ricavi indicati in
  dichiarazione dei redditi per adeguamento a parametri … o agli studi di
  settore…» ovvero «…della rendita catastale assunta a tassazione ai sensi
  dell’articolo 57 del Tuir anche in assenza di proventi effettivamente
  conseguiti…».
  
  Come si è visto, la sopratrascritta norma opera richiamo alle variazioni «…previste
  ai fini delle imposte sui redditi». Si ricorderà, invece, che la
  corrispondente previsione contenuta nella lettera a) del comma 1 del
  previgente articolo 11 prevedeva di assumere i componenti rilevanti ai fini
  dell’Irap «…in conformità delle norme del testo Unico delle imposte sui
  redditi … e della applicazione di esse in sede di dichiarazione dei redditi»,
  lasciando intendere, ma la questione presentava margini di incertezza, che
  eventuali variazioni dervianti da disposizioni extra-Testo unico non dovessero
  produrre effetti ai fini dell’Irap. La nuova versione della norma elimina
  ogni dubbio sul punto.
  
  Ciò osservato, va detto che non tutte le variazioni applicabili ai fini della
  determinazione del reddito d’impresa assumono rilievo in sede Irap. Il
  secondo periodo del citato comma 1 del nuovo articolo 11-bis, infatti,
  sancisce la disapplicazione delle disposizioni «… degli articoli 58, 63, e
  75, commi 5, seconda parte, e 5-bis, del Testo unico…» «…e
  dell’articolo 17, comma 4, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504».
  
  Come evidenziato nella relazione di accompagnamento, si tratta di soluzioni già
  affermate, per varie ragioni, in via interpretativa dal ministero delle
  Finanze e alle quali si è ritenuto opportuno dare valenza normativa. In
  particolare, per effetto della disapplicazione dell’articolo 58 del Tuir,
  risulta confermato il concorso alla formazione della base imponibile Irap
  anche dei proventi esenti o esclusi per altri motivi dal concorso alla
  formazione del reddito d’impresa. Per effetto della neutralizzazione dei
  successivi articoli 63 e 75, comma 5, seconda parte, e 5-bis, risulta,
  inoltre, confermata la piena deducibilità ai fini Irap delle cosiddetto «spese
  generali» (ovviamente, sempreché rientranti fra i componenti negativi
  individuati ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5 — ovvero
  dell’articolo 6 o 7 — e dell’articolo 11) anche se ai diversi effetti
  del reddito d’impresa tali spese dovessero soffrire di parziale o totale
  indeducibilità; analogamente, ma con specifico riguardo ai soggetti
  finanziari dell’articolo 6 e alle imprese di assicurazione di cui
  all’articolo 7, assumono piena rilevanza ai fini Irap gli interessi passivi,
  a prescindere dal rapporto di deducibilità applicabile ai fini del reddito
  d’impresa. Tali soluzioni, è il caso di osservare, oltreché coerenti con
  la disapplicazione del citato articolo 58 del Tuir, appaiono apprezzabili
  anche per motivi di semplificazione.
  
  Infine, per effetto della disapplicazione dell’articolo 17, comma 4 (rectius:
  comma 1, essendo il riferimento al comma 4 frutto di un mero errore di
  redazione della norma), viene confermata la deducibilità ai fini dell’Irap,
  contrariamente appunto a quanto previsto per le imposte sui redditi,
  dell’imposta comunale immobiliare (Ici). Al riguardo, è il caso di
  osservare che la deducibilità dell’Ici, sancita indirettamente dalla norma
  in esame, dovrebbe valere in assoluto e, quindi, non solo con riferimento agli
  immobili strumentali o costituenti magazzino (cosiddetto «immobili
  merce") ma anche con riferimento agli immobili che partecipano a formare
  la base imponibile secondo le regole dell’articolo 57 del Tuir (ivi
  compresi, eventualmente, i terreni agricoli) e, inoltre, con riferimento alle
  aree fabbricabili. Peraltro, essendo senz’altro riferibile la previsione
  dell’articolo 11-bis in commento anche ai soggetti disciplinati dal
  precedente articolo 8 (esercenti arti e professioni), la deducibilità in
  questione dovrebbe valere anche per l’imposta immobiliare assolta con
  riferimento agli immobili utilizzati per l’esercizio dell’arte o della
  professione; il punto, tuttavia, meriterebbe di essere confermato dai
  competenti organi ministeriali.
  
  L’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 11-bis dispone che «Le
  erogazioni liberali, comprese quelle previste dall’articolo 65, comma 2, del
  predetto testo Unico delle imposte sui redditi, non sono ammesse in deduzione».
  Come già anticipato, si tratta in questo caso di una disposizione di
  carattere innovativo, il cui inserimento, precisa la relazione di
  accompagnamento, si è reso opportuno al fine di «… correggere effetti non
  pienamente coerenti, in via di principio, con il presupposto impositivo…».
  Naturalmente, va osservato, l’effetto innovativo si esplica essenzialmente
  nei confronti delle erogazioni liberali ammesse in deduzione - entro
  determinati limiti - dal reddito d’impresa, ai sensi del comma 2 del citato
  articolo 65 del Tuir o di altre disposizioni di legge, posto che le erogazioni
  liberali non rispondenti ai requisiti di deducibilità ai fini delle imposte
  sui redditi dovevano ritenersi indeducibili dall’Irap anche in precedenza.
  Comunque, il punto sembra chiarito dalla relazione di accompagnamento laddove
  si osserva che la nuova disposizione «… non interferisce, ovviamente, con i
  comportamenti adottati precedentemente alla sua introduzione».
  
  
  Ciò detto, nel precisare
  che, evidentemente, la regola in esame non riguarda il trattamento agli
  effetti dell’Irap delle spese considerate dal comma 1 del citato articolo 65
  del Tuir e di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo 4.2, occorre
  chiedersi se tale regola valga anche per le spese considerate dalla lettera
  c-ter) del richiamato comma 2 dello stesso articolo 65. Si tratta, com’è
  noto, delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione,
  riparazione o restauro delle cose vincolate ai sensi della legge 1º giugno
  1939, n. 1089 e del Dpr 30 settembre 1963, n. 1409. Al riguardo,
  considerazioni di ordine logico sistematico inducono ad escludere una tale
  conclusione. In questo caso, infatti, non solo si è in presenza di spese non
  propriamente inquadrabili nella tipologia delle liberalità, ma non può non
  ricordarsi che la previsione di deducibilità posta dall’articolo 65 in
  parola costituisce semplicemente una sorta di alternativa per l’impresa
  all’applicazione degli ordinari criteri di trattamento delle spese della
  specie previsti dall’articolo 67, comma 7, dello stesso Tuir.
  
  4.6. Le disposizioni concernenti le variazioni fiscali da apportare ai
  componenti della produzione, così come emergenti dall’applicazione delle
  regole contenute negli articoli 5, 6, 7 e 11, sono completate da quelle del
  comma 2 dello stesso articolo 11-bis, il quale stabilisce, in particolare, che
  ai componenti indicati nel precedente comma 1 «...vanno aggiunti i ricavi, le
  plusvalenze e gli altri componenti positivi di cui agli articoli 53, comma 2,
  54, comma 1, lettera d), e 76, comma 5, del Testo unico delle imposte sui
  redditi...».
  
  La norma, è il caso di precisare, assume specifica valenza innovativa per ciò
  che attiene al trattamento degli atti di destinazione a finalità estranee o
  di assegnazione ai soci dei beni di magazzino. Si ricorderà, invece, che per
  i beni ammortizzabili l’idoneità di tali atti a produrre componenti
  tassabili ai fini Irap era stata già affermata dal ministero delle Finanze in
  via interpretativa in base alla regola ora contenuta nel comma 3
  dell’articolo 11 e, in precedenza, nella lettera a) del comma 1 dello stesso
  articolo, sulla rilevanza in ogni caso delle plusvalenze e della minusvalenze
  relative ai suddetti beni. Ad analoga conclusione lo stesso ministero era
  pervenuto anche con riguardo ai componenti «fiscali» che possono emergere in
  sede di applicazione delle regole sul cosiddetto «transfer pricing» di cui
  al citato comma 5 dell'articolo 75 del Tuir.
  
  Ciò posto, è il caso di precisare che, come opportunamente chiarito nelle
  istruzioni al modello di dichiarazione, il richiamo alla disposizione della
  lettera d) del comma 1 del citato articolo 54 del Tuir non consente di
  attrarre a tassazione ai fini dell’Irap plusvalenze derivanti dagli atti di
  destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci di beni diversi da
  quelli strumentali ammortizzabili ai fini fiscali. Analogamente, per ciò che
  attiene ai ricavi, il richiamo al comma 2 dell’articolo 53 del Tuir va
  inteso, in relazione alle diverse categorie di soggetti, come fatto
  esclusivamente ai beni suscettibili di generare ricavi tassabili ai fini Irap.
  Cosicché, per i soggetti dell’articolo 5 (imprese industriali e
  commerciali), assumono rilievo solo i ricavi di origine fiscale derivanti da
  atti di destinazione o di assegnazione aventi esclusivamente ad oggetto beni
  di cui alle lettera a) e b) del comma 1 del citato articolo 53; mentre, per i
  soggetti di cui agli articoli6 e 7 (banche e altri enti finanziari e imprese
  di assicurazione) assumono rilievo solo gli atti aventi ad oggetto beni di cui
  alla lettera c) del comma 1 dello stesso articolo 53.
  
  Ciò chiarito, notevole rilievo assumono alcune precisazioni contenute nelle
  istruzioni ministeriali al nuovo quadro IQ con riferimento all’applicazione
  in ambito Irap delle disposizioni recate dall’articolo 13 del decreto
  legislativo 4 dicembre 1997 n. 460, in materia di trattamento delle erogazioni
  liberali a Onlus.
  
  Come è noto, in tale norma viene stabilito espressamente che «... non si
  considerano destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai
  sensi dell’articolo 53, comma 2....» i beni alla cui produzione o al cui
  scambio è diretta l’attività dell’impresa ceduti gratuitamente alle
  Onlus. Con particolare riguardo, poi, alle derrate alimentari e ai prodotti
  farmaceutici la norma, nel caso in cui la cessione gratuita sia effettuata in
  alternativa alla usuale eliminazione dal processo produttivo, ammette in
  deduzione dal reddito d’impresa il relativo costo; mentre, con riguardo ai
  beni di magazzino delle imprese diverse da quelle farmaceutiche o alimentari,
  il costo, nei limiti dell’importo complessivo di due milioni, viene
  trattato, ai fini del reddito d’impresa, quale erogazione liberale ai sensi
  della lettera c-sexies) del comma 2 del richiamato articolo 65 del Tuir.
  
  Le istruzioni alla sezione I del quadro IQ in commento, precisano che in
  entrambi i casi la disattivazione dell’articolo 53, comma 2, esplica effetti
  anche ai fini Irap. Quanto, invece, al trattamento del costo dei beni ceduti
  gratuitamente, le istruzioni precisano che nel primo caso (derrate alimentari
  e prodotti farmaceutici) esso «...rileva ai fini della determinazione della
  base imponibile Irap alle stesse condizioni valevoli ai fini delle imposte sui
  redditi»; mentre, nel secondo caso, in coerenza con la regola che ora
  sancisce in via di principio l’indeducibilità di tutte le erogazioni
  liberali, le istruzioni precisano che «... il costo dei beni non assume
  rilievo...».
  
  Le riportate affermazioni ministeriali, sembra il caso di osservare,
  dovrebbero valere anche al di là delle specifiche fattispecie considerate;
  infatti, sottendono il principio secondo cui ogni qualvolta una norma di
  carattere speciale deroghi espressamente, ai fini del reddito d’impresa,
  alla presunzione di destinazione a finalità estranee posta dal citato comma 2
  dell’articolo 53, essa viene ad esplicare effetti anche ai fini dell’Irap.
  
  Sul piano generale, inoltre, sembra potersi ritenere, nell’ottica del nuovo
  assetto sistematico, che analoga valenza in ambito Irap debbano assumere tutte
  le disposizioni che agli effetti delle imposte sui redditi qualifichino come
  «neutrali» determinati atti di trasferimento di singoli beni aziendali.
  
  Modifiche normative in materia di aliquote dell’imposta regionale
  
  5.1. Come si è detto, la legge finanziaria per il 2000, legge 23 dicembre
  1999, n. 488, ha introdotto modifiche in materia di aliquote dell’imposta
  regionale riguardanti, in particolare, l’applicazione dei regimi di
  carattere transitorio previsti dai commi 1 e 2 dell’articolo 45 del Dlgs n.
  446 del 1997, rispettivamente, nei confronti dei soggetti operanti nel settore
  agricolo e nei confronti delle banche e degli altri soggetti finanziari nonché
  delle imprese di assicurazione.
  
  Con riferimento, anzitutto, al regime di aliquota ridotta previsto nei
  confronti dei soggetti operanti nel settore agricolo, il comma 1 del citato
  articolo 45, così come modificato dall’articolo 6, comma 17, lettera a),
  della legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso
  al 1° gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999 l’aliquota è stabilita nella
  misura dell’1,9 per cento; per i quattro periodi d’imposta successivi,
  l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 2,3, del 2,5, del
  3,10 e del 3,75 per cento».
  
  L’intervento normativo determina, dunque, una rimodulazione, "in melius",
  della misura dell’aliquota ridotta applicabile nel periodo transitorio e
  l’allungamento di tale periodo. In concreto, ferma restando, ovviamente,
  l’aliquota dell’1,9 per cento per il periodo in corso al 1° gennaio 1998,
  la modifica comporta: il mantenimento dell’aliquota dell’1,9 per cento, in
  luogo del 2,6 per cento, anche per il periodo d’imposta in corso al 1°
  gennaio 1999; la riduzione dell’aliquota, per i successivi periodi 2000,
  2001 e 2002, rispettivamente, dal 3,1 al 2,3 per cento, dal 3,35 al 2,5 per
  cento e dal 3,85 al 3,10 per cento; l’estensione, infine, del regime
  dell’aliquota ridotta (3,75 per cento) anche al periodo 2003, che in
  precedenza avrebbe invece segnato il passaggio all’aliquota ordinaria.
  
  Ciò precisato, è appena il caso di aggiungere che nulla viene a mutare in
  ordine alla individuazione dei soggetti ammessi al regime dell’aliquota
  ridotta nonché, in caso di applicazione sia dell’aliquota ridotta che
  dell’aliquota ordinaria (ovvero di quella maggiorata), in ordine ai criteri
  di ripartizione della base imponibile.
  
  Di segno opposto è, invece, l’intervento che ha riguardato il regime di
  aliquota maggiorata previsto nei confronti delle banche e degli altri soggetti
  finanziari e delle imprese di assicurazione. Infatti, il comma 2 del citato
  articolo 45 del Dlgs n. 446, così come risultante dopo le modifiche allo
  stesso apportate dalla lettera b) del citato comma 17 dell’articolo 6 della
  legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso al 1°
  gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l’aliquota è
  stabilita nella misura del 5,4 per cento; per i due periodi d’imposta
  successivi, l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e
  del 4,75 per cento». In pratica, per tali soggetti, viene disposto
  l’aumento - rispettivamente, dal 5 al 5,4 per cento e dal 4,75 al 5,4 per
  cento - della misura dell’aliquota maggiorata che si sarebbe dovuta
  applicare, in base alla previgente disciplina, per il periodo d’imposta in
  corso al 1° gennaio 1999 e per quello in corso al 1° gennaio 2000 e,
  inoltre, il prolungamento ai periodi d’imposta 2001 e 2002 del regime
  transitorio che, in precedenza, avrebbe dovuto concludersi con il periodo
  2000.
  
  5.2. Così illustrati, in via generale, gli effetti conseguenti alle modifiche
  introdotte, sembra opportuno svolgere alcune ulteriori precisazioni ai fini
  della corretta individuazione dell’ambito temporale di applicazione dei
  regimi transitori in questione nei confronti dei soggetti con periodo
  d’imposta non coincidente con l’anno solare.
  
  Com’è noto, per tali soggetti, l’entrata in vigore dell’Irap non è
  necessariamente coincisa con la data del 1° gennaio 1998; ciò dipendendo
  dalla circostanza che l’esercizio in corso a tale data fosse o meno iniziato
  dopo il 30 settembre 1997. Conseguentemente, il riferimento contenuto nel
  comma 1 dell’articolo 45 in esame «... ai periodi d’imposta in corso al 1°
  gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999...» nonché quello contenuto nel comma 2
  «... ai periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999
  e al 1° gennaio 2000...» deve essere correttamente inteso, per tali
  soggetti, come fatto, rispettivamente, ai primi due e ai primi tre periodi di
  applicazione dell’Irap. Così, per una società il cui esercizio abbia
  cadenza 1° luglio-30 giugno, i riferimenti in questione dovranno intendersi
  fatti ai periodi 1998-99, 1999-2000 e 2000-2001, anche se non in corso,
  rispettivamente, alla data del 1° gennaio 1998, del 1° gennaio 1999 e del 1°
  gennaio 2000. In questo senso, si ricorda, le istruzioni al quadro IQ delle
  società di capitali e degli enti equiparati (nonché quelle al quadro IQ
  degli enti non commerciali) chiariscono — con una precisazione espressamente
  riferita all’applicazione dell’aliquota ridotta dell’1,9 per cento, ma
  che, ovviamente, non potrebbe non valere anche per l’applicazione
  dell’aliquota maggiorata del 5,4 per cento — che tale misura si rende
  applicabile «... per il secondo periodo di applicazione dell’Irap, anche se
  iniziato successivamente al 1° gennaio 1999...».
  
  5.3. Come si è visto, le modifiche recate ai commi 1 e 2 del citato articolo
  45 del Dlgs n. 446 assumono valenza immediata, dato che interessano anche
  l’aliquota applicabile per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio
  1999 che, nella generalità dei casi (contribuenti con esercizio coincidente
  con l’anno solare), costituisce oggetto della presente dichiarazione. Va,
  peraltro, ricordato che in base a quanto previsto dal comma 18 dello stesso
  articolo 6 della legge n. 488, dette modifiche «... non hanno effetto ai fini
  della determinazione dell’imposta da versare a titolo di acconto per il
  periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 1999».
  
  Al riguardo, occorre considerare che, nella generalità dei casi, al momento
  dell’entrata in vigore delle nuove aliquote, risultava già scaduto il
  termine per l’effettuazione della seconda ed ultima rata di acconto relativa
  al periodo d’imposta 1999. È presumibile, dunque, che con la trascritta
  disposizione si sia inteso far salvi i comportamenti adottati dai contribuenti
  sulla base delle aliquote vigenti prima delle modifiche. Coerentemente con
  tale finalità, la norma dovrebbe esplicare la sua portata esclusivamente nei
  confronti dei soggetti finanziari e delle imprese di assicurazione che,
  facendo affidamento sull’aspettativa, per il periodo 1999,
  dell’applicabilità della più bassa aliquota del 5 per cento, abbiano
  esercitato la facoltà di commisurare l’acconto su base previsionale. Per
  tali soggetti, quindi, ai fini della verifica della congruità dei versamenti
  di acconto assumerà rilievo il minore importo tra il 98 per cento della
  cosiddetta «imposta facciale» (rigo IQ87 del Mod. Unico 1999) e il 98 per
  cento dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 (rigo IQ88 del
  Mod. Unico 2000) ricalcolata con l’aliquota del 5 per cento.
  
  Peraltro, stando al suo dato letterale, la trascritta previsione secondo cui
  le modifiche di aliquota non producono effetti sulla determinazione degli
  acconti sembrerebbe doversi applicare anche nei confronti dei soggetti
  operanti nel settore agricolo; nel senso cioè che anche per tali soggetti, ai
  fini della verifica di congruità dei versamenti, assumerebbe rilievo il
  minore importo tra il 98 per cento dell’imposta facciale e il 98 per cento
  dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 ricalcolata con
  l’aliquota del 2,6 per cento. Senonché, appare evidente che tale
  interpretazione potrebbe condurre all’applicazione delle sanzioni, in
  ipotesi, anche nei riguardi del contribuente che abbia versato in acconto un
  importo pari o addirittura superiore all’imposta effettivamente dovuta in
  base all’aliquota dell’1,9 per cento.
  
  Sul punto c’è da registrare un intervento ministeriale in risposta ad uno
  specifico quesito, presentato nel corso del «Telefisco» del 29 febbraio di
  quest’anno, con il quale era stato espressamente chiesto se la modifica in
  questione avesse l’unico significato di rendere inapplicabili le sanzioni ai
  soggetti che si siano comportati in sede di acconto adottando aliquote
  inferiori rispetto a quelle nuove. Il contenuto della risposta non sembra aver
  fugato tutti i dubbi sulla questione che, a nostro avviso, meriterebbe un più
  esplicito chiarimento da parte dei competenti uffici ministeriali.
  
  Quale che sia comunque la soluzione di tale problema, c’è da aggiungere
  che, in alcuni casi, l’applicazione dell’aliquota ridotta per il settore
  agricolo può abbinarsi all’applicazione, su un’altra quota di base
  imponibile, dell’aliquota ordinaria (4,25 per cento) o della stessa aliquota
  maggiorata (5,4 per cento). In tale situazione, è chiaro che la verifica
  della congruità dei versamenti in acconto, nei confronti del soggetto che si
  avvalga della facoltà di commisurarne l’importo al dato "previsionale",
  andrà operata con riferimento all’imposta complessiva unitariamente
  considerata.
  
  5.4. A completamento delle osservazioni che precedono, non può escludersi
  che, in presenza di periodi autonomi venutisi a specificare nel corso del
  1999, al momento dell’entrata in vigore delle modifiche recate dalla citata
  legge finanziaria (1° gennaio 2000) risultasse già scaduto il termine per il
  versamento dell’imposta a saldo e per la presentazione della dichiarazione
  relativamente al periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999. Può
  essere, ad esempio, il caso di un soggetto per il quale, a seguito di
  un’operazione di fusione ovvero, più semplicemente, di una modifica della
  durata dell’esercizio, si sia individuato un periodo d’imposta 1° gennaIo
  1999-30 giugno 1999. Al riguardo — anche prescindendo sul punto da ogni
  considerazione in ordine alla possibilità, sul piano della legittimità, di
  applicare con effetto retroattivo le nuove aliquote anche nelle descritte
  situazioni — proprio sulla base dell’esaminata regola sugli acconti di cui
  al citato comma 18 dell’articolo 6 sembrerebbe potersi desumere «a
  contrariis» che, con riguardo ai periodi d’imposta chiusi prima del 31
  dicembre 1999, le modifiche delle aliquote non interferiscano neanche sui
  versamenti dell’imposta a saldo. Anche tale questione meriterebbe di essere
  affrontata dal ministero delle Finanze. Va aggiunto, però, che ove si
  propendesse per l’applicabilità retroattiva delle nuove aliquote anche per
  i periodi già chiusi e con termine per il versamento a saldo già scaduto,
  dovrebbero essere fornite idonee istruzioni attuative; ferma restando,
  comunque, l’inapplicabilità delle sanzioni, nel rispetto dei principi posti
  dal Dlgs n. 472 del 1997, nei confronti dei soggetti che abbiano eventualmente
  liquidato l’imposta in base all’aliquota inferiore (5 per cento) vigente
  al momento del suddetto termine di scadenza del versamento.