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Facoltà di GIURISPRUDENZA

Prof. Raffaello Lupi                                                 


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Circolare Assonime  10 maggio 2000, n. 34  "

Imposta regionale sulle attività produttive dopo le modifiche introdotte dal decreto legislativo 506/99"

Viene omesso il paragrafo n. 6, relativo alla compilazione del modello IQ di dichiarazione IRAP.


Modifiche alla disciplina di determinazione della base imponibile: considerazioni generali

1.1. Numerose e di varia natura sono le integrazioni e le correzioni apportate dal citato Dlgs n. 506 del 1999 al Dlgs n. 446 del 1997. Tralasciando in questa sede di dare conto delle modifiche che hanno interessato il Titolo III del decreto (concernente le disposizioni sul «Riordino della disciplina dei tributi locali»), va detto che l’intervento in materia di Irap ha avuto ad oggetto, essenzialmente, le regole di determinazione della base imponibile delle imprese in genere e la disciplina di applicazione dell’imposta regionale per il cosiddetto «comparto pubblico».

Per quanto riguarda tale secondo filone d’intervento, ci limitiamo semplicemente a ricordare che, oltre a una più puntuale definizione dei soggetti passivi "pubblici" — ora individuati attraverso il richiamo agli organi dello Stato e alle Amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (concernente norme in materia di pubblico impiego) — il Dlgs n. 506 ha introdotto importanti modifiche in materia di aliquota.

In particolare, il comma 2 dell’articolo 16 del citato Dlgs n. 446 prevede ora, in luogo delle diverse misure del prelievo per scaglioni e per tipologia di emolumenti erogati, un’unica aliquota dell’8,5 per cento applicabile indistintamente su tutti gli emolumenti e senza massimali. La nuova misura del prelievo si è resa applicabile a partire dal 1º gennaio 2000 e riguarda, è il caso di precisare, esclusivamente il valore della produzione derivante dall’esercizio delle attività istituzionali, determinabile in base al cosiddetto "sistema retributivo". Pertanto, qualora siano svolte anche attività commerciali e venga esercitata l’opzione per l’applicazione delle regole ordinarie, sulla quota di valore della produzione ad esse imputabile continuerà ad applicarsi l’aliquota del 4,25 per cento; analogamente, in caso di esercizio di attività agricola nei limiti dell’articolo 29 del Tuir, si renderà applicabile, sulla quota di base imponibile a essa riferibile, l’aliquota ridotta del 1,9 per cento.

Concentrando lo sguardo sulle modifiche che hanno interessato le regole di determinazione della base imponibile delle imprese, occorre preliminarmente rilevare che solo alcune di esse rivestono portata sostanziale, determinando, così, la tassazione di componenti positivi precedentemente esclusi ovvero la deducibilità di componenti negativi prima irrilevanti o, per converso, la indeducibilità di componenti negativi prima ammessi in deduzione.

Assumono tale valenza le disposizioni recate dal nuovo articolo 11-bis con le quali, da un lato, è stata disposta l’attrazione nella base imponibile dei ricavi di origine "fiscale" derivanti dalla destinazione dei beni di magazzino a finalità estranee all’esercizio d’impresa o dalla loro assegnazione ai soci e, dall’altro, è stata sancita la irrilevanza agli effetti dell’Irap anche delle liberalità ammesse in deduzione ai fini delle imposte sui redditi. Si tratta di norme, per così dire, di chiusura, volte cioè ad affermare l’applicazione del prelievo, coerentemente con il presupposto impositivo, anche nel caso in cui i beni oggetto dell’attività non siano, per scelta dell’imprenditore, destinati al mercato e a rendere irrilevante qualunque destinazione "improduttiva" del patrimonio d’impresa. Analoga portata sostanziale assume, inoltre, la previsione inserita nell’articolo 6 con la quale viene riconosciuta, con specifico riguardo alle banche e agli altri enti finanziari, la deducibilità dalla base imponibile degli accantonamenti ai fondi per rischi su crediti. In questo caso, la modifica risponde all’opportunità di eliminare, in presenza di componenti rilevanti per entrambe le discipline impositive, quali quelli concernenti le vicende dei crediti alla clientela, possibili disarmonie nella determinazione del valore della produzione assoggettabile ad Irap e del reddito d’impresa assoggettabile ad Irpeg.

Tutte le altre modifiche introdotte dal Dlgs n. 506 del 1999 rispondono, invece, all’esigenza di un riassetto formale della disciplina di determinazione del valore della produzione delle imprese; ciò, nel duplice intento di attuare un miglior coordinamento sistematico fra le varie disposizioni e di consolidare nel testo di legge alcune delle soluzioni di maggior rilievo adottate in via interpretativa dell’Amministrazione finanziaria.

In particolare, ciò si è tradotto nella completa riformulazione dell’articolo 5, che si occupa della determinazione del valore della produzione netta delle imprese industriali e commerciali, e nella suddivisione dell’articolo 11, relativo alle «disposizioni comuni», in due articoli distinti: l’articolo 11, in versione riformulata, dedicato, per l’appunto, alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione netta» e l’articolo 11-bis — articolo, come accennato, di nuova istituzione — dedicato alle «Variazioni fiscali del valore della produzione netta».

Nel loro complesso, le apportate modifiche conferiscono maggior chiarezza e organicità alla disciplina impositiva. Va, tuttavia, subito evidenziato che il provvedimento in esame non ha accolto cambiamenti nei meccanismi di determinazione della base imponibile che pure erano stati auspicati, soprattutto in fuzione di una maggior semplificazione della disciplina, anche dalla stessa Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma tributaria. Ciò sembra imputabile non a una scelta del legislatore di disattendere tali richieste, quanto piuttosto alla constatata impossibilità, stanti i limiti posti dal richiamato articolo 17, comma 3, della legge n. 662 del 1997, di operare interventi correttivi ed integrativi non in linea con gli originari principi e criteri direttivi di delega.

È importante ricordare che le problematiche concernenti l’applicazione del tributo nei confronti delle società di capitali e delle imprese in genere sono derivate principalmente, se non esclusivamente, dalla originaria scelta della legge di delega di individuare gli elementi positivi e negativi rilevanti ai fini del tributo attraverso il diretto riferimento a specifiche voci di conto economico ritenute espressive del valore della produzione "corrente". Di qui, la necessità di utilizzare, per la "selezione" di tali elementi, i criteri di classificazione valevoli per le rappresentazioni di bilancio.

In considerazione di tale diretta influenza delle appostazioni contabili sul regime impositivo — vale a dire, del fatto che dalla collocazione di un determinato componente in una o in altra voce del conto economico potesse dipendere l’esistenza stessa della base imponibile e della correlata capacità contributiva — il legislatore aveva avvertito la necessità di fissare, con l’apposita previsione recata dal comma 2 del previgente articolo 11, la regola per cui «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, le componenti positive e negative sono accertate in ragione della loro classificazione secondo corretti principi contabili». Ed è sulla base di tale previsione che lo stesso ministero delle Finanze ha ritenuto opportuno fare, a questi fini, specifico riferimento ai criteri di classificazione dei costi e dei ricavi indicati nel documento integrativo al Principio contabile n. 12 del Consiglio nazionale dei ragioneri e dottori commercialisti.

Senonché, in sede di concreta applicazione della disciplina impositiva, l’automatica assunzione delle classificazioni di bilancio ha fatto emergere alcuni effetti non pienamente compatibili con il presupposto impositivo e anche idonei a generare fenomeni di cosiddetto «terzo binario» (concernenti, cioè, divergenze tra valori fiscali ai fini Irap e valori fiscali ai fini Irpeg); ponendo, così, in evidenza l’aspetto di maggior criticità insito nella originaria scelta operata dal legislatore. Si ricordereranno, a questo proposito, le problematiche relative, ad esempio, al trattamento delle sopravvenienze in genere e delle rivalutazioni "straordinarie" dei beni di magazzino che, in quanto classificabili in voci di conto economico non rilevanti ai fini Irap, avrebbero dato luogo a possibili salti o duplicazioni d’imposta. Ed è opportuno sottolineare come tale ordine di problemi non nascesse, evidentemente, da una presunta "non correttezza" di tali appostazioni contabili, ma, più semplicemente, dalla circostanza che, dovendo le classificazioni di bilancio rispondere ad altre finalità rappresentative, non sempre le stesse possono risultare coerenti con la determinazione della base imponibile Irap e, quindi, con il "ruolo" ad esse assegnato in tale specifico ambito della disciplina fiscale.

Da tali problematiche sono scaturiti interventi correttivi volti ad attrarre nella formazione della base imponibile anche voci correttamente classificate nel conto economico al di fuori delle entrate e delle spese correnti e, tuttavia, in vario modo correlate al «valore della produzione», considerato l’aggregato rilevante ai fini della determinazione del prelievo impositivo. È restato però sullo sfondo il tratto peculiare della originaria impostazione legislativa: la circostanza, cioè, che, in linea generale, l’assunzione delle voci rappresentative delle entrate e spese "correnti" e la distinzione di esse dalle restanti voci non concorrenti alla formazione della base imponibile del tributo dipende pur sempre da criteri classificatori non definiti dal legislatore fiscale, ma rimessi alla disciplina civilistica e contabile del bilancio.

In tale delineato contesto, occorre inquadrare l’intervento che sullo specifico punto ha operato il Dlgs n. 506. Intendiamo riferirci, in particolare, alla modifica che ha riguardato proprio la disposizione contenuta nel richiamato comma 2 del previgente articolo 11, di cui, per ragioni espositive, è opportuno anticipare l’esame.

Nella sua originaria versione, si è visto, la norma poneva riferimento alla classificazione dei componenti positivi e negativi «... secondo corretti principi contabili». A seguito della modifica operata dal Dlgs n. 506, la norma — ora collocata nel comma 4 del riformulato articolo 11 — prevede, invece, che «Indipendentemente dalla collocazione nel conto economico, i componenti positivi e negativi sono accertati in ragione della loro corretta classificazione».

Nella relazione di accompagnamento si osserva che con tale modifica si è inteso chiarire che i principi contabili cui le parti del rapporto tributario devono far riferimento sono quelli astrattamente idonei ad "informare" una corretta redazione del bilancio. Da più parti, peraltro, sono state avanzate perplessità su questa modifica, nel timore che la stessa potrebbe privare la disciplina dell’Irap di riferimenti obiettivi — quali quelli desumibili, specificamente, dal citato documento integrativo del principio contabile nazionale n. 12 — idonei a dare certezze nel delicato tema delle classificazioni.

In effetti, i principi elaborati dal Consiglio nazionale dei ragionieri e dei dottori commercialisti hanno da sempre fornito un valido supporto per la determinazione del reddito d’impresa; a maggior ragione questa funzione essi esplicano, per ovvi motivi, nella identificazione della base imponibile del tributo regionale, in considerazione della rilevanza che gli stessi rivestono nella redazione del bilancio. È chiaro, tuttavia, che ad essi non può essere assegnata valenza normativa, neanche di fonte secondaria. Ed è in questo senso che, probabilmente, vanno intese le indicazioni poste dal decreto legislativo in esame. Al riguardo, giova rilevare ancora una volta, la base imponibile dell’Irap trae diretta origine, per espressa scelta del legislatore delegante, dalle classificazioni di bilancio, alle quali deve, pertanto, adeguarsi; nella «subiecta materia», dunque, il valore dei principi contabili redatti dagli organi professionali non può essere diverso da quello che essi assumono per la redazione del bilancio stesso. In questo senso, evidentemente, la disciplina dell’Irap non potrebbe interferire sul rapporto di tali principi con il bilancio né tantomeno modificarlo, ma solo assumerlo agli effetti dell’applicazione del tributo così come esso si esplica nell’ambito della disciplina civilistica. Il problema in discussione, dunque, attiene alla struttura di fondo dell’Irap, alla sua colleganza con il bilancio e in particolare con talune voci del conto economico espressamente indicate dalla norma, le quali vanno individuate applicando — e, quindi, non alterando — i "corretti" criteri che presiedono alla redazione del bilancio stesso.

Venendo a profili più strettamente operativi, osserviamo che comunque l’intervento normativo non ha prodotto mutamenti rilevanti del quadro di riferimento. Va anzi osservato che il problema stesso delle classificazioni è venuto sensibilmente ad attenuarsi, oltre che per effetto delle modifiche apportate dai precedenti interventi correttivi, proprio in virtù delle altre innovazioni introdotte dal decreto in commento. Riguardo, infatti, alle imprese industriali e commerciali, per le quali questo tema è particolarmente avvertito, la riformulazione dell’articolo 5 del Dlgs n. 446 elimina alcune incertezze sulla identificazione delle voci del conto economico da assumere nel valore della produzione. Fermo restando, inoltre, che i principi contabili espressi dai dottori commercialisti e dai ragionieri, se pur non aventi valenza normativa, costituiscono un ausilio interpretativo e applicativo della disciplina codicistica del bilancio di comune accettazione e come tale, quindi, oggettivamente utilizzabile tanto dai contribuenti che dall’Amministrazione finanziaria. Del resto, non può essere privo di significato il fatto che molte delle interpretazioni fornite dal ministero delle Finanze in questa prima fase di applicazione del tributo — interpretazioni che hanno, poi, ispirato i vari interventi correttivi, compreso come vedremo anche quello in esame — sono state adottate proprio in relazione alle indicazioni classificatorie delle poste del conto economico contenute, come detto, nel documento integrativo del citato principio contabile n. 12.

Determinazione del valore della produzione delle imprese industriali e commerciali in genere

2.1. Come si è già avuto modo di rilevare, delle modifiche apportate dal richiamato Dlgs n. 506 del 1999 alla disciplina di determinazione della base imponibile delle società di capitali e delle imprese in genere solo alcune assumono reale portata innovativa. La riformulazione delle disposizioni contenute negli articoli 5 e 11 del Dlgs n. 446 del 1997 rende, peraltro, opportuno procedere a un riesame completo del quadro normativo, al fine di evidenziare anche le disposizioni che pur essendo di nuova introduzione risultano tuttavia conformi a soluzioni già desumibili, ancorché in via interpretativa, nel precedente assetto. Va osservato, infatti, che ai fini della decorrenza, l’articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 506 in esame non opera alcuna distinzione tra disposizioni innovative e non, limitandosi semplicemente a stabilire che tutte le modificazioni — ad eccezione di quelle riguardanti la fissazione della misura dell’aliquota per il comparto pubblico, operanti, come detto, a partire dal 1º gennaio 2000 — si applicano dal periodo d’imposta «...in corso alla data di emanazione...» del provvedimento; data che, sembra il caso di precisare, coincide con quella della firma del decreto legislativo da parte del Presidente della Repubblica, apposta, nella specie, il giorno 30 dicembre 1999.

2.2. Per quanto riguarda l’articolo 5 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente l’individuazione delle componenti contabili rilevanti ai fini del valore della produzione delle imprese industriali e commerciali, le modifiche consistono nella riformulazione del comma 1 e nella soppressione del comma 2. Per effetto di tale intervento, dunque, la norma risulta ora composta da un Unico comma il quale dispone che per i suddetti soggetti «... la base imponibile è determinata dalla differenza tra la somma delle voci classificabili nel valore della produzione di cui alla lettera a), dell’articolo 2425 del codice civile e la somma di quelle classificabili nei costi della produzione di cui alla lettera b) del medesimo comma, ad esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente».

La trascritta formula normativa si differenzia rispetto a quella previgente essenzialmente per tre aspetti: per il riferimento, nell’individuazione dei componenti negativi rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile, a tutti i costi della produzione classificabili nella lettera b) del citato comma 1 dell’articolo 2425 del codice civile e non più, quindi, a specifiche voci tassativamente elencate; per l’esclusione esplicita, dal novero di tali componenti, dei costi relativi al «fattore lavoro», prima affermata, invece, in forma implicita attraverso la non inclusione della voce B9 nell’elenco tassativo contenuto nella precedente versione della norma; infine, per la previsione dell’esclusione delle perdite su crediti che, si ricorderà, era in precedenza contenuta fra le disposizioni comuni dell’articolo 11.

In linea generale, la finalità dell’intervento è di rendere più agevole, soprattutto sotto il profilo metodologico, la individuazione del valore della produzione netta. Nella precedente formulazione la norma imponeva, come accennato, di considerare algebricamente oltre a tutte le voci della lettera a) del conto economico, solo alcune delle voci della lettera b) appositamente individuate dalla norma stessa; comportando, quindi, per gli operatori la necessità di affrontare varie questioni interpretative sulla portata della esclusione di talune voci ovvero dell’inclusione di talune altre e sulla esatta classificazione dei componenti economici all’interno delle une e delle altre. È chiaro, dunque, che l’assunzione, nella nuova formulazione, di tutte le voci di conto economico relative alla lettera b), elimina sotto questo profilo ogni questione. Ciò non significa, però, che sia stata operata una sostanziale modifica della determinazione della base imponibile; la disposizione, come la stessa relazione chiarisce, non ha questi effetti se non per alcuni aspetti limitati e di sistema che esamineremo in dettaglio nei prossimi paragrafi. Infatti, la riconducibilità, in linea generale, nel valore della produzione degli stessi componenti negativi che fino ad oggi hanno assunto rilievo a questi fini, è assicurata per altra via: ad opera, innanzitutto, della prescrizione, contenuta nel medesimo articolo 5, secondo cui non concorrono, comunque, nel valore della produzione le perdite su crediti e le spese per il personale dipendente e, inoltre, dell’applicazione del principio di fondo contenuto nel nuovo articolo 11-bis — peraltro, recepito dal preesistente articolo 11 — secondo cui i componenti tratti dalla contabilità per formare il valore della produzione vanno rideterminati apportando ad essi «le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi».

Quanto alla prevista irrilevanza delle perdite su crediti e delle spese del personale, è questa evidentemente una previsione di carattere sostanziale che ha il fine di escludere "tout court" — in coerenza con una scelta di fondo già assunta nei precedenti provvedimenti — i componenti negativi di siffatta natura quali che siano le modalità con cui essi risultino imputati nel conto economico; e cioè — come si legge nella stessa relazione accompagnatoria — sia che la loro imputazione avvenga attraverso voci che esprimono la definitività delle perdite e delle spese stesse sia che, a maggior ragione, venga realizzata per il tramite di altre poste meramente valutative della loro sussistenza, quali l’accantonamento a fondi o lo stanziamento di svalutazioni.

In merito, poi, alla rideterminazione delle voci della lettera B del conto economico con i criteri valevoli ai fini delle imposte sul reddito, è noto che questi criteri si fondano sul principio di negare rilevanza, in linea generale, agli accantonamenti e alle svalutazioni con eccezione di talune poste espressamente individuate dalla stessa norma ed entro limiti appositamente stabiliti. Questo assetto, si ricorda, già per effetto del Dlgs n. 137 del 1998 era stato recepito anche nella disciplina dell’Irap. Sicché, è apparso opportuno intervenire sull’articolo 5 nella parte in cui escludeva indiscriminatamente tutti i fondi e le svalutazioni dal concorso alla formazione della base imponibile; esclusione — chiarisce la relazione — superflua ed in un certo senso fuorviante, dato che nell’articolo 11, così come riformulato dallo stesso Dlgs n. 137 del 1998, la materia veniva riconsiderata nell’ottica — come detto — della disciplina delle imposte sui redditi.

Resta da aggiungere, a completamento dell’illustrazione dell’intervento operato dal Dlgs n. 506, che la disposizione in precedenza contenuta nella lettera a) dell’articolo 11 — volta ad attrarre in ambito Irap «...i componenti positivi e negativi, conseguiti o sostenuti in periodi d’imposta anteriori a quello in corso alla data di entrata in vigore...» dell’imposta regionale e «... la cui imputazione sia stata rinviata in applicazione delle norme del predetto testo Unico...» — è stata espunta dalla disciplina "a regime" contenuta nel Dlgs n. 446 e inserita, in coerenza con il suo carattere meramente transitorio, nel comma 2 dell’articolo 1 dello stesso decreto correttivo n. 506 in esame.

2.3.Dalle considerazioni che precedono, emerge dunque che la riformulazione dell’articolo 5 non determina conseguenze sostanziali in ordine al trattamento dei costi classificabili nelle voci della lettera b) del conto economico non menzionate nella precedente versione della norma: si tratta, è il caso di ricordare, delle altre svalutazioni delle immobilizzazioni (di cui alla lettera c della voce B10), delle svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide (di cui alla lettera d della stessa voce B10) e, inoltre, di tutti gli accantonamenti per rischi e oneri (di cui alle voci B12 e B13).

Non sembra superfluo riverificare in concreto tale affermazione di principio in relazione a ciascuna delle suindicate voci, anche al fine di porre in evidenza alcune ulteriori implicazioni sistematiche del nuovo assetto normativo.

Partendo dalla prima delle voci di costo in considerazione, vale a dire dalle altre svalutazioni delle immobilizzazioni classificabili nella voce B10, lettera c) del conto economico, non dovrebbero sussistere dubbi sulla invarianza di trattamento, posto che con riferimento ai beni strumentali materiali e immateriali la disciplina del reddito d’impresa non ammette, in via di principio, rettifiche di valore diverse da quelle deducibili a titolo di ammortamento secondo le disposizioni dettate agli articoli 68 e 69 del Tuir e normalmente classificabili nelle precedenti lettera a) e b) della stessa voce B10 del conto economico.

Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, ancorché il discorso risulti più articolato, in riferimento agli accantonamenti per rischi e oneri e alle svalutazioni dei crediti del circolante (e delle disponibilità liquide).

Invero, proprio con riguardo agli accantonamenti per rischi e oneri — escluso, sulla base del richiamato principio generale, che possano risultare rilevanti ai fini dell’Irap accantonamenti diversi da quelli ammessi in deduzione ai fini dell’Irpeg (o dell’Irpef) — occorre ricordare che già nel previgente assetto normativo era stata espressamente sancita la deducibilità anche ai fini dell’Irap di alcuni accantonamenti previsti dal Tuir nella determinazione del reddito d’impresa. Si trattava, in particolare: degli accantonamenti relativi alle indennità per la cessazione dei rapporti di agenzia (di cui all’articolo 70, comma 3, del Tuir), degli accantonamenti effettuati a fronte delle spese per lavori ciclici di manutenzione e revisione delle navi e aeromobili (di cui all’articolo 73, comma 1), degli accantonamenti effettuati dalle imprese concessionarie della costruzione ed esercizio di opere pubbliche a fronte delle spese di ripristino o sostituzione dei beni gratuitamente devolvibili (di cui al comma 2 dello stesso articolo 73) e, infine, degli accantonamenti per oneri derivanti da operazioni a premio e da concorsi a premio (di cui al comma 3 del citato articolo 73 del Tuir). Per questi accantonamenti, dunque, nulla cambia; se non la circostanza che la loro rilevanza agli effetti dell’Irap non è più sancita da una norma "ad hoc" — il comma 1-bis del previgente articolo 11, ora soppresso in ragione della superfluità, nel nuovo contesto normativo, del suo contenuto — ma discende direttamente dal combinato disposto degli articoli 5 e 11-bis.

Il problema, quindi, che la nuova formulazione dell’articolo 5 viene a porre, potrebbe riguardare in definitiva solo gli altri accantonamenti ammessi in deduzione dal reddito d’impresa. Senonché, per quanto attiene, anzitutto, agli accantonamenti al fondo rischi su crediti di cui all’articolo 71 del Tuir, deve ritenersi che la conferma della loro irrilevanza anche nel nuovo assetto normativo discenda implicitamente dalla esclusione, sancita come si è visto dallo stesso articolo5, delle perdite su crediti dal novero dei componenti negativi del conto economico rilevanti ai fini dell’Irap. A questo riguardo, nella relazione di accompagnamento al Dlgs n. 506 viene, infatti, ribadito che la scelta di negare rilevanza alle perdite su crediti assume «… portata sostanziale, nel senso che tali perdite — in considerazione del fatto che esse rappresentano un fenomeno successivo alla produzione — non partecipano alla formazione della base imponibile vuoi se imputate al conto economico in via meramente estimativa attraverso accantonamenti o svalutazioni dei crediti (voci B10, lettera d) e B12), vuoi se ivi rilevate a seguito di realizzi definitivi (voce B14)». Tale impostazione — che, è il caso di sottolineare, trova conferma nelle istruzioni ai quadri IQ — appare in effetti coerente: una volta esclusa la rilevanza delle perdite subite a titolo definitivo sarebbe, infatti, illogico sul piano sostanziale ammettere la deducibilità delle perdite meramente probabili, quale che siano le modalità di rappresentazione contabile adottate (fondo o svalutazione diretta). Ciò rilevato, è noto che la scelta di fondo di trattare le vicende dei crediti del circolante alla stregua di vicende non idonee ad influenzare la determinazione della base imponibile, ha formato oggetto di rilievi critici anche da parte della Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma tributaria. Comunque, riterremmo che l’irrilevanza delle perdite su crediti non dovrebbe interferire, stante la mancanza di un’esplicita previsione in tal senso, con la deducibilità dei premi assicurativi pagati dall’impresa in relazione a crediti assicurati; si tratterebbe, infatti, di costi relativi all’acquisizione di un servizio classificabili in una voce di conto economico diversa da quelle destinate a ospitare le perdite definitive o semplicemente stimate dei crediti stessi.

Ugualmente esclusi dai componenti negativi rilevanti ai fini dell’Irap devono ritenersi anche gli altri accantonamenti che pure sono ammessi in deduzione ai fini delle imposte sui redditi. In particolare, l’esclusione degli accantonamenti al fondo oscillazione cambi, di cui all’articolo72 del Tuir, deriva dal fatto che si è in presenza di un costo che secondo i criteri di classificazione adottati dagli stessi principi contabili nazionali non sarebbe neanche iscrivibile nella voce B12 del conto economico, bensì nella voce C16 fra gli altri oneri finanziari e, quindi, non inerente alla determinazione del valore della produzione.

Considerazioni analoghe conducono, senz’altro, ad escludere la rilevanza agli effetti dell’Irap anche degli accantonamenti relativi alle indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente , di cui all’articolo70, comma 1, del Tuir. Infatti, ai fini della individuazione delle spese per il personale dipendente, escluse dal nuovo testo dell’articolo5 dai componenti negativi deducibili, il successivo articolo11, come vedremo, opera espresso riferimento ai «costi relativi al personale, classificabili nell’articolo 2425, primo comma, lettera B), numeri 9 e 14», fra i quali rientrano, secondo l’impostazione dei principi contabili nazionali, i suddetti accantonamenti (in particolare, classificabili nelle lettera c) e d) della voce B9).

2.4. Chiarito, dunque, che dall’avvenuto ampliamento delle voci di costo potenzialmente rilevanti ai fini dell’Irap non discendono, in via di principio, conseguenze sostanziali, è il caso, tuttavia, di evidenziare che il nuovo assetto normativo ha il pregio di eliminare alcuni dubbi interpretativi sorti in precedenza per il trattamento di specifici elementi di costo proprio in ragione dei loro criteri di classificabilità.

Intendiamo riferirci, in particolare, alle problematiche concernenti il trattamento agli effetti dell’Irap degli ammortamenti relativi ai beni strumentali ricompresi nei contratti di affitto o usufrutto d’azienda.

Si ricorderà, in proposito, che nella circolare n. 141/E del 1998 (cfr. il par. 3.2.1.3.3.) il ministero delle finanze, muovendo dall’asserita classificabilità — secondo i criteri indicati dal richiamato documento integrativo dei principi contabili nazionali — degli ammortamenti relativi ai cespiti dell’azienda condotta in affitto o in usufrutto nella voce B13 del conto economico, ritenne di non poter riconoscere tali costi in deduzione dall’Irap.

Nella nostra circolare n. 52 del 1998 (cfr. il par. 3.10), avemmo modo di esprimere alcune perplessità sulla fondatezza dell’affermazione ministeriale; tanto da ipotizzare la possibilità che il ministero intendesse, in effetti, riferirsi, più precisamente, ai fondi costituiti dal conduttore (affittuario-usufruttuario) per il rinnovo, in corso di contratto, dei cespiti aziendali ovvero per l’effettuazione di opere di manutenzione straordinaria. D’altra parte, ove riferita agli ammortamenti in senso tecnico — che, in quanto tali, sono idonei ad abbattere il costo fiscale dei cespiti cui si correlano — la soluzione ministeriale sul punto sarebbe risultata inconciliabile con la regola di carattere generale, introdotta dal Dlgs n. 176 del 1999 con effetto già per il periodo d’imposta 1998, secondo cui a prescindere dalla collocazione nel conto economico concorrono comunque a formare il valore della produzione gli oneri (e i proventi) correlati a componenti positivi o negativi rilevanti ai fini del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o successivi. Invero, anche muovendo dal presupposto, tutt’altro che pacifico, della classificabilità degli ammortamenti in questione nella voce B13 anziché nella voce B10, gli stessi avrebbero dovuto ugualmente rilevare ai fini dell’Irap proprio perché «collegati» al costo fiscale dei beni assunti in carico dal conduttore (affittuario-usufruttuario) e, quindi, correlati a eventuali componenti imponibili (plusvalenze o minusvalenze) che tali beni possono generare.

Comunque, il nuovo assetto normativo elimina, ove ve ne fosse bisogno, ogni residua incertezza sulla questione. In ragione, tuttavia, dell’importanza che il tema riveste, sia agli effetti delle rappresentazioni di bilancio sia agli effetti della disciplina fiscale in genere, riteniamo opportuno, di seguito, esprimere più compiutamente il nostro pensiero.

Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare che la regola posta dall’articolo 67, comma 9, del Tuir, la quale individua nel conduttore (usufruttuario o affittuario) l’imprenditore abilitato a dedurre gli ammortamenti, non sottende finalità, per così dire, agevolative; essa, piuttosto, fissa un criterio per adeguare la determinazione del reddito imponibile all’utile economico effettivo dell’impresa condotta in affitto (o in usufrutto); ciò, nel presupposto che lo stanziamento delle quote di ammortamento nelle scritture contabili del conduttore sia una diretta conseguenza della natura e degli effetti civilistici del contratto. Riprova ne è che l’articolo 14, comma 2, del Dpr 4 febbraio 1988, n. 42, recante disposizioni correttive e di coordinamento del Tuir, stabilisce espressamente che la ricordata regola non si applica «… nei casi di deroga convenzionale alle norme dell’articolo2561 del codice civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili».

Ciò premesso, occorre riconoscere che sotto il profilo civilistico il tema dell’iscrizione di questi beni nell’impresa del conduttore e del loro ammortamento ha, da sempre, generato incertezze. In ossequio, infatti, ad una meccanica applicazione del principio tradizionale, secondo cui non potrebbero trovare rappresentazione nello stato patrimoniale i beni che non sono di proprietà dell’imprenditore — e che quindi non sono avocabili dai creditori in occasione di un suo eventuale fallimento — la prassi contabile si è indirizzata nel senso di provvedere all’iscrizione di tali cespiti nei conti d’ordine del bilancio dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario. Al contrario, la migliore dottrina civilistica, cui riteniamo di dover aderire, afferma che anche tali beni vanno iscritti nel patrimonio dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario proprio in virtù dei poteri-doveri contrattuali che questi assume; poteri-doveri che (ove, beninteso, non derogati dalle parti) trascendono quelli di un normale usufrutto o affitto di singoli beni, esplicandosi — come accennato — nell’assunzione da parte del conduttore della posizione di gestore dell’azienda nell’interesse e nelle veci del proprietario e, quindi, nell’assunzione di analogo dominio sui singoli cespiti per mantenere l’efficienza produttiva della azienda stessa, quale «universitas».

D’altra parte, nessuno dubita che l’usufruttuario (o affittuario) può e deve disporre, ad esempio, delle merci al fine di realizzare i correlati ricavi e che, pertanto, per misurare esattamente l’utile deve contrapporre ai ricavi i costi di tali merci iscrivendole fra i propri cespiti aziendali. Così come non suscita incertezze il fatto che fra tali cespiti vadano iscritti i beni immessi nell’azienda dallo stesso conduttore tanto in sostituzione delle scorte cedute quanto delle immobilizzazioni dismesse. In quest’ottica, anche l’iscrizione nel patrimonio aziendale — come taluni propongono — solo dei beni sostituiti e il mantenimento nei conti d’ordine di quelli originari ancora presenti nella azienda «affittata» (o concessa in usufrutto) suscita notevoli riserve. E’ pacifico, infatti, in giurisprudenza e in dottrina civile, che, salvo patto contrario, sui beni sostituiti si instauri fin dal momento dell’acquisto l’identica situazione giuridica esistente sui beni originari successivamente dismessi: e cioè, il diritto di proprietà del locatore (o la nuda proprietà del concedente in caso di usufrutto) e il potere-dovere gestorio dell’affittuario o usufruttuario. Quindi, la descritta impostazione contabile finirebbe per rappresentare i componenti di un’unica azienda, e per di più sottoposti alla medesima situazione giuridica, parte nello stato patrimoniale e parte nei conti d’ordine del bilancio dell’affittuario (o usufruttuario).

In definitiva, l’iscrizione degli uni e degli altri nella contabilità dell’imprenditore-conduttore (o usufruttuario) verrebbe a realizzare la rappresentazione omogenea e coerente di un patrimonio avente, per il tempo contrattuale, identica natura e destinazione: un patrimonio, cioè, disponibile per l’affittuario (usufruttuario) e, viceversa, indisponibile per il proprietario ma che, al contempo, esprime un debito di restituzione del primo nei confronti del secondo al termine del rapporto.

Sott’altro profilo, e in via più generale, non può non osservarsi che per la corretta determinazione degli utili di gestione occorre necessariamente detrarre gli ammortamenti conseguenti al deperimento e al logorio degli elementi aziendali: è questo un principio che ha assunto carattere normativo generale per tutti gli imprenditori che esercitino l’attività mediante aziende in proprietà, in virtù dell’applicazione delle norme sui bilanci delle società per azioni e che — secondo la migliore dottrina — deve conseguire analoga forza normativa anche in relazione alle ipotesi di usufrutto o affitto d’azienda, posto che anche in tali ambiti contrattuali i beni aziendali vanno computati alla fine del rapporto concessorio nello stato anche di logorio in cui si trovano per misurare i debiti e i crediti reciproci fra le parti. In conclusione, l’ammortamento, quale tipico strumento di conservazione dell’integrità del patrimonio aziendale e di individuazione, per differenza, degli accrescimenti costituenti utili effettivi, è un principio portante del bilancio dell’impresa e tanto più essenziale, nel rapporto di affitto o usufrutto di azienda, in quanto dà conto con criteri di competenza durante lo svolgimento del rapporto concessorio, degli obblighi di restituzione facenti capo all’usufruttuario o affittuario.

Ovviamente, è utile ribadire, l’ammortamento non compete all’usufruttuario o affittuario dell’azienda quando le parti hanno derogato all’obbligo di mantenere in efficienza i beni ammortizzabili; di conseguenza, non spettando ai fini civilistici, esso non può trovare riconoscimento — come già accennato — neanche ai fini tributari, giusta la citata disposizione dell’articolo14, comma 2, del Dpr n. 42 del 1988. Al riguardo, è appena il caso di segnalare che la volontà delle parti va ricostruita in base a tutti gli elementi contrattuali. Non sarebbe, ad esempio, di per sé sufficiente, perché l’ammortamento spetti all’usufruttuario o affittuario, che questi abbia assunto esclusivamente l’onere della manutenzione dei cespiti aziendali, essendo una tale incombenza insita naturalmente nel rapporto concessorio. Occorre acclarare, invece, che i poteri-doveri gestori siano stati trasferiti in misura piena all’usufruttuario o affittuario: in particolare, sia stato trasferito a tale soggetto il potere-dovere di decidere anche la cessione o la sostituzione dei cespiti in parola nell’interesse più generale della conservazione dell’integrità del patrimonio aziendale nel suo insieme e, conseguentemente, il rischio del deterioramento tecnico-fisico dei cespiti stessi, cui si correla, per l’appunto, lo stanziamento dell’ammortamento.

Per motivi di completezza, giova accennare infine anche ad un altro profilo del contratto di affitto o usufrutto di azienda, parallelo alle tematiche fin qui esaminate.

Intendiamo riferirci al fatto che, secondo la dottrina civilistica, le scritture contabili relative alla azienda gestita dovrebbero essere redatte dall’usufruttuario o affittuario conformemente all’inventario di consegna dell’azienda nel quale i beni aziendali dovrebbero essere rilevati, ai fini civilistici, al loro valore attuale al momento della consegna stessa (e non ai costi storici dell’imprenditore-concedente): ciò, in funzione dell’esecuzione in futuro degli obblighi di restituzione assunti dall’affittuario o usufruttuario per la conclusione del rapporto.

Ai fini fiscali, viceversa, la norma sancisce, come è noto, il principio di continuità dei valori dei beni assunti con quelli esistenti presso l’impresa del concedente (cfr. citato articolo14 del Dpr 42 del 1988). Vi è, quindi, una non perfetta coincidenza fra questi regimi che suscita taluni inconvenienti. Manca, in altri termini, nella disciplina fiscale la possibilità di rilevare per competenza l’intero ammontare del debito di valore che l’imprenditore-concessionario viene ad assumere con l’instaurazione del rapporto di affitto o di usufrutto e conseguentemente di correlare il relativo maggior onere ai redditi prodotti nel periodo di svolgimento del rapporto medesimo. Stante il delineato assetto normativo, sembrerebbe logico che queste differenze assumano rilievo fiscale per l’affittuario o l’usufruttuario a chiusura della relazione contrattuale, analogamente agli eventuali conguagli attivi e passivi che le parti regolino in denaro ai sensi del più volte citato articolo2561 del codice civile.

Determinazione del valore della produzione delle banche e degli altri soggetti finanziari.

3.1. L’articolo 6 del Dlgs n. 446 del 1997, concernente la determinazione del valore della produzione delle banche e degli altri soggetti finanziari è stato interessato da tre modifiche. A finalità di mero coordinamento formale risponde l’eliminazione, nel comma 1-bis della norma, delle parole «, comma 1,»; talché, il citato comma 1-bis, che riguarda specificamente il regime delle c.d. «holdings industriali», rinvia ora semplicemente ai criteri del precedente articolo5 (essendo detto articolo ormai composto, come si è visto, di un unico comma).

Carattere sostanziale assume, invece, la modifica recata alla lettera n) del comma 1 dell’articolo in oggetto, che ha integrato l’elenco dei componenti negativi ammessi in deduzione, includendovi anche gli «accantonamenti per rischi su crediti, compresi quelli per interessi di mora».

La modifica, si è già avuto modo di osservare, non è ispirata da intenti agevolativi, ma dall’esigenza di eliminare una causa di disallineamento fra base imponibile Irap e base imponibile Irpeg. Ed invero, come evidenziato nella citata relazione al decreto correttivo in esame, per le banche e gli altri soggetti finanziari cui si applica il comma 1 dell’articolo6, «… le perdite su crediti sono una componente rilevante ai fini Irap, così come rilevanti sono le svalutazioni su crediti che costituiscono un’imputazione anticipata ed estimativa di tali perdite …»; conseguentemente, prosegue la relazione, «il mancato riconoscimento degli accantonamenti ai fondi rischi (che hanno natura estimativa analoga alle svalutazioni) costituiva un fenomeno di «terzo binario» rispetto alle risultanze contabili e alla determinazione dell’imponibile ai fini della determinazione del reddito privo di giustificazioni …».

Il riconoscimento in deduzione degli accantonamenti della specie, produce effetti — come già ricordato — a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 30 dicembre 1999, oggetto, di regola, della presente dichiarazione. All’uopo, nella sezione seconda del quadro IQ del modello unico delle società di capitali e degli enti equiparati è stato previsto l’inserimento di un nuovo rigo IQ27 nel quale, appunto, dovrà essere data indicazione degli accantonamenti della specie operati in bilancio e della quota deducibile. Naturalmente, è appena il caso di accennare, in coerenza con le finalità della modifica e nel rispetto, del resto, del principio generale cui si è fatto cenno in precedenza a commento delle modifiche all’articolo 5, gli accantonamenti ai fondi rischi su crediti si renderanno deducibili agli effetti dell’Irap negli stessi limiti e alle stesse condizioni previste ai fini della determinazione del reddito d’impresa e, in particolare, secondo le regole dettate dall’articolo 71, commi da 3 a 6, del Tuir.

Proprio tenendo presenti le soluzioni che si rendono applicabili ai fini del reddito d’impresa, vanno risolti i problemi di ordine transitorio che possono prospettarsi con riferimento al periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione in caso di utilizzo, per la copertura di perdite o svalutazioni, di fondi stanziati in periodi precedenti. Problemi, peraltro, non dissimili nella sostanza da quelli che possono essersi già verificati nella dichiarazione dello scorso anno relativamente al primo periodo di applicazione dell’Irap (1998).

Con riguardo, anzitutto, alle perdite e svalutazioni relative ai crediti in linea capitale, nell’ipotesi più semplice in cui il fondo rischi esistente in bilancio all’inizio del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione sia stato alimentato esclusivamente con accantonamenti operati nel periodo d’imposta precedente (1998), non si pongono problemi circa il riconoscimento per via extra-contabile di tali perdite e svalutazioni, in quanto coperte con un fondo «tassato», vale a dire non dedotto agli effetti dell’Irap. Naturalmente, nel caso delle svalutazioni, resta ferma la deducibilità immediata dell’importo rientrante nel limite dello 0,50 per cento dell’ammontare complessivo dei valore dei crediti iscritto in bilancio e la deducibilità dell’eccedenza per quote costanti nei successivi sette esercizi.


Non può escludersi, peraltro, che il fondo esistente in bilancio all’inizio del periodo d’imposta oggetto della presente dichiarazione risulti, in tutto o in parte, essere stato costituito anche con quote di accantonamento dedotte sotto la vigenza della soppressa imposta locale sui redditi (nel periodo d’imposta 1997 e/o precedenti). In questa ipotesi, tenendo presente che secondo l’orientamento già manifestato dal ministero delle Finanze nelle istruzioni ai modelli di dichiarazione Irap degli anni scorsi — e confermato anche in quelle di quest’anno — le vicende del fondo costituito sotto la vigenza dell’Ilor assumono rilievo, senza soluzione di continuità, anche in ambito Irap, le perdite e le svalutazioni in questione si renderanno deducibili solo per la parte che ecceda la quota del fondo dedotto agli effetti dell’Ilor; ciò, in linea con un tradizionale orientamento dell’Amministrazione finanziaria in materia di reddito d’impresa, secondo cui l’utilizzo di un fondo costituito in parte da accantonamenti dedotti e in parte da accantonamenti «tassati» deve intendersi prioritariamente riferito alla parte dedotta.

Considerazioni di ordine analogo possono valere agli effetti del trattamento delle vicende riguardanti i fondi rischi su crediti per interessi di mora; nel senso, cioè, che anche a tali effetti dovrebbero valere le stesse regole che si applicano ai fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi per interessi di mora dedotti solo in parte in sede fiscale. In proposito, è opportuno ricordare che secondo la disciplina del comma 6 del citato articolo 71 del Tuir — e anche alla luce delle istruzioni dettate dal ministero delle Finanze a corredo dell’apposito «Prospetto dei crediti» della dichiarazione dei redditi — ai fini della determinazione delle perdite su crediti per interessi di mora occorre porre riferimento al valore di detti crediti risultanti in bilancio incrementato dell’importo delle svalutazioni eventualmente non dedotto; le perdite così determinate, anche agli effetti dell’Irap, saranno, quindi, deducibili per la parte eccedente il fondo rischi su crediti per interessi di mora dedotto ai fini Ilor negli esercizi precedenti al 1998.

È il caso di aggiungere che, sempre sulla base delle regole applicabili ai fini del reddito d’impresa in presenza di fondi rischi in parte dedotti e in parte tassati, dovrebbero essere risolte le problematiche relative all’eventuale recupero a tassazione dei fondi rischi in questione eccedenti, rispettivamente, il 5 per cento del valore di bilancio dei crediti in linea capitale e l’importo complessivo dei crediti per interessi di mora iscritti in bilancio (al lordo, in tal caso, delle svalutazioni non dedotte).

Naturalmente, sulle questioni sopraevidenziate sarebbe opportuno un esplicito pronunciamento da parte del ministero delle Finanze.

3.2. L’altra modifica riguardante l’articolo 6 consiste nell’aggiunta del nuovo comma 5-bis con il quale viene previsto che per le banche e gli altri enti finanziari «...concorrono altresì alla determinazione della base imponibile gli accantonamenti per la cessazione dei rapporti di agenzia».

Tale integrazione, viene precisato nella citata relazione di accompagnamento, «...costituisce un mero adeguamento tecnico...» da porre in relazione «...con la soppressione del comma 1-ter dell’attuale articolo 11».

È il caso di ricordare, peraltro, che nel precedente assetto normativo il soppresso comma 1-ter dell’articolo 11 garantiva ai soggetti dell’articolo 6 in commento anche la deducibilità degli accantonamenti per operazioni e concorsi a premio. Proprio in ragione della evidenziata portata del nuovo comma 5-bis, dunque, deve ritenersi frutto semplicemente di un difetto di coordinamento la mancata riproposizione anche nel nuovo contesto normativo della previsione di deducibilità dei suddetti accantonamenti. Opportunamente, peraltro, le istruzioni ministeriali al modello di dichiarazione, considerano fra gli accantonamenti da indicare nel rigo IQ30 anche gli accantonamenti relativi alle operazioni e concorsi a premio. È, comunque, auspicabile che a tale lacuna sia posto rimedio anche con uno specifico intervento in sede legislativa.

Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione contabile e variazioni fiscali

4.1. L’intervento operato dal decreto correttivo in esame sul testo dell’articolo 11 del Dlgs n. 446 del 1997 è certamente quello che riveste maggior rilievo non solo sul piano sostanziale ma anche sul piano sistematico. In particolare, per effetto della modifica recata dall’articolo 1, comma 1, lettera h) del citato Dlgs n. 506, il contenuto del precedente articolo 11, recante le disposizioni comuni - vale a dire, applicabili in via di principio a tutte le categorie di soggetti passivi - risulta ora collocato in due distinti articoli di legge: lo stesso articolo 11 in versione riformulata, intitolato alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione netta», e il nuovo articolo 11-bis, intitolato alle «Variazioni fiscali del valore della produzione netta».

Il descritto riassetto — la cui portata si esplica essenzialmente nei confronti dei soggetti che determinano la base imponibile ai sensi degli articoli 5, 6 e 7 — risponde all’esigenza, evidenziata nella richiamata relazione di accompagnamento al decreto correttivo, di suddividere le regole dettate «... ad integrazione degli articoli precedenti, per individuare le poste del conto economico che rilevano ai fini del valore della produzione...» da quelle dettate «...per operare le variazioni fiscali alle poste in parola...».

In sostanza, è stato riprodotto lo schema normativo che l’articolo 52 del Tuir pone nel fissare il passaggio dal risultato del conto economico al reddito d’impresa attraverso le variazioni fiscali delle poste contabili. Con analoga sequenza, infatti, dapprima l’articolo 11 individua, ai fini dell’Irap, le voci contabili rilevanti per la formazione del valore della produzione — voci che non coincidono, si è visto, con l’intero conto economico assunto agli effetti delle imposte sui redditi — e poi l’articolo 11-bis stabilisce le variazioni fiscali da apportare a tali voci.

Pur considerando che molte delle disposizioni previgenti risultano fedelmente ripetute nel riformulato articolo 11 e nel nuovo articolo 11-bis, l’attuata risistemazione determina di per sé importanti conseguenze sul piano interpretativo. Essa, infatti, non solo rende più agevole l’individuazione delle regole applicabili nelle due distinte fasi della procedura di determinazione della base imponibile, ma, in via di principio, dovrebbe anche impedire di attribuire alle singole regole significati non strettamente coerenti con lo specifico contesto — "contabile" ovvero "fiscale" — in cui le stesse risultino collocate.

4.2. Ciò premesso, muovendo dall’esame del nuovo articolo 11, intitolato, si ricorda, alle «Disposizioni comuni per la determinazione del valore della produzione netta», diciamo subito che nessun particolare approfondimento si rende necessario svolgere con riguardo alla disposizione della lettera a) del comma 1; essa, infatti, ripropone esattamente il contenuto della lettera b) dello stesso comma 1 del previgente articolo 11. Si tratta della disposizione di favore, valida per tutti i soggetti passivi, con la quale viene riconosciuta la deducibilità dal valore della produzione dei contributi per le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro, delle spese relative agli apprendisti e del settanta per cento delle spese per il personale assunto con contratto di formazione lavoro. È appena il caso di ricordare che, mentre per le società di capitali e per le imprese in genere la norma determina la corrispondente deducibilità delle poste del conto economico di cui alle voci B9 e B14, relative ai costi di lavoro, per i soggetti che applicano il sistema retributivo, essa comporta una corrispondente riduzione della base imponibile costituita dalla cosiddetta «retribuzione previdenziale».

Invariato risulta anche il contenuto della lettera b) dello stesso comma 1 dell’articolo 11 che, si ricorda, ai numeri da 1) a 5) reca indicazione dei costi di lavoro dipendente e degli altri compensi ad essi assimilati (ivi compresi, quindi, gli utili agli associati in partecipazione che apportano lavoro) indeducibili ai fini dell’Irap e, al n. 6), sancisce la indeducibilità della quota di interessi passivi inclusa nei canoni di locazione finanziaria (da determinarsi, com’è noto, in via forfetaria). Peraltro, pur nell’evidenziata identità di formula, sembra opportuno soffermare l’attenzione sulla disposizione recata dal n. 1) della richiamata lettera b) del nuovo articolo 11.

Tale disposizione attiene ai criteri «contabili» per l’individuazione dei costi relativi al personale non ammessi in deduzione e, come in precedenza, opera a tal fine espresso rinvio ai costi «...classificabili nell’articolo 2425, primo comma, lettera B, numeri 9) e 14) del codice civile».

Preliminarmente, è il caso di ricordare che la previsione in parola non esplica la sua portata esclusivamente nei confronti dei soggetti che determinano la base imponibile ai sensi dell’articolo 5 (siano o meno tenuti alla redazione del conto economico secondo le regole del codice civile), ma anche nei confronti delle banche, degli altri soggetti finanziari e delle imprese di assicurazione, ancorché nei loro bilanci non si rinvengano, ovviamente, le voci di conto economico espressamente nominate dalla norma. In questo senso si era già manifestata l’interpretazione del ministero delle Finanze; peraltro, ribadita anche nelle istruzioni al nuovo modello di dichiarazione laddove, ai fini della compilazione delle sezioni II e III del quadro IQ, viene esplicitamente ricordata l’applicazione «...con gli opportuni adattamenti...» delle regole generali «...illustrate con riferimento alle imprese industriali e commerciali a commento della precedente sezione I...».

Ciò precisato, occorre osservare che nel nuovo quadro normativo la disposizione in commento deve essere ora coordinata con quanto previsto dal successivo comma 2 dello stesso articolo 11. In particolare, il primo periodo del suddetto comma 2 stabilisce che dai costi non deducibili a norma del comma 1, lettera b) «...vanno, in ogni caso, escluse le somme erogate a terzi per l’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei dipendenti e dei collaboratori e quelle erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a titolo di rimborso analitico di spese sostenute nel compimento delle loro mansioni lavorative».

Al riguardo, la relazione accompagnatoria non riferisce alla trascritta disposizione carattere innovativo: essa, infatti, darebbe semplicemente conferma a interpretazioni cui il ministero delle Finanze era già pervenuto nel previgente assetto normativo. Si tratta, in particolare, di soluzioni che in precedenza trovavano fondamento direttamente nei criteri di classificazione dei costi previsti dal richiamato documento integrativo del principio contabile n. 12 e che ora, invece, la nuova disposizione intende affermare in via autonoma: senza cioè che si renda più necessaria a questi fini la dimostrazione della non classificabilità di detti costi nell’ambito delle suddette voci B9 e B14. Così va intesa, infatti, la previsione della norma secondo cui le spese e i rimborsi della specie vanno «...in ogni caso...» esclusi da quelli relativi al personale di cui al citato n. 1), lettera b) del comma 1 dello stesso articolo 11.

Ciò detto, e venendo ad una analisi più specifica, riterremmo che per spese relative all’acquisizione di beni e servizi destinati alla generalità dei dipendenti, debbano intendersi quei costi che l’impresa sostiene nell’interesse della collettività dei dipendenti — collettività, ovviamente, da intendersi anche come categoria — e non finalizzati, quindi, al diretto beneficio del singolo dipendente. Rientrano, senz’altro, in questo concetto, ad esempio, le spese previste dal comma 1 dell’articolo 65 del Tuir «volontariamente sostenute» dal datore di lavoro «per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto...». Ma vi rientrano, altresì, data l’ampia formula utilizzata dal citato comma 2 dell’articolo 11 in esame, anche i costi sostenuti dall’imprenditore per porre i dipendenti (nonché i collaboratori) nelle condizioni di assolvere ai compiti lavorativi: aventi cioè, in senso lato, carattere "organizzativo"; in effetti, in questo secondo caso, non sembra possa dubitarsi della natura non retributiva di tali costi, ma è presumibile che il legislatore abbia ugualmente inteso eliminare ogni possibile incertezza legata alle concrete classificazioni di bilancio.

Esulano, dunque, dalla previsione in parola le attribuzioni "ad personam": vale a dire, tutto ciò che costituisce o integra la remunerazione del singolo prestatore di lavoro o si correla in qualche modo ad essa. Ciò non significa, ovviamente, che tutte le spese di lavoro non ricomprese fra quelle indicate nel citato comma 2 dell’articolo 11 rientrino automaticamente nel regime di indeducibilità assoluta comminato dalla predetta disposizione della lettera b) del comma 1 dell’articolo 11; ciò dipendendo, pur sempre, dalla verifica della condizione di classificabilità dei relativi costi nelle suddette voci B9 e B14 del conto economico.

Questione rilevante sotto questo profilo è quella che attiene al trattamento dei cosiddetto "fringe benefits", vale a dire, dei beni o servizi attribuiti al singolo dipendente a titolo di integrazione della retribuzione in denaro. Al riguardo, si ricorderà che nella circolare n. 263/E del 12 novembre 1998, emanata nel precedente contesto normativo, il ministero delle Finanze ebbe modo di riconoscere esplicitamente (cfr. il par. 2.3) la rilevanza, in via di principio, dei «...costi sostenuti dall’impresa per beni e servizi classificabili, in base a corretti principi contabili, in voci di conto economico diverse dalla voce B9 e costituenti fringe benefits per i dipendenti ai sensi dell’articolo 48 del Tuir». Il dubbio se tale orientamento conservi validità anche nel nuovo assetto normativo è stato risolto in senso affermativo dalle stesse istruzioni al modello di dichiarazione, nelle quali viene affermato in modo espresso che anche i costi per l’acquisizione di beni e servizi «... costituenti elementi accessori ("fringe benefits") della retribuzione — non classificabili quindi nelle voci B9 e B14 del conto economico — sono ammessi in deduzione nei limiti e alle condizioni previste ai fini delle imposte sui redditi.».

Ancorché riferita espressamente alla specifica problematica del trattamento dei suddetti componenti negativi, l’interpretazione ministeriale, è il caso di osservare, sembra assumere un rilievo più generale in quanto confermativa della rilevanza, agli effetti dell’Irap, delle conseguenze derivanti dal criterio di classificazione dei costi secondo la loro natura e non secondo la loro destinazione; criterio che, è bene ricordare, discende direttamente dallo schema di conto economico adottato dal nostro legislatore.

L’altra fattispecie considerata dalla disposizione in esame attiene, come si è visto, alle somme «...erogate ai dipendenti e collaboratori medesimi a titolo di rimborso analitico di spese sostenute nel compimento delle loro mansioni lavorative».

Anche in questo caso, la norma costituisce conferma di soluzioni interpretative in precedenza affermate dal ministero delle Finanze. Va precisato che il rimborso analitico deve riguardare, ovviamente, le spese sostenute dal dipendente (o collaboratore) nell’interesse del datore di lavoro; cioè, le spese che questi avrebbe dovuto sostenere direttamente e che siano state semplicemente anticipate dal prestatore.

Peraltro, a questi effetti, è importante segnalare che, in materia di trattamento dei rimborsi per trasferte, le istruzioni al modello di dichiarazione confermano l’orientamento restrittivo secondo cui non sono ammesse in deduzione ai fini Irap le somme erogate a titolo di indennità chilometriche; tali somme vengono, infatti, comunque assimilate dal ministero delle Finanze alle indennità di trasferta, anch’esse indeducibili in ambito Irap in quanto non collegate "analiticamente" al rimborso di spese documentate sostenute dal dipendente (o collaboratore). Nel prendere atto della conferma di tale restrittiva interpretazione, è il caso di precisare che la deducibilità dei rimborsi analitici di spese sostenute per trasferte non è limitata alle sole trasferte effettuate fuori dal territorio comunale, prescindendosi, a questi effetti, dal trattamento di tali rimborsi in capo al prestatore di lavoro.

4.3. Non necessitano di particolari approfondimenti le altre disposizioni contenute nel comma 2 dell’articolo 11 in argomento. Sia il secondo che il terzo periodo della norma ripetono, infatti, le regole in tema di distacco di personale contenute nel comma 1-bis del previgente articolo 11. Occorre, tuttavia, segnalare che il citato terzo periodo del comma 2 in oggetto — ove si afferma che nei confronti del soggetto "distaccatario" gli importi dovuti al distaccante a titolo di rimborso degli oneri retributivi e contributivi concorrono, in caso di applicazione del cosiddetto sistema retributivo, a formare la base imponibile Irap — opera ora rinvio anche al nuovo articolo 10-bis, riguardante la determinazione della base imponibile degli enti pubblici.

Ci limitiamo a ricordare che il regime del «distacco di personale» si rende applicabile anche nel caso in cui il soggetto distaccato sia un collaboratore dell’impresa e che, inoltre, analogo regime Irap viene ad applicarsi, come ribadito dalle istruzioni al nuovo modello, in caso di cosiddetto "lavoro interinale"; fermo restando, in questa seconda fattispecie, che la parte dei costi, addebitati dall’impresa che "affitta" il personale all’impresa che lo utilizza, eccedente i meri oneri retributivi e contributivi assume natura di ricavo tassabile per la prima e di costo deducibile per la seconda. Per completezza, infine, sembra il caso di ricordare che, in linea con l’interpretazione già affermata dal ministero delle Finanze e ribadita nelle istruzioni al nuovo modello, la deduzione dei contributi per assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di cui alla soprarichiamata lettera a) del comma 1 dello stesso articolo 11 spetta, in entrambi i casi, all’impresa che utilizza il personale (impresa distaccataria ovvero impresa presso cui viene svolto il lavoro interinale).

4.4. Anche il comma 3 del nuovo articolo 11 non ha contenuto innovativo, riproducendo fedelmente una serie di disposizioni già presenti nel previgente testo normativo e, precisamente, si ricorderà, nelle lettere 0a) e a) del comma 1 del corrispondente articolo 11.

Si tratta di previsioni espressamente riferite ai soggetti che determinano il valore della produzione secondo i richiamati articoli 5, 6 e 7 del Dlgs n. 446 in esame e che riguardano, anzitutto, il concorso alla formazione della base imponibile dei proventi e degli oneri «...classificabili fra le voci diverse da quelle indicate in detti articoli, se correlati a componenti positivi o negativi del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o successivi...».

Sulla portata applicativa di tale regola — cosiddetto «principio di correlazione» — ci siamo diffusamente soffermati nella nostra circolare n. 52 del 1999 (pagg. 3 e ss.), in occasione del commento alle modifiche introdotte dal precedente decreto correttivo n. 176 del 1999. In considerazione del fatto che anche nel nuovo contesto normativo tale regola esplica i medesimi effetti in termini di continuità temporale delle vicende Irap e di continuità dei valori fiscali, riteniamo sufficiente rinviare alle precisazioni da noi svolte in quella sede e a quelle contenute nelle istruzioni ai modelli di dichiarazione.

Le altre previsioni recate dal comma 3 del nuovo articolo 11 ribadiscono, invece, che ai fini della determinazione della base imponibile degli anzidetti soggetti «concorrono in ogni caso, le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda, nonché i contributi erogati a norma di legge con esclusione di quelli correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione».

Anche in questo caso, trattandosi di regole già valevoli in precedenza, non si rendono necessari particolari approfondimenti.

Con specifico riferimento al trattamento, agli effetti dell’Irap, dei contributi pubblici, è tuttavia opportuno richiamare la risoluzione n. 8/E del 28 gennaio 2000, con la quale il ministero delle Finanze si è pronunciato sulla portata della regola che, come si è visto, dispone l’esclusione dalla formazione della base imponibile dei proventi della specie «… correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione». In tale occasione, nel ribadire che dalla normativa Irap «… deriva una generale assoggettabilità di tutti i contributi erogati in base ad una legge…», il ministero ha affermato, anzitutto, che l’applicazione dell’esimente in questione richiede «… la necessità della previsione nella legge istitutiva, della destinazione e della finalità precisa dei contributi erogati, per cui, ai fini di cui trattasi, nessun rilievo assume la qualificazione o quantificazione fatta dall’ente erogatore al di fuori o in contrasto con le previsioni normative». Inoltre, nel chiarire che in base alla legge istitutiva deve potersi desumere, affinché possa applicarsi l’esclusione da Irap, «… una correlazione diretta tra la somma erogata e il componente negativo non deducibile…», la risoluzione ha anche precisato che qualora la legge istitutiva preveda «… una destinazione mista (parte erogata a fronte di elementi negativi deducibili e parte erogata a fronte di componenti negativi non ammessi in deduzione) deve ritenersi ammissibile l’esonero del contributo ai fini Irap solo per la quota correlata a componenti negativi non ammessi in deduzione qualora detta quota sia indicata in modo preciso, anche se in misura percentuale».

Tali ultime affermazioni appaiono particolarmente rilevanti in quanto chiariscono opportunamente - e, si osserva, conformemente a quanto già riconosciuto a livello generale dallo stesso ministero delle Finanze agli effetti della distinzione tra contributi in conto impianti e contributi in conto capitale - che i contributi misti, ove ripartibili in base a criteri oggettivi sulle diverse tipologie di spese sovvenzionate, possono ugualmente dare luogo, in proporzione, all’esclusione in parola. Ciò, può assumere, ad esempio, concreto rilievo in relazione ai contributi erogati per il finanziamento di spese di ricerca.

Con riguardo, infine, alla previsione del concorso alla formazione del valore della produzione imponibile delle plusvalenze e delle minusvalenze relative a beni strumentali, è solo il caso di ribadire che tale disposizione ha ad oggetto esclusivamente i beni ammortizzabili ai fini fiscali (sia materiali che immateriali) e, dunque, non coinvolge in nessun modo le immobilizzazioni finanziarie nonché, in via di principio, i cosiddetto immobili civili. In questo senso, comunque, si esprimono, in modo puntuale, le istruzioni al nuovo modello di dichiarazione.

4.5. Passando ad esaminare il contenuto del nuovo articolo 11-bis del Dlgs n. 446, si è detto che esso reca ora le disposizioni concernenti le «Variazioni fiscali della produzione netta», vale a dire le regole che si rendono applicabili ai fini del passaggio dal valore della produzione «contabile» al valore della produzione «fiscale». Come vedremo, oltre alle previsioni di sicura portata innovativa in materia di ricavi derivanti da atti di destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci dei beni di magazzino e di erogazioni liberali, la norma reca numerose altre regole confermative di interpretazioni già adottate dall’Amministrazione finanziaria sotto il vigore della previgente formulazione del testo legislativo.

Stabilisce, anzitutto, il comma 1 del nuovo articolo che i componenti positivi e negativi «… che concorrono a formare il valore della produzione così come determinati ai sensi degli articoli 5, 6, 7, 8 e 11, si assumono apportando ad essi le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi».

Al riguardo — tralasciando evidentemente in questa sede il riferimento all’articolo 8 concernente il regime Irap degli esercenti arti e professioni — dalla trascritta formula normativa si trae, anzitutto, conferma del fatto che gli elementi rilevanti ai fini della base imponibile Irap sono, in via di principio, solo quelli individuabili attraverso l’applicazione delle regole dettate dall’articolo 5 — ovvero degli articoli 6 o 7 — cocordinate con le ulteriori regole di «selezione» delle poste contabili contenute nell’articolo 11.

Conseguentemente, fatta salva l’espressa inclusione, di cui ci occuperemo tra breve, nella base imponibile di alcuni elementi positivi cosiddetto di «origine fiscale», nessuna rilevanza può essere data in ambito Irap a elementi che, ancorché tassabili o deducibili ai fini delle imposte sui redditi, in applicazione di apposite norme di variazione, non risultano classificabili nel conto economico. In questo senso, le istruzioni ministeriali al nuovo quadro IQ, confermando sul punto l’impostazione già assunta dal ministero negli anni scorsi, ribadiscono l’irrilevanza «…dei ricavi indicati in dichiarazione dei redditi per adeguamento a parametri … o agli studi di settore…» ovvero «…della rendita catastale assunta a tassazione ai sensi dell’articolo 57 del Tuir anche in assenza di proventi effettivamente conseguiti…».

Come si è visto, la sopratrascritta norma opera richiamo alle variazioni «…previste ai fini delle imposte sui redditi». Si ricorderà, invece, che la corrispondente previsione contenuta nella lettera a) del comma 1 del previgente articolo 11 prevedeva di assumere i componenti rilevanti ai fini dell’Irap «…in conformità delle norme del testo Unico delle imposte sui redditi … e della applicazione di esse in sede di dichiarazione dei redditi», lasciando intendere, ma la questione presentava margini di incertezza, che eventuali variazioni dervianti da disposizioni extra-Testo unico non dovessero produrre effetti ai fini dell’Irap. La nuova versione della norma elimina ogni dubbio sul punto.

Ciò osservato, va detto che non tutte le variazioni applicabili ai fini della determinazione del reddito d’impresa assumono rilievo in sede Irap. Il secondo periodo del citato comma 1 del nuovo articolo 11-bis, infatti, sancisce la disapplicazione delle disposizioni «… degli articoli 58, 63, e 75, commi 5, seconda parte, e 5-bis, del Testo unico…» «…e dell’articolo 17, comma 4, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504».

Come evidenziato nella relazione di accompagnamento, si tratta di soluzioni già affermate, per varie ragioni, in via interpretativa dal ministero delle Finanze e alle quali si è ritenuto opportuno dare valenza normativa. In particolare, per effetto della disapplicazione dell’articolo 58 del Tuir, risulta confermato il concorso alla formazione della base imponibile Irap anche dei proventi esenti o esclusi per altri motivi dal concorso alla formazione del reddito d’impresa. Per effetto della neutralizzazione dei successivi articoli 63 e 75, comma 5, seconda parte, e 5-bis, risulta, inoltre, confermata la piena deducibilità ai fini Irap delle cosiddetto «spese generali» (ovviamente, sempreché rientranti fra i componenti negativi individuati ai sensi del combinato disposto dell’articolo 5 — ovvero dell’articolo 6 o 7 — e dell’articolo 11) anche se ai diversi effetti del reddito d’impresa tali spese dovessero soffrire di parziale o totale indeducibilità; analogamente, ma con specifico riguardo ai soggetti finanziari dell’articolo 6 e alle imprese di assicurazione di cui all’articolo 7, assumono piena rilevanza ai fini Irap gli interessi passivi, a prescindere dal rapporto di deducibilità applicabile ai fini del reddito d’impresa. Tali soluzioni, è il caso di osservare, oltreché coerenti con la disapplicazione del citato articolo 58 del Tuir, appaiono apprezzabili anche per motivi di semplificazione.

Infine, per effetto della disapplicazione dell’articolo 17, comma 4 (rectius: comma 1, essendo il riferimento al comma 4 frutto di un mero errore di redazione della norma), viene confermata la deducibilità ai fini dell’Irap, contrariamente appunto a quanto previsto per le imposte sui redditi, dell’imposta comunale immobiliare (Ici). Al riguardo, è il caso di osservare che la deducibilità dell’Ici, sancita indirettamente dalla norma in esame, dovrebbe valere in assoluto e, quindi, non solo con riferimento agli immobili strumentali o costituenti magazzino (cosiddetto «immobili merce") ma anche con riferimento agli immobili che partecipano a formare la base imponibile secondo le regole dell’articolo 57 del Tuir (ivi compresi, eventualmente, i terreni agricoli) e, inoltre, con riferimento alle aree fabbricabili. Peraltro, essendo senz’altro riferibile la previsione dell’articolo 11-bis in commento anche ai soggetti disciplinati dal precedente articolo 8 (esercenti arti e professioni), la deducibilità in questione dovrebbe valere anche per l’imposta immobiliare assolta con riferimento agli immobili utilizzati per l’esercizio dell’arte o della professione; il punto, tuttavia, meriterebbe di essere confermato dai competenti organi ministeriali.

L’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 11-bis dispone che «Le erogazioni liberali, comprese quelle previste dall’articolo 65, comma 2, del predetto testo Unico delle imposte sui redditi, non sono ammesse in deduzione». Come già anticipato, si tratta in questo caso di una disposizione di carattere innovativo, il cui inserimento, precisa la relazione di accompagnamento, si è reso opportuno al fine di «… correggere effetti non pienamente coerenti, in via di principio, con il presupposto impositivo…». Naturalmente, va osservato, l’effetto innovativo si esplica essenzialmente nei confronti delle erogazioni liberali ammesse in deduzione - entro determinati limiti - dal reddito d’impresa, ai sensi del comma 2 del citato articolo 65 del Tuir o di altre disposizioni di legge, posto che le erogazioni liberali non rispondenti ai requisiti di deducibilità ai fini delle imposte sui redditi dovevano ritenersi indeducibili dall’Irap anche in precedenza. Comunque, il punto sembra chiarito dalla relazione di accompagnamento laddove si osserva che la nuova disposizione «… non interferisce, ovviamente, con i comportamenti adottati precedentemente alla sua introduzione».

Ciò detto, nel precisare che, evidentemente, la regola in esame non riguarda il trattamento agli effetti dell’Irap delle spese considerate dal comma 1 del citato articolo 65 del Tuir e di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo 4.2, occorre chiedersi se tale regola valga anche per le spese considerate dalla lettera c-ter) del richiamato comma 2 dello stesso articolo 65. Si tratta, com’è noto, delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, riparazione o restauro delle cose vincolate ai sensi della legge 1º giugno 1939, n. 1089 e del Dpr 30 settembre 1963, n. 1409. Al riguardo, considerazioni di ordine logico sistematico inducono ad escludere una tale conclusione. In questo caso, infatti, non solo si è in presenza di spese non propriamente inquadrabili nella tipologia delle liberalità, ma non può non ricordarsi che la previsione di deducibilità posta dall’articolo 65 in parola costituisce semplicemente una sorta di alternativa per l’impresa all’applicazione degli ordinari criteri di trattamento delle spese della specie previsti dall’articolo 67, comma 7, dello stesso Tuir.

4.6. Le disposizioni concernenti le variazioni fiscali da apportare ai componenti della produzione, così come emergenti dall’applicazione delle regole contenute negli articoli 5, 6, 7 e 11, sono completate da quelle del comma 2 dello stesso articolo 11-bis, il quale stabilisce, in particolare, che ai componenti indicati nel precedente comma 1 «...vanno aggiunti i ricavi, le plusvalenze e gli altri componenti positivi di cui agli articoli 53, comma 2, 54, comma 1, lettera d), e 76, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi...».

La norma, è il caso di precisare, assume specifica valenza innovativa per ciò che attiene al trattamento degli atti di destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci dei beni di magazzino. Si ricorderà, invece, che per i beni ammortizzabili l’idoneità di tali atti a produrre componenti tassabili ai fini Irap era stata già affermata dal ministero delle Finanze in via interpretativa in base alla regola ora contenuta nel comma 3 dell’articolo 11 e, in precedenza, nella lettera a) del comma 1 dello stesso articolo, sulla rilevanza in ogni caso delle plusvalenze e della minusvalenze relative ai suddetti beni. Ad analoga conclusione lo stesso ministero era pervenuto anche con riguardo ai componenti «fiscali» che possono emergere in sede di applicazione delle regole sul cosiddetto «transfer pricing» di cui al citato comma 5 dell'articolo 75 del Tuir.

Ciò posto, è il caso di precisare che, come opportunamente chiarito nelle istruzioni al modello di dichiarazione, il richiamo alla disposizione della lettera d) del comma 1 del citato articolo 54 del Tuir non consente di attrarre a tassazione ai fini dell’Irap plusvalenze derivanti dagli atti di destinazione a finalità estranee o di assegnazione ai soci di beni diversi da quelli strumentali ammortizzabili ai fini fiscali. Analogamente, per ciò che attiene ai ricavi, il richiamo al comma 2 dell’articolo 53 del Tuir va inteso, in relazione alle diverse categorie di soggetti, come fatto esclusivamente ai beni suscettibili di generare ricavi tassabili ai fini Irap. Cosicché, per i soggetti dell’articolo 5 (imprese industriali e commerciali), assumono rilievo solo i ricavi di origine fiscale derivanti da atti di destinazione o di assegnazione aventi esclusivamente ad oggetto beni di cui alle lettera a) e b) del comma 1 del citato articolo 53; mentre, per i soggetti di cui agli articoli6 e 7 (banche e altri enti finanziari e imprese di assicurazione) assumono rilievo solo gli atti aventi ad oggetto beni di cui alla lettera c) del comma 1 dello stesso articolo 53.

Ciò chiarito, notevole rilievo assumono alcune precisazioni contenute nelle istruzioni ministeriali al nuovo quadro IQ con riferimento all’applicazione in ambito Irap delle disposizioni recate dall’articolo 13 del decreto legislativo 4 dicembre 1997 n. 460, in materia di trattamento delle erogazioni liberali a Onlus.

Come è noto, in tale norma viene stabilito espressamente che «... non si considerano destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai sensi dell’articolo 53, comma 2....» i beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa ceduti gratuitamente alle Onlus. Con particolare riguardo, poi, alle derrate alimentari e ai prodotti farmaceutici la norma, nel caso in cui la cessione gratuita sia effettuata in alternativa alla usuale eliminazione dal processo produttivo, ammette in deduzione dal reddito d’impresa il relativo costo; mentre, con riguardo ai beni di magazzino delle imprese diverse da quelle farmaceutiche o alimentari, il costo, nei limiti dell’importo complessivo di due milioni, viene trattato, ai fini del reddito d’impresa, quale erogazione liberale ai sensi della lettera c-sexies) del comma 2 del richiamato articolo 65 del Tuir.

Le istruzioni alla sezione I del quadro IQ in commento, precisano che in entrambi i casi la disattivazione dell’articolo 53, comma 2, esplica effetti anche ai fini Irap. Quanto, invece, al trattamento del costo dei beni ceduti gratuitamente, le istruzioni precisano che nel primo caso (derrate alimentari e prodotti farmaceutici) esso «...rileva ai fini della determinazione della base imponibile Irap alle stesse condizioni valevoli ai fini delle imposte sui redditi»; mentre, nel secondo caso, in coerenza con la regola che ora sancisce in via di principio l’indeducibilità di tutte le erogazioni liberali, le istruzioni precisano che «... il costo dei beni non assume rilievo...».

Le riportate affermazioni ministeriali, sembra il caso di osservare, dovrebbero valere anche al di là delle specifiche fattispecie considerate; infatti, sottendono il principio secondo cui ogni qualvolta una norma di carattere speciale deroghi espressamente, ai fini del reddito d’impresa, alla presunzione di destinazione a finalità estranee posta dal citato comma 2 dell’articolo 53, essa viene ad esplicare effetti anche ai fini dell’Irap.

Sul piano generale, inoltre, sembra potersi ritenere, nell’ottica del nuovo assetto sistematico, che analoga valenza in ambito Irap debbano assumere tutte le disposizioni che agli effetti delle imposte sui redditi qualifichino come «neutrali» determinati atti di trasferimento di singoli beni aziendali.

Modifiche normative in materia di aliquote dell’imposta regionale

5.1. Come si è detto, la legge finanziaria per il 2000, legge 23 dicembre 1999, n. 488, ha introdotto modifiche in materia di aliquote dell’imposta regionale riguardanti, in particolare, l’applicazione dei regimi di carattere transitorio previsti dai commi 1 e 2 dell’articolo 45 del Dlgs n. 446 del 1997, rispettivamente, nei confronti dei soggetti operanti nel settore agricolo e nei confronti delle banche e degli altri soggetti finanziari nonché delle imprese di assicurazione.

Con riferimento, anzitutto, al regime di aliquota ridotta previsto nei confronti dei soggetti operanti nel settore agricolo, il comma 1 del citato articolo 45, così come modificato dall’articolo 6, comma 17, lettera a), della legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999 l’aliquota è stabilita nella misura dell’1,9 per cento; per i quattro periodi d’imposta successivi, l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 2,3, del 2,5, del 3,10 e del 3,75 per cento».

L’intervento normativo determina, dunque, una rimodulazione, "in melius", della misura dell’aliquota ridotta applicabile nel periodo transitorio e l’allungamento di tale periodo. In concreto, ferma restando, ovviamente, l’aliquota dell’1,9 per cento per il periodo in corso al 1° gennaio 1998, la modifica comporta: il mantenimento dell’aliquota dell’1,9 per cento, in luogo del 2,6 per cento, anche per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999; la riduzione dell’aliquota, per i successivi periodi 2000, 2001 e 2002, rispettivamente, dal 3,1 al 2,3 per cento, dal 3,35 al 2,5 per cento e dal 3,85 al 3,10 per cento; l’estensione, infine, del regime dell’aliquota ridotta (3,75 per cento) anche al periodo 2003, che in precedenza avrebbe invece segnato il passaggio all’aliquota ordinaria.

Ciò precisato, è appena il caso di aggiungere che nulla viene a mutare in ordine alla individuazione dei soggetti ammessi al regime dell’aliquota ridotta nonché, in caso di applicazione sia dell’aliquota ridotta che dell’aliquota ordinaria (ovvero di quella maggiorata), in ordine ai criteri di ripartizione della base imponibile.

Di segno opposto è, invece, l’intervento che ha riguardato il regime di aliquota maggiorata previsto nei confronti delle banche e degli altri soggetti finanziari e delle imprese di assicurazione. Infatti, il comma 2 del citato articolo 45 del Dlgs n. 446, così come risultante dopo le modifiche allo stesso apportate dalla lettera b) del citato comma 17 dell’articolo 6 della legge n. 488, prevede ora che «... per i periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l’aliquota è stabilita nella misura del 5,4 per cento; per i due periodi d’imposta successivi, l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e del 4,75 per cento». In pratica, per tali soggetti, viene disposto l’aumento - rispettivamente, dal 5 al 5,4 per cento e dal 4,75 al 5,4 per cento - della misura dell’aliquota maggiorata che si sarebbe dovuta applicare, in base alla previgente disciplina, per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999 e per quello in corso al 1° gennaio 2000 e, inoltre, il prolungamento ai periodi d’imposta 2001 e 2002 del regime transitorio che, in precedenza, avrebbe dovuto concludersi con il periodo 2000.

5.2. Così illustrati, in via generale, gli effetti conseguenti alle modifiche introdotte, sembra opportuno svolgere alcune ulteriori precisazioni ai fini della corretta individuazione dell’ambito temporale di applicazione dei regimi transitori in questione nei confronti dei soggetti con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare.

Com’è noto, per tali soggetti, l’entrata in vigore dell’Irap non è necessariamente coincisa con la data del 1° gennaio 1998; ciò dipendendo dalla circostanza che l’esercizio in corso a tale data fosse o meno iniziato dopo il 30 settembre 1997. Conseguentemente, il riferimento contenuto nel comma 1 dell’articolo 45 in esame «... ai periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998 e al 1° gennaio 1999...» nonché quello contenuto nel comma 2 «... ai periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000...» deve essere correttamente inteso, per tali soggetti, come fatto, rispettivamente, ai primi due e ai primi tre periodi di applicazione dell’Irap. Così, per una società il cui esercizio abbia cadenza 1° luglio-30 giugno, i riferimenti in questione dovranno intendersi fatti ai periodi 1998-99, 1999-2000 e 2000-2001, anche se non in corso, rispettivamente, alla data del 1° gennaio 1998, del 1° gennaio 1999 e del 1° gennaio 2000. In questo senso, si ricorda, le istruzioni al quadro IQ delle società di capitali e degli enti equiparati (nonché quelle al quadro IQ degli enti non commerciali) chiariscono — con una precisazione espressamente riferita all’applicazione dell’aliquota ridotta dell’1,9 per cento, ma che, ovviamente, non potrebbe non valere anche per l’applicazione dell’aliquota maggiorata del 5,4 per cento — che tale misura si rende applicabile «... per il secondo periodo di applicazione dell’Irap, anche se iniziato successivamente al 1° gennaio 1999...».

5.3. Come si è visto, le modifiche recate ai commi 1 e 2 del citato articolo 45 del Dlgs n. 446 assumono valenza immediata, dato che interessano anche l’aliquota applicabile per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999 che, nella generalità dei casi (contribuenti con esercizio coincidente con l’anno solare), costituisce oggetto della presente dichiarazione. Va, peraltro, ricordato che in base a quanto previsto dal comma 18 dello stesso articolo 6 della legge n. 488, dette modifiche «... non hanno effetto ai fini della determinazione dell’imposta da versare a titolo di acconto per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 1999».

Al riguardo, occorre considerare che, nella generalità dei casi, al momento dell’entrata in vigore delle nuove aliquote, risultava già scaduto il termine per l’effettuazione della seconda ed ultima rata di acconto relativa al periodo d’imposta 1999. È presumibile, dunque, che con la trascritta disposizione si sia inteso far salvi i comportamenti adottati dai contribuenti sulla base delle aliquote vigenti prima delle modifiche. Coerentemente con tale finalità, la norma dovrebbe esplicare la sua portata esclusivamente nei confronti dei soggetti finanziari e delle imprese di assicurazione che, facendo affidamento sull’aspettativa, per il periodo 1999, dell’applicabilità della più bassa aliquota del 5 per cento, abbiano esercitato la facoltà di commisurare l’acconto su base previsionale. Per tali soggetti, quindi, ai fini della verifica della congruità dei versamenti di acconto assumerà rilievo il minore importo tra il 98 per cento della cosiddetta «imposta facciale» (rigo IQ87 del Mod. Unico 1999) e il 98 per cento dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 (rigo IQ88 del Mod. Unico 2000) ricalcolata con l’aliquota del 5 per cento.

Peraltro, stando al suo dato letterale, la trascritta previsione secondo cui le modifiche di aliquota non producono effetti sulla determinazione degli acconti sembrerebbe doversi applicare anche nei confronti dei soggetti operanti nel settore agricolo; nel senso cioè che anche per tali soggetti, ai fini della verifica di congruità dei versamenti, assumerebbe rilievo il minore importo tra il 98 per cento dell’imposta facciale e il 98 per cento dell’imposta effettivamente dovuta per il periodo 1999 ricalcolata con l’aliquota del 2,6 per cento. Senonché, appare evidente che tale interpretazione potrebbe condurre all’applicazione delle sanzioni, in ipotesi, anche nei riguardi del contribuente che abbia versato in acconto un importo pari o addirittura superiore all’imposta effettivamente dovuta in base all’aliquota dell’1,9 per cento.

Sul punto c’è da registrare un intervento ministeriale in risposta ad uno specifico quesito, presentato nel corso del «Telefisco» del 29 febbraio di quest’anno, con il quale era stato espressamente chiesto se la modifica in questione avesse l’unico significato di rendere inapplicabili le sanzioni ai soggetti che si siano comportati in sede di acconto adottando aliquote inferiori rispetto a quelle nuove. Il contenuto della risposta non sembra aver fugato tutti i dubbi sulla questione che, a nostro avviso, meriterebbe un più esplicito chiarimento da parte dei competenti uffici ministeriali.

Quale che sia comunque la soluzione di tale problema, c’è da aggiungere che, in alcuni casi, l’applicazione dell’aliquota ridotta per il settore agricolo può abbinarsi all’applicazione, su un’altra quota di base imponibile, dell’aliquota ordinaria (4,25 per cento) o della stessa aliquota maggiorata (5,4 per cento). In tale situazione, è chiaro che la verifica della congruità dei versamenti in acconto, nei confronti del soggetto che si avvalga della facoltà di commisurarne l’importo al dato "previsionale", andrà operata con riferimento all’imposta complessiva unitariamente considerata.

5.4. A completamento delle osservazioni che precedono, non può escludersi che, in presenza di periodi autonomi venutisi a specificare nel corso del 1999, al momento dell’entrata in vigore delle modifiche recate dalla citata legge finanziaria (1° gennaio 2000) risultasse già scaduto il termine per il versamento dell’imposta a saldo e per la presentazione della dichiarazione relativamente al periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 1999. Può essere, ad esempio, il caso di un soggetto per il quale, a seguito di un’operazione di fusione ovvero, più semplicemente, di una modifica della durata dell’esercizio, si sia individuato un periodo d’imposta 1° gennaIo 1999-30 giugno 1999. Al riguardo — anche prescindendo sul punto da ogni considerazione in ordine alla possibilità, sul piano della legittimità, di applicare con effetto retroattivo le nuove aliquote anche nelle descritte situazioni — proprio sulla base dell’esaminata regola sugli acconti di cui al citato comma 18 dell’articolo 6 sembrerebbe potersi desumere «a contrariis» che, con riguardo ai periodi d’imposta chiusi prima del 31 dicembre 1999, le modifiche delle aliquote non interferiscano neanche sui versamenti dell’imposta a saldo. Anche tale questione meriterebbe di essere affrontata dal ministero delle Finanze. Va aggiunto, però, che ove si propendesse per l’applicabilità retroattiva delle nuove aliquote anche per i periodi già chiusi e con termine per il versamento a saldo già scaduto, dovrebbero essere fornite idonee istruzioni attuative; ferma restando, comunque, l’inapplicabilità delle sanzioni, nel rispetto dei principi posti dal Dlgs n. 472 del 1997, nei confronti dei soggetti che abbiano eventualmente liquidato l’imposta in base all’aliquota inferiore (5 per cento) vigente al momento del suddetto termine di scadenza del versamento.

 

 
 
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Aggiornato il: 15 luglio 2000